Olga Foti

Olga Foti

Olga Foti

Nasce a Randazzo nel 1936 e fa in tempo a vedere un “prima” e un ”dopo” della guerra anche per i costumi, la mentalità.
E “il vecchio”, e quel che di “nuovo” malgrado tutto le guerre portano, si trova nella prima parte della raccolta Racconti sparsi nel tempo ed. Robin. 

Appena maggiorenne lascia il paese e va da sola a Parigi per imparare il francese e lì lavora au pair presso la famiglia dello scrittore François Billetdoux.
Una cosa da pionieri, per qualcuno, invece  quasi uno scandalo per la maggior parte dei randazzesi  perché per le donne valeva ancora il detto:

Facci chi non cumpari cent’unzi vari

facci chi cumpari sira e mattina non vari

mancu na busa ri gallina

In seguito ripete l’esperienza in Germania e poi lascia definitivamente Randazzo per Milano dove vive tutt’ora ma ogni anno ritorna in vacanza nel paese che le stava stretto.
Il paese natio bisogna abbandonarlo per ritornarci con amore anche solo col pensiero.
A Milano ha insegnato per molti anni, ha viaggiato soprattutto attraverso l’Asia e l’Africa occidentale.
Come viaggiatrice, non come turista. Adesso si occupa di letteratura.

 

Uno dei tanti incontri per la presentazione della Sua ultima fatica.

 


 

 
Un bellissimo racconto di  Olga Foti

L’AMANTE                                    

 L’Amante aveva le unghie laccate di rosso.

Anche un brillante, grosso come una nocciola, e avrebbe voluto darlo a mia madre se le avesse assicurato il pane – solo il pane – aveva precisato, per il tempo che restavamo sfollati. Eravamo sull’Etna, la Montagna, c’era la guerra.
L’Amante era arrivata dalla città con un uomo che si chiamava anche lui l’Amante, gli adulti dicevano che le aveva dato un mucchio di soldi ed era tornato in tutta fretta dalla moglie.
Strano che un uomo avesse il nome da femmina o forse era L’Amante con le unghie laccate che aveva un nome da maschio. Certo è che con il brillante e tutti quei soldi faceva la fame. Le piccole mele selvatiche che cercava di raccogliere sugli alberi stenti erano davvero troppo acerbe, troppo dure, immangiabili, e mia madre non poteva assicurarle il pane, né per carità cristiana né per amore del brillante. Ho due bambine, le aveva detto, e non sappiamo quanto tempo si deve restare qua.
C’era la guerra. Quella di Elio Vittorini era stata una bella guerra, la mia, bellissima, una straordinaria meravigliosa vacanza.
Non avevamo acqua, quella del pozzo doveva servire per bere e cucinare, non ce n’era per lavarsi e  quindi non ci lavavamo. Si dormiva nella paglia, vestiti, e appena svegli, di corsa nei prati senza la solita perdita di tempo, compresa quella della colazione al tavolo di cucina. Qui non c’era né tavolo né cucina, solo un enorme fienile, un’aia, un pozzo e una distesa senza fine di terreni brulli e boscaglia. Tornavamo stanchi e affamati e per noi c’era pane e latte di capra e poi, nella giornata senza orari, formaggio, minestra di lenticchie o di fagioli, anche cosce di pollo.
Con i bambini, avevano detto gli adulti, non ci possiamo permettere di perdere la testa, e prima di andar via, sotto la pioggia colorata dei volantini americani che invitavano a lasciare il paese,  avevano caricato le mule con sacchi di farina, legumi secchi, polli e conigli nelle gabbie. Quindi il cibo non ci mancava.
L’Amante, invece, prima aveva cercato di comprarlo, il cibo, con quel mucchio di carta che poteva servire solo ad accendere il fuoco e con il brillante grosso come una nocciola, poi si era rassegnata e se non fosse stato per il buon cuore delle donne che di nascosto dei mariti le davano qualcosa, sarebbe davvero morta di fame.
Noi bambini sempre in giro a far la guerra. Io ero il generale, tutti gli altri ufficiali, e non fu mai possibile trovare un soldato. Esploravamo il territorio in cerca di nidi vuoti, piante sconosciute, fiumi o  ruscelli. Non per l’acqua ma per i ranocchi. Per questo avevo bocciato la proposta di un ufficiale di raggiungere il mare: lì i ranocchi non si trovavano.
Spesso incontravamo l’Amante che raccoglieva qualche pannocchia inselvatichita di granturco, mezza marcia, apprezzata solo dagli uccelli, e in uno di quegli incontri, educatamente, (ce lo ripetevano sempre: prima si saluta, e se si chiede qualcosa si dice “per piacere”) quindi io, dopo averla salutata, le chiesi:
Per piacere, perché hai un nome da maschio?
Da maschio…? Io mi chiamo Marinella, non è un nome da maschio.
Non ti chiami l’Amante?
Mi guardò, prima stupita, poi rise fino alle lacrime e mi fece una carezza con quella mano bianca con le unghie rosse.
Quindi il suo nome non era l’Amante. Mi sembrò giusto informare gli adulti.
Cosa c’era da ridere?  E invece anche loro risero fino alle lacrime.
Hai sentito?, si ripetevano, Marinella si chiama, non l’Amante, e continuavano a ridere. Ma una donna arrivata per ultima col padre e le zie e che dormiva in un angolo del fienile, mi regalò un uovo piccolino, il primo della sua pollastrella, disse. Proprio me lo meritavo.
Solitamente con gli adulti ci stavamo poco, solo un mattino siamo rimasti con loro perché quello che chiamavamo zio Peppino, anche se non era lo zio di nessuno, aveva cercato di rubare un secchio d’acqua.
Non era nemmeno mezzo secchio, protestava lui debolmente, smarrito, maldestro, volevo lavarmi. Puzzo!
E quelle parole caddero pesanti come sassi davanti il grande pozzo. Ci fu un momento di silenzio,  lungo più dell’eternità, poi un uomo disse: mi dispiace, zio Peppino, con l’acqua dobbiamo bere e dar da bere agli animali e gli voltò le spalle per entrare nel fienile. Ritornò con un grosso catenaccio mezzo arrugginito e da quel giorno il pozzo rimase chiuso. Si apriva solo al mattino per il rito della distribuzione dell’acqua, e allora si vedeva l’Amante, in fila assieme agli altri, con in mano il pentolino che le aveva regalato mia madre.
A volte veniva a trovarci il baronello, sfollato con la famiglia in una sua proprietà non lontana, e portava anche notizie del paese. Parlava e poi chiedeva un bicchiere d’acqua che a volte diventavano due e anche tre.
Nella loro grande tenuta con casa e palmento il pozzo era quasi vuoto. Ma la cosa che suscitò l’indignazione di molti fu il fatto che il baronello un giorno si versò un po’ d’acqua sul palmo della mano per lasciarla leccare al cane. Cose da pazzi, anche al suo cane dovevamo dar da bere!
Io segretamente parteggiavo per il baronello e quel povero cane morto di sete ma allora i bambini non avevano il diritto di esprimere la propria opinione.
Non potevamo permetterci di scialacquare l’acqua, decretarono molti adulti, e appena vedevano arrivare il baronello gli uomini se la squagliavano. Lui era troppo educato e non si sarebbe permesso di restare con le donne se gli uomini di famiglia non erano presenti. Ma una volta, il signore del lucchetto al pozzo, non fece in tempo ad andar via e si trovò il baronello proprio di fronte. Un momento di silenzio, di imbarazzo, e poi: Abbia pazienza barone, noi qui non abbiamo acqua da sprecare.
Il baronello non si vide più.
Tutti erano certi che gli Americani avrebbero distrutto il paese perché: non avevamo il mare, né un porto, e nemmeno fabbriche d’armi, ma c’era il ponte che collegava la provincia di Catania a quella di Messina, e per quel ponte quante bombe avrebbero buttato?
E in quelle parole anche noi bambini potevamo intravedere della guerra un volto fino a quel momento sconosciuto, quello di Guernica che non conoscevo ancora, ma che apparve, inconfondibile, quando il paese bruciò. Illuminato a giorno nel buio della notte, fiamme che si levavano verso il cielo, altissime, e noi in quell’aia davanti il fienile, adulti e bambini, un mucchio di teste con lo sguardo verso il paese lontano.
Il nostro paese. Sapevamo dov’era, oltre il bosco di castagni, ma in basso, molto più in basso, sotto la Valle del Bove, e si capiva come le bombe incendiarie si stavano accanendo su quel che restava ancora delle case. Tacevamo e il silenzio era peggio di tutti i pianti, di tutte le grida.
Ma non avrei potuto immaginare che al ritorno, quella distruzione sarebbe stata ai miei occhi la cosa più  affascinante vista in vita mia. Mucchi di macerie come colline, montagne di calcinacci che si dovevano scalare per poter entrare – dai balconi e dalle finestre – in quel che era rimasto delle case. Persino sul terrazzo della signora Carmeni dove c’era ancora il bellissimo glicine ormai sfiorito potevo arrivarci direttamente dalla strada senza chiedere permessi a nessuno. E potevamo entrare nelle case di persone che conoscevamo ma che non erano parenti né amici, nelle loro cucine senza tetto dove nelle crepe dei muri crescevano violacciocche o qualche uccello aveva fatto il nido.
Ma la scoperta straordinaria, l’esplorazione che dava i brividi, soprattutto all’imbrunire, era quella delle chiese. In piedi ne erano rimaste ben poche (il nostro era il paese delle chiese) e quelle crollate avevano fatto venir fuori crani e scheletri. Scheletri di preti, pensavamo, forse di vescovi. Anche di Papi, era possibile?
Restavamo nel dubbio, agli adulti non si poteva chiedere, lo capivamo da soli, va bene la guerra e quella straordinaria libertà, va bene tutto, ma andare a scovare gli scheletri nelle chiese era troppo davvero.
Un giorno, però, mentre esploravamo il convento mezzo distrutto delle monache, davanti a un teschio che doveva essere per forza di donna visto che là c’erano state sempre monache, quello che era stato un mio ufficiale disse all’improvviso: E l’Amante, forse è morta ed è diventata così?
Nessuno di noi l’aveva più nominata, forse l’avevamo dimenticata, ma lui, che s’incantava quando l’incontravamo nella boscaglia, che non osava salutarla ma non le levava gli occhi di dosso fino a quando lei non si vedeva più, davanti a quei teschi aveva detto: E l’Amante, forse è morta ed è diventata cosi?
Nessuna risposta ma qualcosa che assomigliava alla paura circolò fra di noi anche se non era l’imbrunire, anche se il sole splendeva come gli altri giorni.
Gli adulti parlavano soprattutto dei furti subiti, anche le radio erano state rubate eppure erano grandi come mobili, rubate da gente del paese, certo, che le teneva ben nascoste. A nessuno piaceva passare per ladro. C’era già stato il caso di donna Anna, la lavandaia, con i carabinieri che le avevano fatto “il sopraluogo”.
La figlia di donna Anna, una ragazzina di tredici anni, si vantava con le amiche :
“Quando mi sposo mia mamma mi dà il corredo a dodici.”
“Come sarebbe a dire?”
“Vuol dire: dodici lenzuoli, dodici tovaglie da tavola, dodici coperte.”
Donna Anna, povera che più povera non si può? O erano vanterie senza capo né coda oppure…
Quando la vecchietta andò dalla baronessa madre a riferire quel che aveva sentito con le sue orecchie: così, così, e così, la baronessa non voleva crederci, scemenze di ragazzina, e poi donna Anna era la sua lavandaia da sempre, quasi una di famiglia, la baronessa in inverno diceva alle serve di riscaldarle l’acqua. Certo, anche perché con l’acqua calda la biancheria viene meglio.
I carabinieri comunque glieli mandò ma era sicura che non avrebbero trovato niente.
Invece trovarono, altro che se trovarono! Dodici paia di lenzuoli, dodici tovaglie… Il corredo della baronessina ricamato dalle suore del convento di clausura.
Comunque da noi la guerra era finita, gli Americani erano sbarcati in santa pace, si erano messi d’accordo con i “Don”, quelli potenti, i capi dei capi, dicevano gli adulti, e la contraerea non aveva sparato un colpo, i soldati si erano subito arresi, le armi consegnate col sorriso sulle labbra.
In Continente però non era così e c’erano i Partigiani, non era chiaro chi fossero, non se ne sapeva molto, i giornali non arrivavano e le radio erano state rubate.
Noi bambini correvamo ancora da una parte all’altra del paese con pentole e padelle che gli adulti chiedevano o davano in prestito perché quelle in rame erano sparite, altre erano sfondate, e la maggior parte dei tegami in coccio erano ridotti in mille pezzi.
Il sapone si faceva sempre in casa con la cenere e il grasso di pecora, bambine giocavano ancora sulle macerie con vestitini di broccato ricavati da pezzi di tende rimaste miracolosamente intatte o con vestiti ricavati da pezzi di lenzuoli non ancora completamente lisi, ma la nostra bellissima guerra era finita.
Infatti, anche se dai soffitti delle aule cadevano sulle nostre teste i calcinacci, si erano riaperte le scuole.
E l’Amante?
Uno di noi aveva chiesto una volta a un gruppo di adulti che si raccontavano di quando eravamo sfollati, ma la risposta infastidita era stata: Che amante?
Non gradivano interventi nei loro discorsi, sciò, sciò, ci dicevano come si faceva con le galline per allontanarle e noi non ci pensammo più.
Poi cominciarono a tornare gli uomini che avevano fatto la guerra. Per primi due avanzi di galera partiti volontari, poi uno che aveva ucciso la moglie buttandola giù per le scale  “E’ caduta…” ma lui andava a combattere e non si poteva indagare.
Del resto molte donne cadevano dalle scale e restavano sciancate o segnate per tutta la vita, erano deboli di gambe o di testa, soggette a capogiri.
Poi stranamente il fenomeno cessò per riprendere quando gli uomini tornarono dalla guerra.

 

L’impegno contro il femminicidio :

LA  BARONESSA  DI  CARINI

 

     In Italia l’abrogazione del delitto d’onore è solo del 1981: 5 agosto 1981.
La mala accoppiata delitto-onore ha resistito per secoli, e mariti-fratelli-padri padroni hanno potuto ammazzare sicuri della quasi completa impunità.
Un passato che non passa, e i maschi di famiglia si arrogano ancora il diritto di decidere come devono vivere le “loro” donne e di punirle. Una globale sottocultura che si perpetua e aggiunge ai delitti di ieri quelli di oggi: la ragazza pachistana uccisa dal padre, la donna di Messina accoltellata dal fratello, mogli ed ex-mogli, fidanzate ed ex fidanzate ammazzate quasi giornalmente.
Certo, tanti parrucconi della Corte di Cassazione, questa sottocultura l’hanno ben alimentata affermando, in barba alla Costituzione che sancisce la parità fra i sessi, che l’adulterio della moglie è ben più grave di quello del marito (1961), che “le botte maritali” non raffigurano maltrattamenti” (1996), per non parlare della jus corrigendi che regna fino all’approvazione del Nuovo diritto di famiglia (1975).

Questi assurdi parrucconi ancora oggi assolvono stupratori in nome della verginità o dei jeans. Ma, per fortuna, tutto il mondo ride di loro.

Era affacciata ‘inta lu so balcuni
E vidi arrivari a cavalleria:
“Chistu è me patri chi vieni pi mia.”

 

La vecchia strada a zig-zag tutta in ombra e i pipistrelli che piombavano dall’alto, oscillando, sembravano una premonizione.

Davanti al castello l’uomo scese da cavallo con un salto, toccò terra davanti alla grande porta di quercia rinforzata con lamine di ferro, cominciò a camminare lentamente, a passi pesanti. Serrava e disserrava i pugni percotendoli l’uno contro l’altro, e a tratti guardava verso il balcone ora vuoto. La luce del tramonto metteva in risalto la sfera del suo viso e i neri mustacchi che accentuavano la piega della bocca contratta dalla collera. Restò qualche istante fermo, immobile come un giustiziere, poi fece un segno d’intesa ai suoi soldati e entrò da solo nel castello.

La baronessa gli venne incontro:

“Signuri patri chi vinisti a fari?”
“Signura figghia, vi vinni ammazzari”
 

Con un’aria quasi cortese il padre le annunciava la decisione di ucciderla.
Cinque anni prima le aveva annunciato allo stesso modo la sua volontà di maritarla.
“Balia, hai saputo, mi vogliono maritare.” 
“Tutti si maritano, figlia, e tu hai già quattordici anni. Non puoi più venire a raccogliere babalucci con me nei campi.
Gli uccelli di Gesù becchettavano nel prato non più impregnato d’acqua e non ancora duro e secco come in agosto, la balia prese il bracciale che la ragazza le porgeva, lo tenne nel palmo della mano, lo soppesò, lo rigirò  come fosse un pesce prelibato che non aveva ancora deciso come cucinare.
“E’ di gran valore questo bracciale, almeno due onze, un gioiello degno della futura baronessa di Carini.”
“Sì balia, ma lui, il mio futuro marito, a te come sembra?”
“Gli uomini sono tutti uguali, figlia, quasi tutti, puzzano di stalla e di cavalli e nelle vene hanno per metà sangue, per metà vino.”
Tutti uguali. E pensò al padre e al fratello del padre, il signor zio, e al marchese cugino che abitava a Palermo. Avevano uno sguardo così deciso che quando parlavano nessuno si permetteva di verificare se dicevano cose sensate o no.
La moglie del signor zio era morta in circostanze sospette, schiacciata sotto una trave. Lei l’aveva sempre vista  paziente, esangue, e anche da morta sembrava chiedere scusa per il disturbo.
Con il bracciale in mano la balia guardava l’albero di carrubo pieno di carrube e di uccelli che cantavano, un canto bellicoso a minaccia degli invasori della privata proprietà.
Anche lei, la balia, sapeva di carrube ed era grande e serena, dava sicurezza…
Balia, avrebbe voluto dirle, non voglio sposarmi, andiamo via, io e te, andiamo a Licunisi.
Invece disse: “Balia, ricordi quando siamo stati a Licunisi? Io giravo con un vecchio cappello da mietitore sulla testa, e tu ti toglievi le scarpe per non sciuparle sui sassi, le legavi e te le appendevi alla cintura.
Cercavamo babalucci.  Niesci niesci babalucci, chi l’acquata listiu e lu suli riluci.
L’aveva davanti agli occhi quei campi con alberi in piena fioritura malgrado dai rami pendessero ancora baccelli dell’anno prima, e la casa della balia. La stalla era crollata e  nello spazio vuoto crescevano papaveri rossi e ortiche gigantesche.

“Abbiamo anche ballato una sera…”
Si festeggiava non sapeva più cosa, ma ricordava le sottane della balia che roteavano sull’aia liscia e dura come fosse di marmo.
“Com’era bello quel posto, balia!”
C’era nata e si era maritata in quel posto maledetto, casupole e carrubi, vespe e capre, gli uomini nei campi con la zappa, le donne al fiume a lavare, tutti con il loro diavolo.
E le estati senza un filo d’acqua nei torrenti, non un’ombra per miglia e miglia, la terra spaccata dal sole, le vespe, le mosche, il pane che non bastava mai e il bastone.

Ma l’aveva preso lei quel giorno il bastone e al primo colpo gli aveva spezzato il naso, al bastardo, doveva sopportarsi le corna, la fame e le botte, secondo lui.
Il marito era rimasto imbesuito, col naso che penzolava, senza muoversi, senza nemmeno gridare, e lei si era messa a cantare mentre faceva un fagotto dei suoi pochi stracci.
 “Balia, oh balia, cosa fai, canti?” 
Aveva alzato gli occhi mostrando di non sapere che stava cantando e si era diretta verso la grande cucina con le Madonne e i Sacri cuori di Gesù alle pareti.
Doveva raccomandare loro la bambina che andava sposa.

“Signuri patri chi vinisti a fari?”
“Signura figghia, vi vinni ammazzari.”

Sentì come un pugno alla bocca dello stomaco e cominciò a correre sulle assi di legno del corridoio quasi buio, malgrado il vestito lungo l’impacciasse, le cordelle del busto la stringessero. Il corridoio sembrava interminabile, la porta della foresteria così lontana, mentre l’uomo era sempre più vicino, più vicino, con il suo puzzo di stalla e di sudore.
Stridi di uccelli notturni trafissero l’aria all’improvviso, affondarono nel crepuscolo, lo lacerarono, e il fiato dell’inseguitore le fu sul collo, le  mani quasi l’afferrarono.
Terrorizzata urlò.
 l’uomo inciampò, perse l’equilibrio, gridò a sua volta, di collera e di scorno.
La baronessa continuò a correre, raggiunse la foresteria, spinse la porta, la richiuse facendola sbattere con forza alle sue spalle.
“Carinisi, gente di Carini…!”
Affacciata alla finestra chiedeva aiuto, e altre finestre si aprirono, porte di casupole, la gente venne fuori armata di bastoni ma davanti al castello trovò i soldati con le spade.
“Gente di Carini, aiutatemi…”
Il rumore della porta che cedeva, lo schianto, un grido acuto subito strozzato.

Lu primu colpu la donna cariu
l’appressu colpu la donna muriu

E poi più niente. L’uomo uscì dalla stanza, ripercorse il corridoio buio, attraversò un piccolo cortile dove i resti di un’armatura sanguinavano ruggine in una pozzanghera.

Ciumi, muntagni, arburi, cianciti
Pi la bella barunissa chi pirditi
Chianci Palermu, chianci Siracusa
A Carini c’è lu luttu in
ogni casa

Seduti davanti il porticciolo i pescatori cantavano per i villeggianti come avevano sentito fare ai cantastorie.
“Una notte” disse il più vecchio “c’era  la luna, luna piena, e  ho visto la baronessa passeggiare sulla spiaggia. Era uscita dall’acqua e aveva i vestiti asciutti, e anche un ombrellino, il parasole.”
Il Vecchio amava raccontare ma amava anche la bottiglia, si sapeva, e a quell’ora doveva averne scolate più di una. Tutti sapevano però che la storia della baronessa era una storia vera, esistevano ancora i documenti, e il castello, a pochi chilometri, nel borgo di Carini.
Là era stata uccisa Laura Lanza, il 5 dicembre del 1563.
E in dicembre, nel bosco di Carini, mentre il vento soffia si sente ancora il lamento della baronessa perché il suo assassinio non era mai stato punito.
Delitto d’onore, aveva spiegato il padre in tribunale, la figlia tradiva il marito.
 I pescatori ora tacevano. C’era la luna, luna piena, e non sembrava impossibile che la baronessa potesse uscire dal mare e passeggiare sulla spiaggia.
Anche i villeggianti tacevano, qualcuno pensava alla madre della baronessa costretta a vivere accanto all’assassino di sua figlia.
Di lei nessuno aveva mai parlato, nemmeno i cantastorie.

  Olga Foti

                              

 

 Un articolo a favore delle persone anziane

Gentili lettori, qualche tempo fa una milanese di spirito ci informò di essere stanca di essere definita «nonnina » quando veniva derubata o «anziana pensionata» se veniva investita. Sono una signora, mandò a dire, o più semplicemente una cittadina.  Punto. 
Ci iscriviamo al club dei signori e delle signore che non accettano a cuor leggero di aggiungere alla loro persona il titolo di anziano o vecchio, con associato risolino di compatimento: è un’offesa gratuita e un po’ volgare.
Una caduta di stile che, se viene da una carica istituzionale, non passa inosservata.
Così è stato per il sindaco Albertini, quando ha detto di Ombretta Colli che è solo «un’anziana signora», riprendendo il giudizio su di lei dato da un ex presidente della Milano Serravalle: poteva evitarlo, e magari essere anche più cattivo, senza scivolare nella gaffe.
Perché in quell’ «anziana signora», come i lettori hanno segnalato, c’è una sentenza inappellabile che si legge in sottinteso: vuol dire «finita », «passata», «bollita», cosa che può essere anche giusta se attribuita a una campionessa dello sport, a una maratoneta, una tennista, una nuotatrice che misura i suoi riflessi in base all’età, ma che mal si addice a un ex assessore, europarlamentare e presidente di Provincia che torna in pista con una lista per Milano. 

L’ironia fa bene alla politica ma quando diventa greve o volgare infastidisce.
Se il sindaco vede così Ombretta Colli (64 anni), sarebbe curioso sapere che cosa pensa di Diana Bracco (60) e Inge Feltrinelli (76): nessuna di loro ci appare un’anziana signora, tutte hanno voglia di fare, di appassionarsi, di credere in un’impresa. E sono anziani signori Umberto Veronesi, 80 anni, Giorgio Armani, 69, Fedele Confalonieri, 68? 

In un Paese governato da un premier di 69 anni, sfidato da un leader politico di 66, l’età è una variabile indipendente. Contano l’entusiasmo, il carisma, la capacità di trasmettere esperienza, saper guidare i giovani con l’esempio e la parola. 
Mandi un mazzo di rose a Ombretta Colli per ritrovare la gentilezza smarrita, sindaco Albertini. E consideri le donne, in politica e altrove, signore a prescindere. I cittadini, anziani e no, apprezzeranno. 
Il resto, lasciamolo a «Scherzi a parte»

Olga Foti

 LA BADESSA

                                                                    

Nel mese di maggio suor Veronica fu trovata morta dentro il pozzo del convento.

Si era buttata? Era stata buttata?

Che fosse caduta accidentalmente nemmeno un bambino all’ultimo anno d’asilo l’avrebbe creduto.

Un pozzo di pietra come quello dei conventi di una volta, alto più di un metro e mezzo, il coperchio di ferro leggero, la carrucola con la lunga catena, e, appeso, il secchio zincato. Si calava lentamente o con un colpo deciso, e poi, pieno e gocciolante, veniva tirato su con la carrucola.

Impossibile cadere dentro il pozzo se non spinta a forza.

Su questo, in paese, tutti d’accordo, in pochi invece credevano che suor Veronica avesse deciso di uccidersi. L’avevano uccisa, si diceva, perché era incinta, e si facevano nomi di monaci e preti, di due monsignori anche, che frequentavano il convento con assiduità.

“Comunque, vedrete, faranno passare tutto per suicidio così lo scandalo si potrà soffocare più facilmente.”

E infatti le indagini furono svolte in fretta e con grande discrezione, l’autopsia, se autopsia era stata fatta, passata sotto silenzio.

Era incinta suor Veronica?

Non si è mai saputo.

La badessa era nata in una di quelle famiglie che possedevano quasi tutte le terre del paese, ma erano tempi, inizio Novecento, in cui le ragazze avevano una sola opportunità: il matrimonio. I feudi, i palazzi, i soldi, si sapeva, toccavano ai figli maschi, al primogenito soprattutto. Le femmine sposandosi avrebbero avuto la dote, certo, poca cosa comunque, in abbondanza solo casse di biancheria di lino ricamata, un inutile corredo se non riuscivano a pescare un marito, corredo che passava alla figlia primogenita del fratello dove la zitella sarebbe andata a vivere dopo la morte dei genitori.

Non era una bella prospettiva.

Le sorelle maggiori della futura badessa avevano impalmato i ricchi scapoli a disposizione, lei aveva già venti anni, quando ci si sposava a quindici, e all’orizzonte non appariva nessuno. Eppure era bellina, carnagione bianchissima, lineamenti regolari, sorriso e sguardo da santarella che nascondevano tenacia, caparbietà, e la ferma decisione di non finire in casa di qualche cognata o, come la maggior parte delle terze o quartogenite delle famiglie bene, di accontentarsi di un mezzo proprietario – mezzo bifolco forestiero scovato da uno dei tanti sensali di matrimoni.

E poi, in paese c’era l’uomo giusto, il più nobile, ricco, istruito, aveva persino diverse lauree quando i proprietari, allora, completavano al massimo le elementari: i maschi, le femmine solo le prime tre classi. Quello era l’uomo per lei. Possedeva vigneti a perdita d’occhio, terreni da semina, veri e propri feudi, ville e case di villeggiatura, oltre il palazzo che portava il nome di famiglia. Insomma, un gran partito.

Il problema?

Il nobiluomo non solo non si era mai interessato a lei, ma aveva – e in paese – una donna e una figlia. Una donna bella e simpatica che non apparteneva però alla cerchia dorata dei proprietari terrieri, e per questo, quando la cosa era iniziata, aveva suscitato scandalo, e lo scandalo era esploso quando era nata una bambina.

Una bambina fuori dal matrimonio.

Non c’era adulto, ragazzo, contadino, servo o proprietario che non ne fosse al corrente, che non ne parlasse, che non chiedesse a chi assomigliava. Al padre? Ah, c’era il segno della nobiltà in quella piccolina!

Le notizie e i commenti entravano e uscivano da ogni casa: con le serve, le verdure, le derrate che arrivavano dalle campagne, notizie e commenti che sostavano nei salotti, nelle cucine dei signori e  dei villani, andavano per strada, si fermavano al lavatoio, dal droghiere, dal macellaio, nel negozio di tessuti della via principale e nelle osterie, oltre che sul sagrato delle chiese dove qualsiasi fatto veniva raccontato e commentato dopo la messa o le altre funzioni.

Ormai anche le pietre del fiume parlavano dello scandalo ma la madre badessa, in seguito, avrebbe raccontato alle sue monache che lei non aveva mai saputo della “scappatella” prematrimoniale del marito.

Una scappatella. Era nata anche una bambina che, se non riconosciuta dal padre, sarebbe stata una bastarda, una figlia di N.N., il marchio che veniva stampigliato su tutti i documenti rovinando la vita di tante persone, e si è dovuto aspettare il 1975 perché fosse abolito.

Il nobiluomo però era anche un gentiluomo, il pericolo per quella bambina non esisteva. Così dicevano tutti ma la futura badessa fece in modo che le cose andassero diversamente.

Quindi, in tutto quel bailamme, con discrezione, accortezza, lei comincia a lanciare la rete per  pescare il suo pesce.

Nei primi bigliettini gli assicura di ricordarlo nelle sue preghiere, certamente tutti quei commenti e pettegolezzi lo disturbano, lo rattristano, e lei chiede per lui il conforto cristiano.

I biglietti, com’era consuetudine, viaggiavano col sistema sicuro e rapido della serva di casa e lei ne aveva una più fedele di un cane fedele, sempre pronta a portare messaggi, avanti e indietro dal quartiere di S. Nicola a quello dei Cappuccini.

Per quanto tempo? E cosa venne aggiunto in seguito alle parole di conforto cristiano?

Nemmeno l’arcangelo Gabriele può saperlo. Si sa invece che la futura badessa sigillava le missive con la ceralacca e, dopo averle chiuse in una piccola borsa di tessuto, ordinava alla serva di metterle, non nel petto, come allora facevano molte donne, ma nella parte interna dei mutandoni.

La serva poteva cadere, svenire, morire, ma nessuno avrebbe trovato niente. 

Non si sa quando la madre della bambina capì che qualcosa stava cambiando, era cambiato, né quando il nobiluomo cominciò a pensare a un matrimonio più adatto al suo rango. Sono segreti finiti nelle tombe e da lì non usciranno più. Di sicuro c’è l’intervento di un padre guardiano cappuccino che fa cadere le parole giuste al momento giusto in tempi in cui i padri guardiani, gli arcipreti, i vescovi, i segretari dei vescovi e anche i semplici sacerdoti avevano un peso notevole nella vita delle persone. E le parole giuste, in quel caso, suonarono più o meno così: Circolano voci, eccellenza (molti gli davano dell’eccellenza) voci accorte, sommesse, quasi sotterranee come certi corsi d’acqua che d’improvviso vengono fuori impetuosi e trascinano via tutto quel che trovano. Anche l’onorabilità di una ragazza perbene, di famiglia perbene.

Qualcuno aveva notato, disse il cappuccino, il via e vai della serva da un quartiere all’altro, da un palazzo all’altro, e poi…

Il padre guardiano accennò all’invito che la famiglia di lei aveva fatto alla famiglia di lui per la festa di Maria assunta in cielo, invito accettato.

“Mi sbaglio eccellenza? Al paese, da sempre – il sempre umano, s’intende – l’invito a vedere la processione di ferragosto dai balconi della propria casa ha un significato preciso, e accettare quell’invito è quasi un impegno. Mi corregga se sbaglio.”

Non si sbagliava.

Il clero, eccezione fatta per qualche santo o qualche pazzo, era sempre stato dalla parte dei signori,  non certo dalla parte di una donna che non voleva il bollo di bastarda per la figlia, Si doveva rassegnare, il mondo, del resto, era pieno di figli di N. N.

Ma la madre non si rassegnava, anche se aveva tutti contro, e lo disse alla futura badessa, l’affrontò senza esitazione, lo sposasse pure il padre di sua figlia, lei voleva solo il nome per la bambina.

Il matrimonio ci fu e subito dopo iniziarono da parte della sposa le manovre per evitare che i suoi probabili futuri figli dovessero spartire i possedimenti con l’estranea. Prima cercò di allontanare il padre dalla bambina: “Con la scusa di vedere la figlia ti incontri con la madre”, e quando la questione fu risolta mandando a palazzo la piccola in braccio a una anziana donna, la fresca sposina alle prime avvisaglie di “riconoscimento legale” iniziò quel che oggi si direbbe lo sciopero della fame ma che allora suonava: lasciarsi morire di consunzione.

Non è difficile immaginare che la serva fedele la nutrisse segretamente, doveva sembrare decisa a morire, non certo morire, e così il marito continuò a rimandare quel riconoscimento. Poteva causare la morte della moglie?

Malgrado la sua intelligenza, le lauree, il patrimonio e il nobile casato, si comportò, come avrebbe detto Sciascia, da quaquaraquà. In quella specie di partita a scacchi la futura badessa aveva messo in campo tutte le sue armi per indirizzare le mosse dell’avversario a suo vantaggio, per costringerlo a spostare le pedine che voleva lei, come voleva lei. E aveva vinto.

Poi il grande avvenimento: la sposa aspettava un bambino. L’erede, il figlio, l’unto del Signore.  E chi pensava più alla bastarda?

Ci sarebbe voluto il Rettore dei Salesiani che c’era una volta, una specie di Padre Cristoforo fra i tanti don Rodrighi e don Abbondi, che molti anni prima aveva costretto il barone Rametta a riconoscere i figli avuti dalla servetta. Ma i padri Cristoforo sono più rari delle mosche bianche e comunque in quel frangente al paese di quelle mosche non ne volavano.

Dopo qualche anno però il bambino fu colpito dalla difterite, una malattia spesso mortale, allora, non c’era il vaccino, non c’erano gli antibiotici, e come si temeva morì.

La futura badessa all’inizio vide quella morte come un castigo divino, sapeva fra l’altro che non poteva più avere figli, ma presto ne pensò una delle sue: il marito avrebbe riconosciuto la bambina che però doveva andare ad abitare con loro, sarebbe stata la loro figlia, la madre doveva rinunciare a lei, non doveva più nemmeno vederla.

La madre ovviamente rifiutò sdegnata e la nobile signora ne fu stupita: ma che ingratitudine!

  Poi anche il marito si ammalò, una malattia che i migliori medici non riuscirono a curare, morì anche lui, e poiché non c’erano figli tutto il patrimonio andò alla moglie.

Cosa poteva fare una vedova ambiziosa, con pochissima istruzione e zero interessi?

La madre badessa.

Bisogna riconoscere che per molto tempo le autorità ecclesiastiche ostacolarono le pretese della vedova ma lei sapeva come muoversi, convincere, e tempo costanza e mezzi non le mancavano.

Proprio per questo, secondo alcuni, non era necessario buttare Veronica nel pozzo, troppo pericoloso, prima o poi qualche suora avrebbe parlato. Ci sono armi più sicure che sanno creare il vuoto attorno ad una ragazza semplice, di famiglia povera, abituata alle ingiustizie. Ad albero caduto accetta accetta, si ripeteva Veronica, ma che colpa aveva l’albero se il vento l’aveva buttato giù? E le tornava in mente l’asino visto nella strada ripida della Crocitta, era scivolato, sotto il pesante carico non riusciva più a sollevarsi e il padrone imbestialito gli faceva calare con tutta la sua forza un grosso bastone sulla testa. Picchiava e gridava, gli diceva delinquente, mangia paglia a ufo, finché la bestia era morta, la testa sul selciato, un occhio aperto., e l’uomo l’aveva guardato quasi stupito e indignato per quell’ultimo tiro mancino che l’asino gli aveva giocato.

Veronica non poteva dimenticare quell’asino, e quando la badessa si rivolgeva alle suore riunite, stava ad ascoltare con la disperazione di una bambina che si è persa nel bosco. In quei discorsi c’era forse il segreto per ritrovare la strada ma le parole le sembravano pronunciate in una lingua sconosciuta. Aveva anche cercato di parlare alla badessa, si era fatta coraggio, l’aveva fermata nel corridoio: Madre…” Ma lei l’aveva gelata con lo sguardo ed era andata via.

Due consorelle lavoravano in cortile, pulivano e rassettavano come gli altri giorni, chiacchieravano, e nessuna di loro si accostò a una delle finestre aperte per dire, Buongiorno suor Veronica, avevano sentito dal rumore del secchio che lei era là, nel corridoio, e avevano smesso di parlare.

Veronica non le vedeva, vedeva il rampicante sul muro con i fiori bianchi a forma di campanule e le foglie lucide come quelle del limone. Sentì sbattere con forza lo zerbino, era sempre pieno di terra perché ci si pulivano i piedi venendo dal giardino, e poi di nuovo le consorelle che avevano ripreso a parlare ma a voce bassa.

Devo parlare con la Superiora, si disse, provare ancora, sì, forse mi ascolterà, dirà, Vieni nel mio studio. Proverò di nuovo domani. E mentre si abbassava per strizzare lo straccio nel secchio, la decisione che sapeva inutile le diede una certa serenità..

Quasi mezzanotte. Veronica percorre il corridoio attenta ad evitare qualsiasi rumore, anche se non ci sono assi che scricchiolano ma mattonelle di ceramica pulitissime che lei lava ogni giorno. Il cuore le batte forte, le sembra di sentirne l’eco che rimbalza sulle pareti, ma continua a camminare, è quasi a metà corridoio, non lontana dalla stanza della Madre superiora. Non alzerò gli occhi, si disse, ma quando si trovò davanti a quella porta gli occhi si sollevarono involontariamente e Veronica è sicura che la porta si aprirà all’improvviso e apparirà la badessa.

Ma non accade.

Prosegue in quel silenzio notturno così nuovo per lei, arriva in fondo al corridoio. Sa che la porta è chiusa ma sa anche come usare il ferretto per i capelli che era caduto a donna Rosaria quando aveva portato la biancheria e gli abiti talari dei frati perché venissero lavati e stirati come di consueto. La forcina si era staccata dalla crocchia di capelli bianchi ed era caduta sulle mattonelle lucide del pavimento, donna Rosaria non se n’era accorta e Veronica, senza sapere perché, si era chinata e l’aveva fatta scomparire nella tasca.

Il trucco di aprire una porta chiusa a chiave con un ferretto gliela aveva insegnato il cugino Saro, erano ancora bambini e si divertivano ad aprire la stalla o la casa della nonna.

La porta che dà in giardino adesso è davanti a lei, mette una mano sulla maniglia, con l’altra palpa il fondo della tasca, hanno tasche profonde i vestiti delle monache, chissà perché, ci tengono solo il rosario e il fazzoletto.

Veronica trova subito la forcina, la piega, la fa girare a mo’ di chiave e la porta si apre.

Fuori un cielo con tante stelle e uno spicchio di luna, niente nuvole, si dirige verso l’aiola delle erbe aromatiche e accanto, sull’albero della robinia, avverte un sommesso eccitato frullo d’ali. Il suo passo nel viottolo ha messo in allarme gli uccelli che dormivano. Lei invece è tranquilla, le decisioni una volta prese portano serenità, si chiede solo se la Superiora sapeva chi era stato.

Quasi certamente no, e non le interessava saperlo, era importante solo soffocare lo scandalo, e lo  scandalo era lei, lei il problema, lui avrebbe continuato con i buoni pranzi preparati dalle consorelle, avrebbe bevuto il vino rosso gradazione diciotto, biancheria e abiti lavati e stirati. Non erano loro le ancelle dei sacerdoti? E ancelle vuol dire serve, le aveva spiegato suor Rosina.

Si volta a guardare il convento, l’impassibile struttura completamente buia, nemmeno una luce dietro quelle finestre, e forse per questo le sembra ancora più freddo e inutile, un uccellaccio morto, rinsecchito. Continua a camminare, il cuore non le batte, solo un leggero pulsare delle vene vicino alle tempie, come se tutto ciò che ha nella testa, pensieri, ricordi, volessero fuggire verso le nuvole finché erano in tempo. Infatti è già arrivata al pozzo, con un saltello siede sull’orlo di pietra lavica, si sta bene di notte in giardino, siamo in maggio ormai. Solleva il coperchio, guarda verso l’acqua,  ma è buio, sente solo un soffio di aria fresca, pulita, salire verso di lei, accarezzarle il viso.

 “Veronica…!?”

Vuole ascoltare il suo nome e si china di più verso l’acqua, chiama ancora:

“Veronica…!?”

 “Onica…!?”

Un suono bellissimo quasi come quello dell’organo della Chiesa madre.

“Veronica…?”

L’eco rispose senza farsi attendere:

“Onica…?”

E lei si lasciò andar giù.

 

                                                                                               Olga Foti

 

 

 

 

 

 

 

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