La Baronessa Giovannella De Quadro
Giovannella De Quadro, conosciuta oggi come De Quatris (1444 – 15 luglio 1529, ma nonostante le documentazioni, non tutti gli studiosi concordano spostando la morte al 16 luglio o all’anno 1519) fu una nobile Baronessa che visse nell’arco della sua vita prima a Catania e poi a Randazzo, dove acquisì un ruolo di primo piano.
Le origini della famiglia De Quadro furono scoperte solo di recente, il padre della Baronessa si chiamava Giovanni De Quadro e invece suo nonno si chiamava Gomes De Guadro (detto anche Gometro, Gomezio, Gomecio, Gomecii e Gomecium come riportano alcuni documenti storici), catalano giunto in Sicilia, ebbe un ruolo di primo piano nella città di Catania dove sposò la figlia del nobile Raimondo Capitano di Giustizia della città, alla presenza anche dell’infante Pietro fratello del re e del fratellastro Federico d’Aragona conte di Luna e successivamente divenne anche Patrizio di Catania.
Il nonno della Baronessa conobbe sicuramente il Governatore di Malta Gonsalvo Monroi (detto anche Gondisalvo Monroy o Murroi) che gli cedette i feudi detti “Flascino, Flaxio o Frascino e Briemi o Brieni” oggi Flascio e Brieni.
Il cognome della famiglia fu modificato da Giovanni suo padre, che nel suo giuramento di fedeltà al re riportava: “Giovanni De Quadro figlio di Gomes De Guadro”, si trattava quasi sicuramente di una traduzione voluta forse per nascondere le origini catalane o per favorirne la pronuncia nell’idioma volgare dell’epoca. Da questo momento in poi De Quadro diventa il cognome della famiglia, ma con la Baronessa fu poi nuovamente mutato da Quadro a Quattro, Quattris, Quadris fino all’attuale De Quatris che poi fu adottato da tutti, anche dai diversi studiosi.
Tuttavia De Quatris è più un soprannome come riporta l’iscrizione nel suo monumento funebre in cui si specifica “detta De Quatris” a sottolinearne quasi la non originalità di questo cognome.
Giovannella De Quadro ebbe nel corso della sua lunga vita due mariti; si sposa la prima volta con Pietro Rizzari (??-1512), discendente probabilmente dallo stesso Pietro Rizzari che anni prima fondò l’Università di Catania e che aveva conoscenza presso il re Alfonso. (Infatti secondo diverse fonti, una Tarsia Rizzari fu la concubina del re Martino I e gli diede anche un figlio il futuro Federico Conte Di Luna, di cui re Alfonso era per l’appunto il fratellastro.I siciliani volevano incoronare re proprio Federico, ma gli spagnoli nonostante Federico fosse stato educato in Aragona si opposero giustificandosi contro i suoi natali illegittimi e scegliendo quindi Alfonso).
La Baronessa, non ebbe figli da questo matrimonio e prima della morte del marito fece testamento (nel 1506 ma per quanto riguarda questo testamento pare che forse ci siano altre copie redatte in date differenti, poiché alcune fonti riportano le seguenti date: il 5 marzo 1506, il 23 marzo 1506 e il 28 aprile 1506) affinché con il ricavato delle sue proprietà fosse conclusa la costruzione della chiesa di Santa Maria (oggi Basilica di Santa Maria Assunta) mantenendo l’usufrutto per lei e il marito.
Morto il marito quando ella aveva 68 anni, si sposò la seconda volta con Andrea Santangelo discendente probabilmente dai baroni del Cattaino e secondo le fonti esso prese investitura dei feudi solo nel gennaio del 1517. Non fu ovviamente un matrimonio per avere dei figli, vista l’età avanzata, ma sicuramente di comodo o come azzarda qualche studioso per ragioni patrimoniali, oppure perché si suppone che Andrea Santangelo rivendicasse i feudi appartenuti ancora prima di Monroi dai suoi avi.
Andrea Santangelo entrò quindi come usufruttuario e secondo le fonti, ostacolò non poco gli ecclesiastici di Santa Maria nella costruzione della chiesa, ma finché la Baronessa era in vita tutto fu fatto secondo quanto da lei disposto.
Alla morte della Baronessa (morì all’età di 85 anni) nacquero infatti diverse questioni e furono promulgate persino scomuniche papali affinché nessuno potesse ostacolare quanto da lei disposto. Le due parti coinvolte erano la chiesa e il comune che a nome della comunità dovevano preservare gli interessi della nuova “Opera Pia” e di cui numerosi studiosi si sono documentati, anche schierandosi delle volte apertamente per l’una o per l’altra parte, fino a quando le ultime sentenze che ne definirono l’assetto oggi vincolante dell’Opera Pia della Baronessa Giovannella De Quatris la divisero fra le parti coinvolte.
Il testamento diventò presto una questione complessa, che divise il paese per molti anni circa 3 secoli; infatti esso dichiarava che la Baronessa non aveva parenti oltre ad un nipote figlio illegittimo di un Francesco De Quadro chiamato Cosma o Comisso, ma alcuni studiosi riportano anche di una sorella della Baronessa (una certa Tuccia) che dopo la sua morte reclamava una parte dell’eredità e si suppone che tale Francesco De Quadro potesse essere un fratello della Baronessa deceduto all’epoca del testamento, così da giustificarne sia il grado di parentela con Cosma e sia la dichiarazione di non aver più parenti in vita, ma a tal proposito non sono state trovate fonti sufficienti per dissipare ogni dubbio e confermare quanto supposto.
In sintesi il testamento prevedeva che le onze ricavate dai feudi Flascio e Brieni servivano per:
1-La “Maramma” o “Fabbriceria” della chiesa di Santa Maria
2-Al completamento della chiesa, doveva costruirsi un Ospedale per i pellegrini
3-8 onze a vita venivano disposte per Cosma De Quadro
4-10 onze da destinare il 14 Agosto di ogni anno per matrimonio o ordine sacro alle giovani di famiglia nobile decaduta.
5-Per vigilare su quanto chiesto istituisce dei “Procuratori” laici eletti dai componenti della parrocchia e dal clero a condizione che siano persone oneste e di provata fede.
6-I feudi non potevano essere venduti o trasformati, ma dovevano servire solo per la causa testamentaria espressa.
7- I Procuratori trasgressori della sua volontà dovevano rendere conto ai “Giurati”.
Con gli anni le rendite aumentarono e le disposizioni iniziali divennero poi ricordo al completamento di quanto stabilito e così secondo alcune fonti, furono poi distorte per altri fini come: ai canonici per servire messa, all’organista o per altro scopo che fecero seguito a continue dispute tra il comune che intendeva amministrare per sé l’Opera e la Chiesa che ne richiamava diritto.
Con il ricavato dei suoi feudi inoltre è stato realizzato anche l’altare della Chiesa di Santa Maria e lo ricorda anche il suo stemma nobiliare posto in cima e poi altre diverse e numerose opere, anche su disposizione del Vescovo di Messina che ottenne parte delle rendite per il completamento del Seminario diocesano, tuttavia queste opere che studiosi si sono chiesti se legittime, hanno forse dato ancor più valore alla grandezza della Baronessa, anche dopo la sua morte, perché portano tutte il suo nome e la sua generosità testamentaria.
Nel corso degli anni alla Baronessa le fu attribuita anche la proprietà di un libretto in avorio, ma indagini hanno constato la presenza di questo già nell’Archivio dei Beni della Chiesa nel 1477, cioè già da quando la Baronessa aveva 33 anni e che forse invece rappresenterebbe una donazione fatta alla chiesa di Santa Maria da qualsiasi devoto, ma attribuitele forse per dare un maggiore riconoscimento al valore del manufatto.
Intorno al 1790 inoltre la tomba della Baronessa fu aperta per via di un trasloco e il “Decano Canonico” di allora Antonino Vagliasindi, dichiarò in una lettera, che la Baronessa fu trovata intatta e che con lei vi era solo una corona di rosario in ambra che però gli prese per mandarla con altri suoi abiti e il libretto (nonostante non fosse con lei sepolto, a suo dire era appartenuto alla Baronessa), ad un ritrattista e ad uno scultore di Palermo, che quindi inventarono secondo la descrizione scritta del Decano il viso della Baronessa, avendo come indicazioni perfino i nei del viso.
Il ritratto e il busto custoditi oggi nella Chiesa di Santa Maria, non corrispondono quindi al vero, ma più che altro alle fantasie dei loro creatori, secondo le disposizioni del Decano che voleva omaggiare la Baronessa per via della sua preziosa donazione, che con gli anni aumentava di profitti.
La Baronessa Giovannella De Quadro è stata ed è ancora oggi una figura importante per la storia e la cultura di Randazzo, lo testimonia il suo atto di generosità a disposizione dei randazzesi.
I diversi misteri che riguardano la sua vita, hanno sicuramente contribuito a darle una maggiore riconoscenza e un maggiore interesse, ancor oggi avvertiti con curiosità da parte di tutta la città di Randazzo.
Per ulteriori informazioni si rimanda al libro “De Quadro – Una storia prende vita” di Emanuele Mollica
Giovannella De Quatris, una grande baronessa
La storia del nostro paese non è grande solo grazie a uomini, ma anche a donne: un ruolo importante sicuramente l’ha avuto la baronessa Giovannella De Quatris.
Non è certa la data della sua nascita, ma si può stabilire intorno al 1444 a Catania, perché nel sarcofago è presente la seguente frase:
“Vixit annos LXXXV” cioè “visse 85 anni” e la data della sua morte, 1529.
Il cognome ne rivela le origini aragonesi. Trasferitasi a Randazzo, in seguito al matrimonio con Pietro Rizzari, non riuscì mai a realizzare il sogno di avere figli.
Vivendo e pregando nella chiesa di S. Maria, con gli abitanti di Randazzo, aveva potuto constatare la povertà e la miseria in cui molti vivevano e proprio per questo motivo decise di donare, con atto del 23 marzo 1506, alla chiesa che tanto amava, due feudi, Flascio e Brieni nel territorio di Randazzo, affinchè ne venisse realizzato il completamento.
Tale chiesa era stata luogo molto importante per la baronessa perché vi aveva potuto esercitare la fede in Dio con grande devozione.
Alla chiesa donò anche suppellettili vari, per l’abbellimento della stessa, come il famoso libretto scolpito in avorio, all’interno del quale si trovano foglietti in pergamena con delle miniature che rappresentano i misteri della passione di Cristo e le preghiere da lei recitate, descritte attraverso immagini, in quanto la Baronessa non sapeva leggere, essendo negato alle donne dell’epoca l’apprendimento attraverso la lettura.
La generosità di Giovannella è evidenziata dal fatto che la sua eredità si estende non solo alla Chiesa, ma anche alla vita di giovani donne; infatti con il testamento dispose che le giovani nobili decadute usufruissero di lasciti (10 onze il 14 Agosto di ogni anno) per la dote del matrimonio o di monacazione.
Un vitalizio di 8 onze all’anno fu lasciato anche al figlio illegittimo del padre.
Morto il marito Pietro Rizzari, Giovannella a distanza di un anno si risposò con Andrea Santangelo.
Grazie al suo lascito, nella Chiesa di S.Maria, nonostante le controversie con l’ultimo marito, che usufruì del feudo di Brieni fino alla morte (1560), furono molti i lavori e gli abbellimenti fatti.
La chiesa man mano assunse una forma decorosa e monumentale, per le snelle colonne gotiche, i capitelli floreali stilizzati, gli archi acuti, solenni e agili, e infine per l’immagine della bella Madonna di fattura bizantina posta sull’altare. La chiesa fu dotata di altri ornamenti, come nel 1567 l’imponete Ostensorio processionale, in argento dorato, che tuttora fa parte del suo tesoro.
Grazie all’eredità della baronessa De Quatris, quindi, si è potuta realizzare la bella Basilica di S.Maria, simbolo del nostro paese.
Anna Bagiante (Liceo Classico “Don Cavina” Randazzo ).
” a Vara” dedicata all’Assunta, è una suggestiva tradizione che dal 1500 è giunta fino ad oggi.
La storia non lo afferma con sicurezza ma, da scritti dell’epoca, da leggende e dalla memoria popolare, si fa risalire l’istituzione della festa alla baronessa Giovannella De Quatris. Sotto il suo patrocinio bravissimi artisti, artefici realizzarono il “Carro Trionfale” detto nel gergo popolare ” ‘A Vara ” la stessa nobile Giovannella, si dice abbia lasciato l’incarico alla Chiesa di S. Maria, oggi Basilica Pontificia, di tramandare ai posteri la manifestazione, dotandola all’uopo anche di mezzi finanziari, oggi sostenuta dalle amministrazioni comunali e dai cittadini.
“‘A Vara “ viene allestita non perdendo nulla della originaria magnificenza e dei simbolismo primitivo.
Il sostegno centrale, un grosso tronco dei diametro di 40 cm., non è fisso, ma compie un movimento rotatorio continuo, che ha per immediata conseguenza la rotazione di tutto l’apparato, comprese le persone e le due grandi ruote già per se stessa mobili in altro senso. Dalla base al vertice dell’enorme ” simbolo ” si inseguono centinaia di figurine ornamentali in rilievo, nuvole d’argento, specchi a profusione delle dimensioni più svariate, una miriade di scaglie d’oro, argento, smeraldo, arancio, zaffiro.
Il brillìo gioioso di tanta ricca veste, i barbagli vivissimi che gli specchi lanciano colpiti dai raggi solari bastano da soli a sottolineare l’apoteosi della Vergine che accede al Trono dell’Eterno.
Il carro base ha un’ area di 1 8 mq. e ospita oltre al tronco centrale, un altarino con la reliquia della Madonna. Attorno all’ara trovano posto sacerdoti e chierici. Il complesso misura da terra al sommo vertice quasi venti metri.
Padre Luigi Magro da Randazzo, al secolo Santo Magro (1881-1951), dei Frati Minori Cappuccini nel suo libro ” Cenni Storici della Città di Randazzo” tratta molto dettagliatamente la questione della donazione della baronessa Giovannella De Quatris e di tutte le conseguenze che da essa derivarono.
Per un maggiore approfondimento vi rimando al suddetto libro ( cap.9 pag.258 ) che puoi trovare nel profilo di Padre Luigi Magro.
IL LIBRO DI PREGHIERE
DI GIOVANELLA DE QUATRIS
Gelosamente custodito nel tesoro della cattedrale, il libro di preghiere di Giovannella De Quatris, (1444 – 15 luglio 1529) , nobile randazzese della fine del quattrocento, chiude fra due valve eburnee, intagliate duramente a basso rilievo, tre lamine pure esse eburnee, sulle quali poggiano attaccate e leggermente erose per lungo, ascetico uso, sei paginette in pergamena.
Il piccolo codice, sul quale la baronessa De Quatris, illetterata, posava lo sguardo a contemplare i misteri della vita e passione di Cristo, misura, aperto, cm. 10×13.
Le valve del dittico che formano come due coperture di guardia al codice miniato, sono divise in due zone. La prima contiene la Crocefissione in alto, e la Resurezzione in basso, l’altra rispettivamente l’Incoronazione e il Transito di N. D.
Una cornice ricorre sopra ogni riquadro e consta di una serie di archetti pensili, ciechi di coronamento.
Sono archetti acuti cuspidati, col giglio apicale di gusto francese e aragonese come se ne rivedono in tutte le tarde forme gotiche sotto la dinastia aragonese in Sicilia: in S. Giorgio a Ragusa Ibla, nell’arco di S. Maria di Gesù a Modica.
L’artefice del dittico ha voluto – con evidente squilibrio di tutto il valore ornamentale – decorare con fogline rampollanti anche la convessità degli archi i quali, nell’intradosso non portano l’arco tribolo come nel tardivo gotico francese dal quale derivano molti, intagli eburnei del tempo, ma hanno l’intradosso liscio e a larga bi concavità come nel gotico siculo.
Egli nell’ingenuo sforzo per riempire tutti gli spazi vuoti con figure che dovrebbero concorrere alla risoluzione dell’episodio mostra subito, co l’accavallamento delle figure stesse senza alcun tentativo di gioco prospettico – non ancora risoluto nell’epoca del dittico – un arcaismo dal quale non si salvano in Sicilia neanche i pittori più egregi.
Anche nella coimesis l’artista segue ancora lo schema bizantino dei mosaici e delle pitture su tavola di Sicilia; e non è da far le meraviglie se – data la persistenza iconografica bizantina in Sicilia – nella Chiesa di S. Maria in Randazzo e nella Chiesa dell’Annunziata in Comiso, Giovanni Caniglia (1548), pittore del cinquecento, arcaico ma non privo di piacevolezza e di originalità in certe gamme cromatiche e in certi impasti, nel transito di N. D. segua pure lo stesso schema iconografico.
Ma nel riquadro del dittico, la sproporzione delle mani e delle teste che vorrebbero dare grandiosità e solennità, quel fare convenzionale dei capelli a masse parallele sfuggenti, trovano compenso nell’illeggiadrirsi delle pieghe naturali soavi attorno alle gambe della Madonna e attorno al corpo della figura accasciata e implorante a lato della bara, La madonna è tutta chiusa nella linea soave creata dalla curva del capo poggiante sul cuscino approntato da mano pia, mentre il volto ristà soffuso da uno spento sorriso smarrito.
E le mani stilizzate, si incrociano con purezza, se pur convenzionalmente, al di sopra del drappo scendente in dure e orbacee pieghe del cataletto.
Non è dubbia, in tutto il riquadro, l’influenza del goticismo francese che per questa opera arriva in Sicilia con un’ondata quasi spenta: basti pensare ai due avori francesi del XIV conservati al Louvre e pubblicati dal Malet. Ma negli avori del Louvre, nonostante l’insistenza dell’attitudine ieratica e convenzionale, la lunghezza delle mani eccessivamente affusolate, c’è nell’artista gotico una consapevolezza e una padronanza del senso decorativo che ci stupisce, un equilibrio nelle masse, in così dolce trapasso di piani nell’avvicendarsi delle pieghe ! E tanto armonica la linea decorativa sottintesa nelle figure secondarie e in special modo negli angeli tubicini e osannanti, che l’occhio ne rimane fermo e sorpreso.
Invece del dittico di Randazzo eco lontana di quelle forme originali nobilissime che in tono minore ci riportano alla scultura monumentale dei portali e dei protiri delle cattedrali francesi, specie nel riguardo della coimesis , si sente un artista nostrano e primitivo nella distribuzione delle parti, che sostituisce alla fluida bellezza dei nordici modelli una robustezza anatomica delineata con rozzezza tagliente e con angolose sporgenze e rientranze: è musica insomma, concepita quasi, in tutte quattro i riquadri, in toni naturali, senza semitoni di trapasso.
Maggior senso di proporzione, di dominio degli spazi, si ritrova nelle altre tre figurazioni. L’espressione dei volti riesce talora caricaturale poiché l’artista, nel definire coll’intaglio la mimica facciale, procede per approssimazione. Riso infatti, più che celestiale e ispirato sorriso, è quello dell’angelo che incorona Maria: allungatissime, forse a indicare il culminare del momento mistico e solenne, le dita benedicenti dell’Eterno, dell’Apostolo del Cristo nei due episodi della prima valva e nell’episodio basilare della Resurrezione nella seconda.
In alto, a destra, nell’episodio della Crocefissione, lo spazio, diviso longitudinalmente in due dal corpo del Cristo contorto entro la tradizionale curva romanica, contiene due gruppi: a destra Longino e Nicodemo oranti e i soldati, affollati, delineati con aspri incavi che duramente sbalzano il drappeggio; a sinistra il gruppo delle donne, tra le quali Maria, esausta, irrigidita in una smorfia di dolore mal resa e convenzionalmente ottenuta dall’artefice, sorretta da mani pietose che stringono l’affannato torace.
Qui l’ondeggiare e l’accavallarsi delle pieghe, resi con grande sensibilità di massa e per piani progressivi, mostrano come l’artista – meridionale probabilmente per l’atticciatezza delle figure e per la robustezza talora eccessive delle masse – si sia giovato, per l’intaglio, di qualche gruppo di modelli francesi del tardo gotico, mentre ha lavorato con proprio slancio di fantasia e con diverso ritmo creatore attorno a certi altri gruppi.
Nel riquadro della Crocefissione vi sono, tra il gruppo circostante di sinistra e quello di destra, tali profonde differenze di concezione dell’anatomia e del drappeggio che se ne può facilmente dedurre la diversità di modello e d’ispirazione.
Dalla Francia numerosi vennero in Italia ,i dittici eburnei e non è escluso che da noi abbiano avuto larga eco in varie riproduzioni simile, forse della stessa officina d’arte riprodusse il modello dittico, è quello di Sassoferrato (8) in cui però l’equilibrio degli spazi, la battuta larga ed armonica, la proposizione degli scorci anatomici ci portano lontano dal nostro e se mostrano la similarità fanno pur sentire la statura di un artista superiore.
Ma la fonte della Crocifissione è ben riconoscibile : è il dittico della passione della Collezione Hainauer di Berlino. Il taglio quadrato, ancorché rettangolare, del piccolo lacunare contenente la scena, non ha permesso all’artista del dittico di Randazzo di addensare tutti i personaggi entro il riquadro e ha tolto Longino e Nicodemo d’attorno al Crocifisso. E ben probabile poi che il dittico di Berlino sia servito di modello mediato attraverso qualche copia o qualche replica: ché nel nostro dittico, benché le figure siano quelle del modello, più pigiate e addossate , v’è tale sciatteria che non sapremmo immaginare il diretto influsso dell’avorio francese eletto nella forma, squisitamente patetico negli atteggiamenti : del resto, evidente distanza di tempo separa le due opere. La prima, della metà del secolo XIV, la seconda della fine del secolo quando, spento ogni flusso di idealismo – sia pure trascendente e convenzionale – per l’introduzione del realismo straniero, l’arte fu portata a tendenze spiccate verso forme drammatiche e patetiche; certamente, non tutti gli artisti riuscirono compiutamente e rapidamente a togliersi dal solco della tradizione.
Certo, esistono dei modelli perfetti : ma le derivazioni, pur conservando l’iconografia che potremmo dir nuova, mostrano eccesso, banalità, manierismi.
La Vergine negli intagli eburnei tardivi, non sta più diritta fra i due angeli, una si curva verso di loro, sdraiata; nella tragedia del Calvario ognuno, come dice il Malet (9) , si torce sui suoi piedi col più melodrammatico dolore e il Cristo, curvo in due sulla Croce ondulante fra il gruppo delle donne e dei soldati come in balia di un vento violento.
Le forme che la tradizione aveva imposto, imbevute di grazia impeccabile e concludenti gli episodi in disposizioni ingegnosissime donde balzava lo spirito altamente decorativo dell’artista, declinavano ormai; le forme sfociavano in un realismo gretto e greve.
A questo periodo di realismo svisato, mal compreso e mal reso, crediamo che appartenga il dittico di Randazzo; il quale pur avendo con altri – come si è dianzi detto – termini di similarità persino nella cornice archiacuta di gotico fiorito, mostra nell’artista un valente imitatore che pur sentendo qua e là l’eleganza e lo slancio gotici, rimane, a nostro modo di vedere, specie nella durezza delle masse anatomiche e nell’arcaismo della distribuzione, un siciliano della fine del secolo XIV o del primo scorcio del XV.
LE MINIATURE
Di stile più prettamente francese sembrerebbero, in una prima visione sommaria, le sei miniature contenute nel dittico creato per certo a contenerle dopoché esse furono ritagliate da qualche “officium” per servire da guida spirituale alla De Quatris.
Il largo margine vergine che corre attorno alle riquadrature delineate violentemente in sepia e a doppia squadratura, escluderebbero nell’artista la volontà a fare l’opera di decorazione comune ai miniatori palermitani e arabo-siculi che nelle cassette e sulle pergamene, in preda a uno slancio decorativo, ornano di racemi, di ori, di fuseruole, di bacche, di volute, tavole e pergamene.
L’artista qui ha voluto soprattutto rappresentare; l’elemento decorativo è spostato: da esterno diventa intimo e concorre a rendere soprannaturale la scena che nella rappresentazione delle figure cerca di essere realistica o, per lo meno, naturalistica. Le figure, manchevole nel nudo, ma sode e ben postate quando sono vestite perché l’artista conosce il ritmo delle pieghe cascanti secondo la legge della gravità, profilate con precisione si ché coll’avvicendarsi delle e delle ombre ne risulti modellato tutt’altro che debole, sono immerse in un’atmosfera di sogno, talora, come nell’Annunciazione, sotto un cielo convenzionale in cui lo razzare della luce è inquadrato in una rete di righe aurate a quadri. Vano è parlare di veridicità cromatica, di corrispondenza al vero di pittura e tanto più quando si parla di miniatura; ad ogni modo l’artista non vuole solamente liricizzare il colore locale delle cose ma vuole addirittura portarci in un ambiente irreale nel quale si svolga però l’episodio con palpito e con naturalezza umana : l’artista vuol giungere al mistico attraverso l’equilibrio tra il reale plastico delle masse anatomiche e l’irreale convenzionale del colore ambientale e paesistico.
Il sacro lungo uso del delizioso libretto attenuato qua e là le tinte senza però troppo scialbarle né logorarle; l’effetto cromatico è ancora completo. Il cielo, nella scena dell’Annunciazione, che nello schema iconografico segue quello della corrosa Annunciazione della finestra basilare del trecentesco torrione di S. Martirio, è purpereo, e di un cremisi cupo è nella scena del Cristo alla Colonna.
Quest’ultimo episodio, ingenuo nella rappresentazione degli alabardieri resi male per l’inversione della statura che porta a una errata valutazione della distanza prospettica , e ingenuo ancora per la goffa apparizione dell’Eterno, pur essendo dello stesso maestro che ha miniato gli altri fogli, mostra più a nudo le qualità negative dell’artista che nelle altre miniature se scopre delle manchevolezze attribuibili all’epoca in cui egli operò, mostra d’altra parte qualità di disposizione delle figure e soprattutto una spiccata tendenza alla musicalità del colore che ritroviamo poi sviluppate solo nel tardo quattrocento, nelle miniature palermitane.
Nella scena dell’Annunciazione Maria, serenamente atteggiata, con un rotulo svolto sulle gambe, in ambio manto celeste lumeggiato dall’artista con un cobalto sereno che si risolve in accordo coll’azzurro d’oltremare delle pieghe cupe, profonde, sinuose, elegantemente contenute, ristà sotto un baldacchino di cadmio tutto dorato dai raggi del sole; l’angelo in lucco rosso e con ali acutissime che rammentano quelle delle miniature francesi del trecento, è genuflesso; e divide architettonicamente lo spazio in diretta corrispondenza coll’oggetto del baldacchino: da un ornato porta fiore emergono fogli e gigli; la scena si svolge su un pavimento a scacchi verdi e neri che chiedono con tono freddo e intonato tutta la gamma cromatica della composizione. La scena della Visitazione si svolge entro un recinto limitato da un incannicciato, il tradizionale e ancor comune “cannizzu” siciliano che si rivede anche nella Natività né mi pare sia questo un riempitivo di indole nordica.
Torrioni apparsi nella lontananza che li separa, si ergono in alto, sulla collina retrostante. Anche qui il rosso mattone della veste di S. Elisabetta, è intonato colle tinte espresse nella miniatura. Più solida nel colore è la miniature della Presentazione al Tempio; stridente pel contrasto che nasce da gridellino dell’abito di Giuseppe di fronte all’azzurro di cobalto del manto della Madonna immersa in una fiamma convenzionale, amplissima che la circonfonde e l’altra raffigurante la Natività; ambedue queste miniature mostrano qualità di disegno e un senso così marcato della plastica e della profondità – che diventa ammirevole risoluzione prospettica nello sfondo della trabeazione, costituito da un loggiato – da far pensare quasi che l’artista abbia cominciato dalla Crocefissione e dal Martirio alla colonna e che dopo varie incertezze e inciampi nella risoluzione dei vari problemi anatomici e paesistici abbia meglio padroneggiato i suoi mezzi sboccando con vero lirismo pittorico in quelle figurazioni che cronologicamente sono anteriori nella vita del Redentore.
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Ma ci occorre il problema del collocamento cronologico e della provenienza.
Dissi sin da l’inizio che le miniature appaiono francesi. Ed è verosimile che l’artista sia stato educato a modelli francesi. Un’analisi minuta ci porta ben lontani. Nelle presenti miniature il convenzionalismo, se c’è non è gotico; è nel colore e questo può essere frutto di quella spiccata tendenza al colore irrazionale che i siciliani ereditarono dai bizantini e dagli arabi.
Né vale che spesso siano state illustrate leggende cavalleresche o sacre di sapore provenzale come nello steri o nel tetto di S. Nicolò a Nicosia, o nel tetto del Duomo di Messina ; in Sicilia la tendenza al colore irrazionale fu intimo bisogno di decorazione sognatrice, non convenzionalismo di importazione straniera; né d’altra parte affiora in questi fogli miniati quell’eleganza slanciata ma chiusa e fredda del gotico tardivo francese.
Nel Nostro codice, l’elemento figurato, umano o divini, sematico insomma, è reso con quel naturalismo stentato, ma naturalismo, che ritroviamo in Sicilia verso il quattrocento; quivi l’arco acuto comparso prima dell’evento del gotico, scompare presto e il primo rinascimento quattrocentesco ci dà nuovamente l’arco molto schiacciato, quasi a pieno centro, dal quale è bandita ogni idea di goticismo; e ricompare qualche decorazione cosmatesca come nel palazzo Ciampoli di Taormina, nel palazzo Clarentano e nelle case di via dell’Agonia a Randazzo; nella miniatura dell’Annunciazione la decorazione del mur0 di cinta del baldacchino, se pure aprossivamente, rammemmora la decorazione cosmatesca; e nella Presentazione lo sfondo è pienamente quattrocentesco nella semplicità del loggiato, nella rotondità degli archi ; e questo maestro che in luogo di giocare per impasti di tinte preferisce dipingere a forti tinte locali, lumeggiando poi per sovrapposizioni filiformi e chiare, porta nella sua tecnica, nella comprensione prospettica, nella variazione cromatica dei piani, gusto strano e rozzezza e dev’essere stato un primitivo siciliano del quattrocento educato soprattutto alla scuola di quei freschisti della Sicilia centrale che negli affreschi di S. Andrea di Piazza Armerina e di S. Spirito a Caltanissetta fanno sentire come le miniature in questione siano lontana e indiretta filiazione di quegli affreschi.