Il prelato che ricostruì il volto di Catania dopo il terremoto del 1693
Ore venti e tre quarti dell’11 gennaio 1693: un sisma catastrofico colpisce la Sicilia orientale, causando decine di migliaia di morti, e radendo quasi al suolo 77 città. A Catania, dove stando alle fonti perì oltre il 60 % degli abitanti, si salvarono solo le absidi del Duomo, il teatro greco e il castello Ursino.
Il Viceré di Sicilia don Francesco Paceco, duca di Uzeda, all’indomani del devastante evento inviò sui luoghi del disastro Giuseppe Lanza, duca di Camastra, con l’incarico di presiedere all’opera di ricostruzione, conferendogli pieni poteri. Questi concepì un asse principale rettilineo, “dal mare fino alla montagna”, la via Uzeda, oggi via Etnea, attraversato da assi perpendicolari, destinati in breve tempo a ripopolarsi di edifici.
Così Catania, all’alba del XVIII secolo, si era trasformata in un cantiere in fermento per la ricostruzione, voluta fortemente anche dal suo vescovo, mons. Andrea Riggio, che si era avvalso dell’opera di tutti gli architetti e delle maestranze del momento, come Girolamo Palazzotto (cui affidò il rifacimento della Cattedrale), Alonzo di Benedetto, gli Amato, i Battaglia, i Longobardo…
Proprio all’alba di quel secolo, il 3 febbraio 1702, da Gerlando, intagliatore, e da Francesca Mancialardo, vedeva i natali, nella lontana Palermo, l’artista che, più di tutti, avrebbe legato il suo nome alla rinascita di Catania: Giovan Battista Vaccarini.
Egli studiò teologia e scienze, acquistando una notevole competenza in campo idraulico, sì da essere nominato “architetto primario” dal Senato di Palermo.
Dopo un breve tirocinio in patria, chiamato a Roma dal cardinale Ottoboni, noto mecenate, vi frequentò l’Accademia di San Luca, studiò con Carlo Fontana, ed ebbe modo di conoscere l’opera del Bernini e del Borromini e, determinante per la sua produzione più tarda, del Vanvitelli, se, rifuggendo dagli eccessi e dalla “bizzarria” del barocco, si avviò a soluzioni più sobrie e prossime alla visione neoclassica.
Nel 1729, a soli 27 anni, fu invitato dal suo concittadino, il vescovo palermitano Pietro Galletti, che si era appena insediato nella Diocesi di Catania, “… nominato dal Galletti canonico secondario della nostra cattedrale, gli veniva contemporaneamente conferita la docenza e la nomina di Sovraintendente delle fabbriche dell’Almo Studio, per cui aveva disegnato le piante della corte. Intanto, avendo egli elaborato già il superbissimo progetto di massima del prospetto della chiesa cattedrale, il vescovo Galletti volle gettare la prima pietra delle fondamenta (27 marzo 1731)”, riporta il Policastro.
Molti erano gli architetti presenti e operanti al momento nella città etnea, che tentava di risorgere dal disastro del sisma (Alonzo di Benedetto, Antonino Amato, ed altri ancora), e numerose le maestranze di intagliatori, ma nella loro visione perduravano ancora le suggestioni dell’ornato barocco, ed una concezione piuttosto provinciale, mentre l’avvento del Vaccarini, che portava con sé l’esperienza e la scuola romana, era destinato a dare una spinta di rinnovamento.
Il suo nome è legato a molti tra gli edifici sacri e civili più rappresentativi della Catania settecentesca. Nella città etnea, divenuta sua patria d’adozione, trascorse ben trent’anni.
Scrive Lucio Sciacca: “Di animo nobile, mite di temperamento, pio e generoso, il Vaccarini conquistò la stima dei catanesi” (mentre la città natale lo aveva trattato con una certa indifferenza), tanto che il Senato cittadino, con delibera del 28 novembre 1735, gli conferì la cittadinanza onoraria, considerati “le virtù, l’ingegno, le facoltà artistiche delle quali il Rev.mo e ill.mo Don Giovanni Battista Vaccarini, palermitano canonico secondario di questa Cattedrale, è ornato…”.
I lavori per la Cattedrale furono lunghi e lenti, non privi di critiche, gelosie e contestazioni, da parte di chi ambiva all’incarico, tanto che a un certo momento l’architetto volle sottoporre il suo progetto all’Accademia di San Luca, ottenendone l’approvazione. Vaccarini lavorava contemporaneamente, con dinamismo, al Palazzo Senatorio.
Nel 1736 erigeva la Fontana dell’Elefante, creando così, una dopo l’altra, le quinte di quel magnifico scenario che è la Piazza del Duomo di Catania, e della quale il Duomo stesso costituisce il fondale, “… vera e propria opera di sistemazione urbanistica dell’edificio religioso nello schema viario circostante…” (Boscarino).
Proprio nel 1736 l’architetto decise di mettere radici nella città che l’ospitava, realizzando la sua casa alla marina, la Domus Vaccarini, dal 1941 dichiarata monumento nazionale.
L’aveva voluta nel suo quartiere prediletto, la Civita, vicino a quella chiesetta del SS. Salvatore, a picco sul mare, dove celebrava la Messa e sostava in preghiera con i suoi collaboratori, e all’ingresso vi aveva collocato un busto di S. Agata. Edificio singolare, dove il progettista poté esprimere più liberamente la propria genialità.
“In contrada S. Francesco di Paola, piccola costruzione a due elevazioni attestata su tre fronti stradali, che riveste un particolare significato umano e civile, perché il Vaccarini … può dare un saggio delle sue preferenze. …Si apre sul mare in un elegante portichetto, che si trasforma in terrazza al primo piano, con la caratteristica transenna traforata al posto dei balaustrini” (Boscarino).
Nell’anno 1745 è nominato lettore alla cattedra di Matematica dell’Almo Studio, cattedra poi soppressa per lo scarso afflusso di studenti. Nel 1747 torna nel capoluogo, facendo solo saltuarie apparizioni a Catania, per attendere ad altre opere.
Nel 1756 Vaccarini soggiornò per breve tempo a Napoli, dove frequentò Luigi Vanvitelli, collaborò con lui nella scelta dei marmi per la Reggia di Caserta, e poté aggiornarsi studiando le opere dello stesso Vanvitelli e di Ferdinando Fuga: gli effetti sono visibili nelle sue ultime architetture catanesi, di gusto più misurato e prossimo a quello neoclassico.
Poche e incerte le notizie circa il periodo trascorso a Palermo, sembra che curò un progetto di restauro del Duomo (1752) e prese parte ai lavori di restauro della Casa Grande del principe Alliata di Villafranca in piazza Bologni (1751-58), se si eccettua la partecipazione, con esito peraltro negativo, al concorso per l’Albergo dei Poveri di Napoli. Controverso è anche il giorno e la località della sua morte, avvenuta secondo alcune fonti a Milazzo il 12 febbraio, secondo altre nella stessa Palermo, l’11 di marzo dell’anno 1768.
Ma tornando alla produzione catanese, non è facile redigere un catalogo completo della sua intensa produzione artistica, perché alcuni progetti non furono completati da lui, mentre in altre opere intervenne parzialmente, rendendo opinabile l’individuazione dei vari contributi.
Per la Cattedrale, l’abate Vaccarini concepì un prospetto a tre ordini sovrapposti a piramide, inserendo specchi di pietra lavica e marmo, e movimentando le colonne in una rotazione verso l’interno: attento com’era a sfruttare e valorizzare i materiali esistenti nel territorio circostante, volle accoppiare calcare e pietra lavica. Suo è anche il prospetto della chiesa sul lato della via Vittorio Emanuele.
Palazzo Senatorio, poi degli Elefanti, sede istituzionale del Comune, all’arrivo del Vaccarini era già iniziato fino allo zoccolo: egli prolunga fino all’architrave le paraste bugnate, ma rendendole piatte, inserisce nel prospetto una notevole tribuna d’onore con balconata, pensata sopra l’ingresso centrale, e nelle cornici delle finestre al primo piano, alterna le “A” di Agata agli elefanti in bassorilievo, con evidente richiamo ai simboli della città. Il lato di tramontana, assai più fiacco, sarà completato da Carmelo Battaglia.
La Fontana dell’Elefante, simbolo della città, è posta al baricentro della piazza. Il liotru, sorta di nume tutelare per i catanesi, recuperato dalle macerie della Loggia (così si chiamava il Palazzo di città prima del terremoto), fu rimesso in sesto da Vaccarini, che vi inserì l’obelisco, il globo, le palme e la tavoletta di S. Agata. Pur con gli evidenti richiami che vi si sono voluti vedere con il “Pulcin de la Minerva” di Roma, in essa volle riassumere i simboli della città, della sua storia e della sua cultura, rappresentando tre civiltà: la cristiana (l’iscrizione agatina, il globo sormontato dalla croce), l’antica (l’obelisco con i geroglifici), la sicula (l’elefante).
Piazza Duomo, la platea magna, così riqualificata dall’architetto, è una felice soluzione di spazio urbano, sede di manifestazioni religiose e laiche, di eterno e di effimero, “polo di attrazione preferenziale sia nel tempo ordinario che in quello straordinario” (Nicolosi).
È il luogo deputato all’intersecarsi della Catania civile con la Catania della fede, per la compresenza degli edifici più rappresentativi del potere ecclesiale e di quello istituzionale, dove la comunità trovava la sua sede di rappresentanza e di aggregazione al tempo stesso.
Nell’impostazione della piazza l’architetto dovette certamente tenere a mente quanto aveva assimilato nella sua formazione romana, tant’è che in essa convergono tre grandi arterie come a Piazza del Popolo (il “Tridente”).
Spazio libero, ma elemento della struttura urbana, nucleo attorno a cui si è organizzata la ricostruzione della città, secondo l’illuminato “piano camastriano”, la piazza ha come fulcro il rapporto tra la cattedrale e il Palazzo senatorio, tra questi e lo “stradone di Uzeda”, la fontana materializza un centro e un punto di vista, mentre la continuità è data dai pieni dei palazzi e dai vuoti delle strade, e dall’uniformità decorativa (bugnato, modanature, elementi plastici).
Tra le tante realizzate a Catania, un’altra opera è il Palazzo S. Giuliano in piazza Università (1747), semplice nelle linee, ma con un notevole partito centrale, amplificato dal portale d’ingresso che reca il nome e la data 1745, ed ancora le corti del Palazzo dell’Università, il Siculorun Gymnasium (1730), di quello analogo del Convento dei Gesuiti (1747) e di quello più tardo, a pianta circolare, del convitto Cutelli, realizzato questo con Francesco Battaglia, con i loro portici a colonne e i cortili lastricati a ciottoli lavici con volute di marmo.
Per il Monastero dei Benedettini (1743) realizzò l’ala con il refettorio, il museo, la biblioteca. Progettò poi il Laberinto, per conto del principe Ignazio Biscari, nel giardino dei principi Paternò, che sul finire dell’800 sarà inglobato nella Villa Bellini, e la Chiesa Madre di Nicolosi.
Ma i suoi capolavori sono considerati il Palazzo Valle in via Vittorio Emanuele, dalla tribuna aggettante, con il bellissimo balcone centrale dall’elegante ringhiera, collegato al portone sottostante con cui fa tutt’uno mediante mensole articolate e colonne che partono da pilastri ruotanti, e la chiesa di S. Agata alla Badia.
La piccola chiesa, dove probabilmente sviluppò spunti borrominiani di S. Agnese a Piazza Navona, è un autentico gioiello, universalmente considerata la sua opera più riuscita e originale, per il gioco prospettico e la finezza stilistica, gli costò 32 anni di attività, dal 1735 al 1767.
Edificio destinato alle suore di clausura del contiguo monastero, in essa convergono e si fondono felicemente i divergenti echi berniniani e borrominiani.
La gelosia panciuta di ferro taglia il prospetto all’altezza dei capitelli, celando due vani da cui le suore assistevano alle processioni, le grate bronzee poggiano su frange berniniane, la decorazione della cantoria dall’interno irrompe all’esterno.
Vaccarini dà il meglio di sé, specie nei capitelli, dove adotta le palme e i simboli della martire Agata.
Il prospetto è giocato su un effetto di concavità e convessità che si alternano, all’ingresso e nei laterali, mentre nel parapetto il rapporto convesso-concavo si inverte; la pianta è centralizzata, la cupola si collega al tamburo poligonale mediante costoloni.
La Badia si raccorda al complesso di piazza Duomo di scorcio, come una quinta, in una soluzione tipicamente barocca.
Molte poi le opere attribuite:
Palazzo Asmundo, la Chiesa S. Giuliano, Palazzo Reburdone, Palazzo Serravalle, i portali delle chiese della SS. Trinità e dell’Indirizzo, Palazzo Villarmosa, oggi del Toscano; lo storico dell’arte Vito Librando gli attribuiva la Chiesa dell’Ogninella, e ravvisava suoi interventi nell’ingresso della Badia di S.Benedetto. Secondo altri studiosi, nella storica via dei Crociferi dev’esserci necessariamente la sua impronta.
Ma Vaccarini lasciò una traccia importante nell’assetto urbano della rinascente città, improntata ad una concezione degli spazi armonica, decorosa, stilisticamente coerente, senza prescindere dal contesto architettonico barocco, ma superandolo in una visione più sobria e composta.
Imprimendo alla città l’impronta del suo genio, l’opera sua segnò una svolta nell’architettura catanese, sprovincializzandola, e anche nel barocco locale, che diventò da allora “meno ampolloso e più contenuto”.
Lucio Sciacca, tracciandone il profilo nella pubblicazione “Il Palazzo degli Elefanti” (Palermo, 1983), così definisce il Vaccarini:
“Un architetto di talento… al di sopra di questo, l’abate Giovan Battista Vaccarini … fu un puro di cuore.
Onesto fino allo scrupolo, generoso, dignitoso, aperto a tutte le sollecitazioni del sentimento, visse la sua vita amando Dio e il prossimo, ma non certo in contemplazione. Ecclesiastico, architetto, galantuomo per vocazione e temperamento…
I comportamenti, i fatti, gli episodi, le opere che caratterizzano il quasi trentennale servizio di quest’uomo in città, al di là d’ogni considerazione sulla validità artistica dell’arte sua, dimostrano innanzitutto una luminosa verità: prima del suo lavoro, prima di sé stesso, prima d’ogni altra cosa, egli amò Catania” E ancora: “La mole del lavoro che portò avanti… fu tanto grandiosa da destare, ancora oggi, ammirazione e stupore insieme” Eppure si accontentò di in modesto salario, anche per quei tempi (2 onze al mese). “Quest’uomo chiude un capitolo e ne apre un altro, nel gran libro del barocco catanese”. Nella realizzazione del Palazzo “traspare non solamente il talento dell’architetto ma anche il calore dell’uomo” (ibid.), perché quello che legò Vaccarini con la città della martire Agata, con questa giovane città totalmente ricostruita dopo il terremoto, fu un rapporto preferenziale. Il Senato cittadino in vista di ciò gli conferì la cittadinanza onoraria.
Il suo nome va ad incastonarsi in quel processo coerente, armonioso, che fu la ricostruzione di Catania, e che diede alla città quell’impronta squisitamente e sobriamente barocca che la rende pregevole e che tuttora si può ammirare. Oltre che architetto egli fu anche, squisitamente, urbanista:
“Con animo puro, si calò nell’ambiente (veniva da Roma e di visioni romane aveva pieni gli occhi e l’anima), e in breve divenne, per spirito e mentalità, il più catanese degli architetti, il più geniale e fedele interprete delle esigenze, delle aspirazioni, delle ambizioni della rinascente città” (ibid.).
(Articolo pubblicato su Cultura e Prospettive n. 25, Supplemento a Il Convivio n. 59, Ottobre – Dicembre 2014)