Sciara Progetti Teatro è un’impresa di produzione artistica fondata da professionisti Under 35 che opera a livello nazionale e internazionale, con sede nella città di Fiorenzuola D’Arda. Nel territorio piacentino, dopo anni di esperienza e formazione in Germania, Inghilterra, Spagna, Cile e Argentina, Sciara Progetti Teatro ha trovato la propria casa, dedicandosi a un’attività artistica basata sulla costruzione di percorsi didattici e psico-pedagogici, volti alla mediazione culturale e al rafforzamento della coscienza civica del proprio pubblico.
Le lunghe tournée e la capacità di intavolare collaborazioni edificanti con la comunità e le istituzioni, hanno attivato in Sciara Progetti Teatro la volontà di creare connessioni culturali che si sono integrate nella ricerca artistica e nella visione teatrale della compagnia. Con queste premesse, dal 2016 Sciara Progetti Teatro è impegnata nell’ideazione di progetti per Erasmus Plus, il programma dell’Unione europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport offrendo importanti occasioni formative e lavorative all’estero.
In questo percorso di progettazione si inserisce Ideas for a creative young Europe, un ciclo gratuito di workshop, webinar e talk, online da ottobre a dicembre, finanziato dalla Regione Emilia-Romagna, avente come obiettivo la condivisione di strumenti utili alla comunità studentesca e teatrale, in ambito nazionale ed europeo.
Ture Magro, autore, attore e direttore artistico di Sciara Progetti Teatro, racconta attività e mission della compagnia, approfondendo programma e obiettivi di Ideas for a creative young Europe.
Rispetto alle esperienze internazionali che caratterizzano la formazione dell’organico, quali pratiche, diffuse nei sistemi teatrali che avete attraversato, potrebbero essere importate in Italia per migliorare il comparto culturale nazionale? In che misura tali pratiche hanno influito sulla direzione progettuale di Sciara?
Sicuramente il periodo trascorso all’estero è stato un momento particolare che ha fatto virare il percorso della compagnia. Eravamo all’inizio, la compagnia era stata fondata da poco, noi avevamo circa vent’anni: l’incontro con il contesto internazionale è stato anche per questo motivo una vera svolta per il nostro percorso non solo artistico, ma anche organizzativo.
Abbiamo vissuto per sei mesi di tournée in Cile dove abbiamo sperimentato un sistema di distribuzione capillare, non solo in grado di raggiungere le istituzioni teatrali – che hanno collaborato ampiamente al nostro progetto – ma di passare anche tramite il coinvolgimento dei quartieri, delle giunte, di vicini, banche, fino a raggiungere anche Amnesty International e il Ministero per l’Istruzione.
Abbiamo costruito così un tour di 6 mesi con decine e decine di repliche e decine di migliaia di spettatori. È in questa esperienza che abbiamo intuito che forse esiste una possibilità, un potenziale per la distribuzione che, a nostro avviso, se cucita sulle esigenze di una compagnia e non copiata da altri modelli, può far raggiungere dei risultati numerici e di esperienza notevoli.
Intendiamo questa forza come una spinta in grado di far capire al gruppo di lavoro come muoversi per intercettare i tanti canali possibili per un determinato progetto. Anche i canali istituzionali, ma seguendo vie nuove.
L’incontro con gli artisti Sudamericani è stato poi illuminante: il panorama lì è totalmente diversificato, il divario tra ricchezza e povertà comprende una forbice estremamente ampia, e lo si vede anche tra gli artisti. Ci sono artisti che lavorano per mesi e mesi, quasi senza entrate, mentre nei teatri dei quartieri alti i biglietti raggiungono prezzi altissimi.
E poi il periodo in Senegal: lì abbiamo incontrato realtà che hanno scelto di distaccarsi dal contesto istituzionale per entrare in un contatto autentico con il tessuto sociale, per intervenire concretamente nella comunità con il proprio operato artistico. Con l’esperienza in Germania abbiamo invece conosciuto un sistema distributivo diverso, invidiato un po’ in tutta Europa.
Infine, aver organizzato diversi progetti per il programma Erasmus Plus ci ha permesso di stringere collaborazioni con 20 Paesi del mondo e con professionisti provenienti da universi differenti (educatori, speaker radiofonici, artisti visuali, performer, giornalisti), ma tutti, in qualche modo, promotori e distributori attraverso il proprio lavoro, organizzando spettacoli dal vivo per le loro attività.
È indubbio che vivere per anni a contatto con queste riflessioni artistiche e organizzative, ti instrada verso una visione personale del tuo percorso distributivo. Noi crediamo che il percorso distributivo sia parte di un ragionamento artistico complessivo e non distaccato. Non abbiamo cercato di replicare in Italia queste pratiche, le abbiamo mescolate alla nostra visione e prodotto il nostro personale metodo, quello cucito su di noi e sulla nostra idea di Teatro, abbiamo privilegiato un taglio distributivo e organizzativo umano, che si costruisce su rapporti umani autentici, puri da ogni opportunismo di facciata, nati dal solo desiderio di incontrarsi.
Questo è un detonatore di possibilità se lo guardi dal punto di vista distributivo. Non esiste un modello unico, ma tante modalità personali da condividere per migliorare la strada. In questo modo è nato il nostro percorso, che in questi 12 anni si è affinato e sul quale cerchiamo di lavorare costantemente. E’ una visione quasi sistemica dell’arte.
L’attività artistica e laboratoriale di Sciara Progetti si è distinta per la valenza civica e psico-pedagogica che ha posto il lavoro della compagnia anche su un piano didattico. Come si è avviato e strutturato l’intervento formativo dei progetti spettacolari che conducete?
Nasciamo dal connubio professionale tra un artista e una psicologa: questi due aspetti coesistono e permangono nei nostri progetti, sia con le giovani generazioni sia con gli adulti. Il teatro – e l’arte in genere – parla alla nostra sfera emotiva, usando un linguaggio universale, e facendosi così veicolo privilegiato per messaggi con finalità educative e pedagogiche. Partendo dai laboratori nelle scuole, abbiamo affinato negli anni i nostri interventi formativi, strutturandoli a partire dalle nostre produzioni, integrandoli così in maniera coerente con la nostra ricerca artistica, sperimentandoli durante i progetti realizzati per il programma europeo Erasmus Plus, e quindi sottoponendoli a una comunità internazionale da cui apprendere nuove pratiche e suggerimenti.
Tutti i nostri interventi sono strutturati in modo da fornire ai partecipanti strumenti utili, innovativi e creativi per prendere confidenza con le proprie emozioni ed elaborarle in maniera sana: puntiamo a promuovere percorsi di educazione sentimentale per tutte le età, perché da una sana convivenza con la propria dimensione emotiva si arriva ad una sana convivenza con l’altro, con la comunità.
Con “Ideas for a Creative Young Europe”, Sciara Progetti prosegue il proprio cammino sulla strada dell’internazionalità con il sostegno di importanti realtà italiane ed estere.
Come si struttura il programma di “Ideas for a Creative Young Europe” e qual è la mission del progetto?
Ideas for a Creative Young Europe è un progetto finanziato dalla Regione Emilia Romagna che si articola in tre mesi, da ottobre a dicembre, di attività di formazione in streaming pensate per colleghi, scuole e giovani di tutta Italia. La mission del progetto è quella di condividere strumenti, competenze, idee ed opportunità valide in Italia come in Europa, per ripensarci nel nostro essere artisti, teatranti, educatori, anche in questo periodo così difficile.
Il progetto è partito il 15 ottobre con un intervento rivolto alle scuole piacentine in occasione degli Erasmus Days, per parlare delle opportunità di mobilità internazionale rivolte ai giovani, e proseguirà fino al 20 dicembre. In programma vi sono nove workshop pensati per artisti e operatori di settore per studiare nuove modalità di sostegno per le proprie attività, trovare finanziamenti per il comparto culturale, strutturare progetti in grado di avere una ricaduta e un impatto positivi su tutto il territorio dell’Unione Europea.
Ancora, tre talk in streaming pensati come lezioni di approfondimento rivolti agli Istituti di istruzione, con i membri della Compagnia e ospiti che ci hanno accompagnato in questi anni nel nostro percorso di creazione di spettacoli, per analizzare insieme tematiche relative agli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU; due conferenze sulla mobilità giovanile; un seminario di due giorni dal titolo Steps&Strategies for a creative young Europe, un momento collettivo dedicato all’approfondimento delle strategie di lungo periodo negli ambiti di loro maggior interesse e alla costruzione di proposte condivise a partire da tutte le idee emerse che sarà presentato al livello decisionale pubblico, dalla dimensione locale a quella europea passando per il contesto regionale e nazionale.
La visione del teatro come Welfare è alla base del lavoro di Sciara Progetti. Quand’è che il teatro diventa una risorsa per formare uno spettatore consapevole, capace di migliorarsi anche in quanto cittadino all’interno del tessuto sociale?
Slogan del progetto Ideas, è una citazione di Paolo Grassi: Il teatro è un diritto e un dovere di tutti. La città ha bisogno del Teatro, il Teatro ha bisogno dei cittadini.
Tutti noi crediamo fortemente nel valore dell’espressione artistica e teatrale come momento per interrogarsi su dove stiamo andando come società, su che tipo di comunità siamo o vorremmo essere.
Il teatro può essere, per esempio, il luogo dove avviene la mediazione culturale, dove vengono oliati i meccanismi di transizione di una società da multiculturale (cioè in grado di ospitare la diversità) a interculturale (ossia in grado di creare connessioni positive tra tutti i membri di una comunità culturalmente eterogenea).
La cittadinanza attiva e consapevole, per esercitarsi, ha un prezioso alleato nel teatro, che, con la sua funzione di specchio sociale, permette ad una comunità di aprire spazi di riflessione importanti, chiedendo la partecipazione attiva dei cittadini anche nel solo gesto di riunirsi, per il tempo di uno spettacolo, intorno ad un’esperienza, un respiro comune.
L’AUTORE E INTERPRETE TURE MAGRO RACCONTA IL SUO ULTIMO SPETTACOLO “MALANOVA”, IN SCENA AL FESTIVAL “INVENTARIA”.
Nell’ambito del Festival Inventaria, il 26 maggio al Teatro Argot, debutterà “Malanova”, il nuovo interessante spettacolo di Ture Magro e Flavia Gallo, dedicato al delicato e attuale tema della violenza sulle donne.
Traendo ispirazione dal romanzo Malanova di Cristina Zagaria, i due autori hanno dato vita ad una pièce che intende esprimere, attraverso la storia di una donna del sud Italia, una forte sensibilità e fragilità andando ad indagare gli abissi dell’umanità per comporre una toccante pagina di educazione sentimentale.
Abbiamo incontrato Ture Magro, attore e sceneggiatore, vincitore dei Nastri d’Argento 2009 e 2011, uno degli autori, oltre che interprete di Malanova, il quale in questa intervista sulle pagine di Recensito ci racconta come è nato questo lavoro, come si è sviluppato e ha reso forma, ma soprattutto quale peso e valenza può avere nella società odierna.
Cosa è “Malanova”? Com’ è nata l’idea di dar vita a questo progetto a quattro mani a partire dal libro di Cristina Zagaria?
“È stato un caso, come a volte accade. Un caso che si è trasformato in una decisione che è diventata una esperienza. Professionale e umana.”
“Malanova” è una storia forte, di violenza, di onore, di dolcezza e fragilità, in cui il punto di vista maschile e femminile in un certo senso si incontrano. Come avete fatto combaciare i due vostri pensieri, maschile e femminile, in virtù di un messaggio universale?
“Questo aspetto è molto interessante. È stato un confronto costante, una tensione positiva continua nel cercare di ascoltare l’altro per capire le ragioni dell’altro da te. Per me è stato un lavoro complesso e affascinante, perché ha creato una crisi interiore, come spesso il teatro fa, quando ti fai attraversare da quello che vivi lavorando e soprattutto quando non lo percepisci solo come mestiere. Il lavoro mi ha richiesto energia e capacità di andare fino al cuore della questione. E quando parli di diversi uomini che violentano una ragazzina è facile confondersi e perdere di vista il fulcro della questione trattata che non è, appunto, la Violenza ma ciò che ruota intorno a quell’azione infame.”
Hai lavorato anche nel mondo del cinema. Quanto c’è di cinematografico in questo spettacolo?
“Se fosse un film sarebbe una docu fiction perché abbiamo innestato pezzi di realtà dentro la finzione. Avevamo bisogno di questo per raccontare la verità. Che è altro rispetto alla realtà. A volte la realtà non basta per raccontare una certa verità. Però questo è uno spettacolo, e in uno spettacolo non abbiamo la Fotografia, non abbiamo i luoghi fisici ma è il pubblico che crea le immagini e i luoghi, viaggiando insieme all’attore.”
“Malanova” è una cattiva notizia che però il teatro ha la capacità di dare e in un cero modo di trasformare in “buonanova” veicolando il fulcro del suo messaggio. Ti auguri che questo avvenga?
“Malanova è anche il racconto di come una umanità si è liberata dall’oppressione. La Malanova ha deciso di abbattere il muro della paura e del condizionamento sociale per provare a Vivere. In questo senso è già avvenuto, nella storia reale ancora prima che nello spettacolo. “
Quali sono le analogie e le differenze tra il vostro testo drammaturgico e il romanzo?
“Il Romanzo della Giornalista Cristina Zagaria pone a confronto il diario di Anna Maria e le reazioni del Paesino in cui vive nel momento in cui giunge la notizia. Ed è forte e sconcertante leggere quelle parole.
Sono rimasto decisamente colpito tanto da volerlo portare a teatro. Però le parole e frasi di un libro, quelle che stanno appoggiate sulla carta non sono le stesse parole e frasi che possono stare sul palcoscenico. Hanno bisogno di essere disegnate e progettate in un altro modo per poter stare su un palcoscenico.
Lo spettacolo si avvale della creazione di un personaggio non esistito realmente che è Salvatore, che ci conduce e guida in questa storia, svelando sia le azioni e reazioni dei protagonisti che la sua assenza di coraggio nel fare un passo in avanti e cambiare la storia. È la storia di un codardo che pur vedendo ogni cosa non agisce. Rimane spettatore di un grande crimine.
Diventa colpevole durante lo spettacolo, si accorge di questo e man mano che assistiamo al crescendo della tragedia e siamo parteci della sua trasformazione.
Una trasformazione dolorosa che pur non avendo agito quella violenza diventa un grande colpevole.
Come è stato lavorare insieme a Flavia Gallo? È la prima volta?
“Con Flavia Gallo abbiamo tradotto in tedesco, per una tournée in Germania, un nostro precedente spettacolo.
Ci siamo conosciuti cosi. Durante quel periodo. Era il 2013. Quando le ho proposto di scrivere a quattro mani lo spettacolo Malanova non ha accettato subito.
Essendo Flavia Gallo sia una drammaturga che una pedagoga, conoscendo benissimo il rischio che correvamo nell’affrontare un tema tanto delicato, con una storia tanto cruda, mi ha fatto tantissime domande e chiesto chiarimenti.
Cosa si deve raccontare nella storia si una ragazzina di 13 anni stuprata per tre anni da diversi uomini. La violenza non si può descrivere. Non servono le parole per descriverla e non è corretto farlo.
Eppure giorno dopo giorno, conversazione dopo conversazione, abbiamo capito che dal fatto di cronaca, dalla vita vissuta con dolore della protagonista poteva e doveva nascere un testo.
Abbiamo spostato il punto di vista dalla violenza agita alle ragioni che ci muovono ad agire violenza, dal sangue e dei corpi che fanno del male alle responsabilità degli individui e delle società che non agendo creano le condizioni perché questo male possa continuare a procurare dolore.
Malanova, e adesso riporto alcune frasi scritte da Flavia, è stato il tentativo fatto a quattro mani da due autori teatrali, un uomo ed una donna, che hanno deciso di non nascondere mai la propria stessa fragilità, perfettamente in accordo nel voler trasformare la retorica della denuncia in una indagine al maschile, un’esplorazione edipica sulla responsabilità, sulla convivenza e sull’essere coinvolti, come esseri umani, in una trama di fondo che ci rende tutti ugualmente responsabili della vita degli altri.”
Nello spettacolo si parla dell’Italia, di umanità ed educazione sentimentale. Quali insegnamenti sperate possa trasmettere al pubblico?
“Non credo si debba avere la pretesa di insegnare con uno spettacolo teatrale. Il termine è impegnativo e richiede una riflessione. Il teatro non insegna, non informa, il teatro può seminare Dubbi, porre domande, aprire finestre di riflessione.
Il Teatro crea delle crisi che per essere risolte hanno bisogno di una ulteriore riflessione da parte dello spettatore che può tornare a casa diverso, si, grazie allo spettacolo e al modo in cui lui si è relazionato allo spettacolo.”
Altri progetti per il futuro?
“Sto cominciando a lavorare alla scrittura di un nuovo spettacolo e sto ascoltando quello che mi succede intorno. Invece Malanova produzione Sciara Progetti andrà in Spagna e poi Cile a gennaio 2018 e sempre con Sciara Progetti, compagnia che abbiamo fondato 8 anni fa e che ha residenza al Teatro Verdi di Fiorenzuola in Emilia-Romagna, siamo alle prese con un progetto Erasmus che partirà tra una settimana, lavoriamo inoltre a due produzioni per ragazzi che partiranno la prossima Stagione.
Collaboro anche con la Compagnia Acti di Beppe Rosso e nella prossima stagione porteremo in tournée lo spettacolo Piccola Società Disoccupata, un interessante progetto, che amo particolarmente, sul mondo del lavoro e “Troppi Ormai su questa Vecchia Chiatta” di Visniec sempre con la Regia di Beppe Rosso.
Invece con la società di produzione video Nois Produzioni dei registi Bruno e Fabrizio Urso, con cui collaboro ormai da 10 anni, stiamo lavorando alla scrittura di un documentario che verrà girato in Sicilia su un tema a me molto caro.”
Maresa Palmacci 24/05/2017
MALANOVA scritto da Maurizio Sesto Giordano.
E’ teatro civile, di pura denuncia e che, attraverso la parola, colpisce e scuote, quello proposto da Sciara Progetti Teatro con l’atto unico “Malanova” di Ture Magro e Flavia Gallo, al Centro Zo di Catania, come terzo appuntamento della Rassegna “AltreScene”.
Sciara Progetti Teatro, fondata nel 2008 dall’attore Ture Magro e dalla psicologa Emilia Mangano ha l’obiettivo di unire teatro, didattica e partecipazione sociale e da tempo ha sede operativa al Teatro Verdi di Fiorenzuola D’Arda (Piacenza) e di recente ha ottenuto il patrocinio della Regione Emilia Romagna.
Si tratta di un intenso e vibrante monologo di Ture Magro e Flavia Gallo, con unico protagonista lo stesso Ture Magro. Una storia cruda e inenarrabile resa pubblica nei suoi particolari di cronaca nell’omonimo romanzo scritto dalla giornalista Cristina Zagaria e da Anna Maria Scarfò, edito dalla Sperling & Kupfer.
Lo spettacolo, di circa 60 minuti, da due anni è ospite nei palcoscenici di tutta Italia, affrontando l’attuale problematica della violenza sulla donna ed il titolo della pièce, “Malanova”, fa riferimento ad una cattiva notizia, ma in realtà etichetta una ragazzina, Anna Maria, precipitata in una storia orribile, raccontata sulla scena da un giovane uomo innamorato, Salvatore, che ricorda di averle voluto bene, che l’ha desiderata e poi ritrovata coinvolta in una violenza squallida.
Grazie alla forte e sentita interpretazione di Ture Magro, che si muove in una sorta di gabbia (ora piazza, ora paese, ora campagna e carcere, ora luogo chiuso, dal clima claustrofobico, che ti fa mancare l’aria), la pièce effettua una sorte di indagine, esplorando responsabilità, convivenza e connivenza e soprattutto quell’essere coinvolti, come esseri umani, che rende tutti ugualmente responsabili della vita degli altri.
Ture Magro in scena è il giovane Salvatore che racconta la storia di Anna Maria Scarfò, tredicenne di San Martino (Calabria) che ha avuto il coraggio di denunciare, dopo anni di violenze e soprusi, i suoi aguzzini.
A Salvatore che viveva nel piccolo paese con 475 case e 2000 abitanti, batteva forte il cuore quando vedeva passeggiare Anna Maria, avrebbe sempre voluto dichiararsi e, forse, avrebbe potuto fare qualcosa ed evitarle l’ingresso in quell’orribile tunnel.
Ma il coraggio, però, non lo ha mai trovato.
I protagonisti della storia e dello spettacolo, attraverso il racconto emozionante e terribile di Ture Magro, sono Salvatore, Anna Maria, Domenico, i cittadini di un piccolo centro della Calabria che cela soprusi e che va avanti con l’omertà di donne, mariti, vecchi, parroci, additando a “Malanova” (cattiva notizia) chi vuole dire la verità o denunciare.
Il disperato Salvatore attraversa a piedi piazze e vicoli stretti, racconta delle donne, dei loro silenzi, delle loro leggi omertose, di matrimoni, battesimi e funerali, partecipa alle feste ed ai riti di sempre e si interroga sulle cose viste e sentite, sul rispetto e sull’onore.
La notte di Pasqua del 1999 Anna Maria, una ragazzina di tredici anni,
si allontana dalla messa per seguire Domenico, il suo innamorato che le promette mari e monti ed anche il matrimonio con l’abito bianco.
Quella sera Anna Maria sarà vittima di uno stupro di gruppo che si perpetrerà per anni, tra minacce ed umiliazioni di ogni genere. Un giorno, però, la ragazzina si ribellerà ai soprusi, all’omertà della famiglia e del paese denunciando, uno per uno, i suoi aguzzini. “Malanova”, come la chiamano in paese, violerà le regole e in un mondo fatto di rispetto e di onore avrà il coraggio di difendere la propria dignità.
Molto intensa l’interpretazione di Ture Magro – alla fine lungamente applaudito dal pubblico -, che si disimpegna in vari ruoli, facendo rivivere al pubblico tutta la storia, ma decidendo però di non raccontare l’atto della violenza.
Testo di assoluto valore e che, mettendo a confronto ferocia e vigliaccheria, coraggio e dignità, permette di conoscere l’ennesima storia di abusi, di violenza inaudita su una donna.
La storia di Anna Maria Scarfò non chiede altro che di essere raccontata, tanto al Sud, dove si è realmente consumata la violenza, quanto nei luoghi d’Italia dove una vita violata può scorrere nella solitudine, nell’indifferenza e nella connivenza silenziosa.
“Malanova”
di Ture Magro e Flavia Gallo
Tratto dall’omonimo libro “Malanova”, edito da Sperling Kupfer Editori Spa, scritto dalla giornalista del quotidiano La Repubblica, Cristina Zagaria e da Anna Maria Scarfò
Con Ture Magro
Scene e luci di Lucio Diana
Produzione Sciara Progetti Teatro in collaborazione con Teatro Verdi di Fiorenzuola d’Arda – Rassegna Altrescene 2017 – Catania – 12 Marzo 2017
Gli Autori:
Ture Magro attore, regista e sceneggiatore, classe 1984.
Vincitore dei Nastri D’argento 2009 e 2011 come sceneggiatore e di diversi altri premi con gli spettacoli “Padroni delle nostre vite” e “Chopin e l’ipod nano”. La sua formazione si è creata tra l’Italia e l’Inghilterra lavorando nel cinema e nel teatro. Dal 2004 lavora con diverse compagnie in Italia e dal 2008, fondando la compagnia Sciara Progetti, porta i propri spettacoli in tournée in Italia, Germania e Cile.
Flavia Gallo drammaturga, traduttrice, classe 1982.
Ha maturato una ricca formazione universitaria in Lingue e Culture Europee (Laurea Triennale, voto 110/110 e lode), Scienze per la comunicazione internazionale (Laurea Magistrale, voto 110/110 e lode) e mediazione linguistico culturale (Master , voto 110/110 e lode) e parallelamente sviluppa la formazione teatrale come regista e drammaturga. Ha firmato diverse sceneggiature tra le quali lo spettacolo Bella e Bestia, prodotto dall’Associazione Ersilio M., promosso e finanziato dal Teatro di Roma e Teatro India.
Per la drammaturgia ha vinto diversi premi, tra cui, IV Concorso Europeo di Drammaturgia per Giovani Ernesto Calindri Milano, Premio Speciale della giuria al V Concorso di Critica teatrale indetto dal Teatro Libero di Palermo (2005)
UNO STRAPPO, IL CASO NICOLA TOMMASOLI – Ture Magro e Sara Parziani
Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dodici anni fa.
Hai una sigaretta?
Una settimana corta, questa, domani è festa e davanti ci quattro giorni di ponte.
Quattro giorni liberi, tutti da inventare. Quattro giorni non programmati. Del tempo da passare in famiglia, con gli amici, da dedicare a ciò che si ama. Quattro giorni per staccare dalla quotidianità.
Quattro giorni. Un giorno, 24 ore ore. E, allora, davanti, 96 ore “impreviste”, tutte da scrivere, tutte da riempire.
Come dappertutto, i ragazzi ne approfittano per uscire e fare tardi che tanto domani non c’è da andare a scuola o lavorare, che tanto “la città è tutta per noi”, “si può fare quello che ci va”, “facciamo un giro in centro”, “vedrai che ci divertiamo”, “Hai una sigaretta?”
A Illasi, due amici si ritrovano al Boomerang, gente seduta al bancone, la cameriera carina, e il solito gruppo che suona dal vivo. Nessuna novità, insomma, che a Illasi la sera non c’è proprio nulla da fare, e quindi: “Andiamo a Verona, ti presento qualche mio amico”.
Adesso gli amici sono cinque, seduti ad un tavolo del Caffè Malta, in pieno centro. I ragazzi ridono, parlano, ordinano da bere: “Che birra avete? Mi porti una birra?” “Rossa, chiara, ce l’avete alla spina? Moretti?”
Le ore passano, le risate si fanno più intense, le parole più forti, le birre continuano: “Ancora un giro”, festeggiare, sì, bisogna festeggiare che l’Hellas Verona ha appena battuto il Novara 2 a 1, che si dice “quest’anno diventiamo la Juve della Serie C”.
Adesso è la 1,30 i cinque prendono giacche, bomber, cappellino ed escono dal locale. Il giro è lo stesso di sempre: piazza Bra, piazza delle Erbe, via Mazzini, via Cappello, il lungadige Bartolomeo Rubele. E poi indietro, di nuovo, ancora mentre si fa più tardi, mentre la città si svuota.
I cinque camminano e le chiacchiere e le risa continuano, nessuno ha ancora voglia di tornare a casa, stanotte si può fare tardi, stanotte non esistono orari, non ci sono regole, stanotte si fanno strappi alle regole.
Così si sta in giro, “Butei, che facciamo?”
“Butei”, lo sapete, a Verona significa “ragazzi”.
Io non lo sapevo, ma ho capito che i butei sono come gli “gnari” bresciani, i “bocia” bergamaschi, i “raga” milanesi.
Perché quella dei butei, degli “gnari”, dei “bocia”, dei “raga” a volte è più un’appartenenza: fratelli che condividono la stessa storia, le stesse esperienze, lo stesso modo di vedere la vita.
La stessa noia, a volte. Magari quando non ci sono partite di calcio, magari quando non ci sono partite di calcio dell’Hellas.
O in quei weekend di ponte troppo lunghi in cui si sta al bar a bere qualche birra e il tempo non passa mai. Come questo di questa storia, questo con le sue 96 ore “tutte da riempire”.
E così, a Verona, i butei iniziano a passeggiare per le strade quando piano piano si svuotano e sotto il balcone di Romeo e Giulietta non c’è più la folla pigiata a guardare verso l’alto. Camminano e chiacchierano i butei, stretti nei loro giubbotti.
“Hai una sigaretta?”
I cinque decidono per un altro pub, adesso è l’ 1,58, così, per bere ancora qualcosa assieme, e si muovono verso il centro in direzione Porta Leoni.
In via Cappello, incontrano un ragazzo, vestito come un punk. Gli chiedono dei soldi, 10-15 euro, lui rifiuta, “No” dice, allora insistono, “No, non ce li ho” dice, “Be’, dacci le tue spillette”, insistono, lui allora stacca tutte le spillette dai vestiti e gliele dà.
I ragazzi riprendono a camminare lungo via Cappello, passano circa 15 minuti e all’angolo con Corticella Leoni incrociano tre ragazzi, forse, stanno fumando.
Anche loro hanno fatto serata. Parlato, scherzato, bevuto, fumato. Si sono divertiti. Anche loro domani non andranno al lavoro che domani è il Primo maggio, domani, cascasse il mondo, si dorme.
I tre, sono appena usciti da un locale e stanno tornando alla macchina.
Camminano quando ad un certo punto sentono una frase che è questa: ”Codino, dame na sigareta”, e uno di loro risponde “No”.
Luca e Maria Tommasoli sono fuori dalla sala operatoria dell’Ospedale di Borgo Trento, Verona.
Maria è seduta e fissa il muro bianco davanti a sé.
Luca percorre avanti e indietro corridoi lunghi e stretti, tutti uguali, che si incrociano, si diramano, che scompaiono dietro a grandi porte, che vengono inghiottiti da grigi ascensori, corridoi che portano a sale piene di sedie in fila e gente seduta che aspetta.
Luca e Maria Tommasoli non parlano molto, ogni tanto guardano l’orologio appeso alla parete, poi il telefono cellulare: “Era Alessandro, sta venendo qua”. Ogni volta che passa un medico Luca Tommasoli gli si avvicina, fa domande nella speranza di ottenere risposte. Anche Erika arriva, ha gli occhi lucidi, trema e senza una parola si lascia cadere sulla sedia accanto a Maria Tommasoli. Chi è Erika? Erika è la fidanzata del ragazzo che in questo momento sta dentro la sala operatoria dell’Ospedale di Borgo Trento.
Alle loro spalle, la porta della sala è chiusa. Dentro i neurochirurghi, nei loro camici e cuffiette verdi, le mani in guanti di lattice, incidono, aspirano, rimuovono. La concentrazione è massima, i gesti precisi, le parole fitte, si guardano e ricominciano da capo, ”taglia”, “aspira”, “forse ci siamo”.
Adesso, ci spostiamo, e siamo a Boscochiesanuova e ci sono due ragazzi in una casa che stanno pranzando, si dicono che devono parlare con il loro amico, si dicono che hanno avuto un’idea. Da ieri in tv, sui giornali, alla radio, facebook non si fa che parlare del tipo picchiato in Porta Leoni. Del tipo che è a Borgo di Trento per una gravissima emorragia cerebrale.
Sì, i due che ora sono a casa e stanno pranzando, devono assolutamente parlare con l’amico, dirgli di non preoccuparsi, di stare tranquillo e di non dire niente a nessuno, che in questi casi non bisogna dire niente a nessuno, che loro hanno un piano.
Arriva l’amico, parlano e spiegano: il piano è semplice, il solito, quello visto tante volte nei film, andarsene.
“Partiamo, poi si vedrà”, “Partiamo che magari intanto si ripiglia”, “Partiamo che mia madre mi conosce, mi ha già detto che sono strano”, “Partiamo e non ci pensiamo più un po’.
Il loro amico però, non vuole partire. E loro, a questo punto, non hanno altro tempo da perdere. Le borse sono già tutte pronte, perché poche cose si portano dietro, giusto qualche cambio, i documenti, “Mi raccomando, i documenti”, e poi i soldi, tutti quelli che sono riusciti a trovare.
Prendono la macchina di una delle loro madri, un’Audi A3 grigia, e arrivano fino ad un parcheggio alle Golosine. Scendono dall’auto, la chiudono a chiave e la lasciano lì. C’è un ragazzo con una Y10 che come da accordi li sta aspettando, un ragazzo che conoscono, un ragazzo che uno di loro ha conosciuto tempo fa quando si era candidato alle ultime amministrative.
Salgono sulla Y10 del ragazzo e partono, direzione Austria. Sì, perché gli hanno chiesto di accompagnarli in Austria dove possono trovare due biglietti aerei low-cost, così, per andare a Londra, così, per assistere ad una partita di calcio.
Circa tre ore di viaggio passate tra una sigaretta e l’altra, a parlare di politica, di calcio, e di quel tipo, quello dell’altra notte in Porta Leoni, quello che stanno operando da ore, quello che “Vedi che sicuramente si ripiglia, e quando si ripiglia lui noi torniamo”, si dicono mentre attraversano il Passo di Resia. “Dammi un’altra sigaretta”.
A casa, a San Giovanni Lupatoto, c’è il loro amico, quello che non è partito, sta parlando con il padre. Perché lui, in realtà, ci aveva pensato subito alla fuga. Sì, subito, l’altro giorno, all’alba si era messo una tuta ed era uscito di casa, ma poi era tornato il giorno stesso, e c’era suo padre ad aspettarlo, a fissarlo senza dire niente. Perché suo padre l’ha capito subito com’è.
Mentre lui parla con il padre, a Illasi, due ragazzi aspettano da giorni, fermi, vigili, sentono che qualcosa sta per accadere.
Un giro per le strade del paese, un salto al Boomerang, tutti parlano di Verona, di Porta Leoni, dell’altra notte. E i due ragazzi tornano a casa che a Illasi la sera non c’è proprio nulla da fare.
L’Y10 arriva a Innsbruck, lì i due con 300 euro pagano un taxi che li porta fino all’aeroporto di Monaco e da lì, con un volo low cost della Easy Jet, arrivano a Londra.
“Hai una sigaretta?”.
Sigarette, caffè, sono giorni e notti che il magistrato Francesco Rombaldoni non fa che visionare i filmati ripresi dalle telecamere del centro di Verona.
Rombaldoni, il viso asciutto, le dita lunghe, li manda avanti e indietro, i filmati, li ferma, ingrandisce le immagini, di nuovo e ancora alla ricerca di “qualcosa”.
Ecco, la videocamera a circuito di una banca inquadra cinque ragazzi mentre corrono veloci in via Leoni. Sì, ci sono cinque di spalle che corrono via, e altri tre, due si reggono in piedi a malapena, appoggiati a un muro, un terzo è disteso a terra, immobile.
I dettagli sono pochi, pochi i dettagli di quelli che scappano: due di loro indossano jeans, due un giubbotto bomber, uno un cappellino.
Intanto i due del muro, quelli che si reggono a malapena in piedi, sono stati ascoltati più e più volte dalla polizia, ma sono sotto shock, tutto è confuso. L’unico ricordo che hanno sembra essere quello dell’amico, lì, steso a terra, di loro che lo chiamano e di lui che non si muove. Tutto il resto, è annebbiato, dicono, si sforzano ma è come se le loro menti si rifiutassero di rievocare quei minuti da incubo, dicono, forse 3 minuti, durati un’eternità, dicono loro.
Quello che emerge, però, è che i cinque sono italiani, “probabilmente di Verona, parlavano in dialetto”, e giovani, “probabilmente 20 – 25 anni”. Almeno questo il magistrato Francesco Rombaldoni ce l’ha chiaro.
E, allora, i carabinieri diffondono queste informazioni tramite la stampa, sperando in qualche altro testimone: altri ragazzi, anche loro in giro fino a tardi, il camion dell’AMIA, o i soliti barboni che girano per Porta Leoni, chiunque. Chiunque possa contribuire alle indagini.
Anche la madre Maria, il madre del ragazzo che ancora dopo ore e ore si trova all’ospedale di Borgo Trento, tramite il quotidiano locale l’Arena lancia un appello: “Chi ha visto qualcosa quella sera non abbia paura di dirlo perché un ragazzo non può essere in fin di vita per una sigaretta”.
A Verona gli anziani ritrovano seduti ai tavolini in piazza delle Erbe, un signore appoggia il giornale locale di quel giorno, una frase scrive così: “Non fa storia, capita una volta su un milione”, e commenta: “Verona è una città che è sempre stata così, è un po’ estremista, diciamo, ma la famiglia c’entra poco secondo me. Che adesso, la violenza mi sembra che si è un po’ accentuata rispetto agli anni passati, sono più violenti i ragazzi.”
“La famiglia c’entra, come può non c’entrare? È lì che ti educhi”, fa un altro.
“La famiglia non c’entra, non è più importante come prima, ora ci sono gli amici, c’è il gruppo è quello che stravolge quella che dovrebbe essere l’educazione”, insiste quello con il giornale.
“È una violenza che sta dilagando sempre più, per la quale bisogna intervenire. Dipende da tante cose, prima di tutto dalla cultura che non esiste, dall’educazione, e poi da certi principi che si diffondono anche sulla prepotenza, sul contrasto l’uno con l’altro, e finisce che così impiegano il tempo”.
“Famiglia, gruppo… Assurdo, per come la vedo io, è una violenza inconcepibile”, dice una donna mentre con una mano lentamente si sistema le pieghe del vestito.
“Mio figlio, mio figlio è titolare di un ristorante vicino a Castelvecchio, dice che il centro di Verona è pericoloso, lui ha lavorato in una famosa enoteca nel cuore della città e ne ha viste di tutti i colori. Anche nel suo locale le porte dopo una certa ora vengono chiuse.”
“Almeno ora ci sono gli “assistenti civici”, le ronde per la città approvate dal Sindaco, sono aumentati fermi, è vietato dormire per strada“.
“Oggi i la violenza non la puoi controllare, si diffonde più facilmente, internet, la televisione”, commenta la coppia di clienti mentre paga il conto.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più.
Verona, dove il benessere del Nord-Est lo si respira camminando nelle strade del centro dove i locali si accalcano l’uno sull’altro e per l’happy hour si preparano spritz a ritmo frenetico: prosecco, seltz, Aperol. Verona, dove i turisti, dicono, sono 3 milioni ogni anno, arrivano da tutto il mondo e si accalcano per entrare in via Cappello per lasciare al balcone di Giulietta bigliettini o scrivere direttamente sul muro i loro messaggi d’amore. Tutti lo abbiamo fatto, no?
La bella Verona, Verona la città dell’amore e delle sue promesse.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più. Incredula, sgomenta, sofferente, vuole reagire e chiede sicurezza.
Verona si alza un mattino e non si riconosce più, o forse almeno per un istante, osserva il suo viso sotto al trucco, che lei lo sa che c’è dell’altro, che c’è da sempre, solo che di solito è nascosto dal trucco, mentre e ora sembra impossibile nasconderlo.
Perché questo è il quindicesimo episodio di violenza dal 2001, contando solo i fatti più gravi.
Ma ci sono cose che le guide turistiche non dicono. Non raccontano le storie della gente e delle strade, non parlano delle sofferenze e delle grida. Non lo scrivono le guide e non lo sanno i turisti tedeschi, americani e giapponesi che sciamano nelle strade.
È così che gli anziani, seduti al bar, parlano dei giovani in quel tiepido mattino di maggio.
Luca e Maria Tommasoli sono ancora seduti fuori dalla neurochirurgia di Borgo Trento, stanno aspettando fuori da quella sala operatoria da 40 ore, 40 ore di intervento. E per 40 ore in quella sala i medici ci hanno provato. E per 40 ore loro hanno aspettato, il lungo corridoio, avanti e indietro, e il muro bianco, freddo, senza una crepa.
“È stato fatto tutto il possibile”, hanno detto quelli nella sala a quelli fuori dalla sala, “ma è entrato in coma irreversibile”.
I giorni passano e sono tutti uguali.
Di nuovo il corridoio, il muro bianco, il sedersi accanto a lui, collegato alle macchine e ai tubi.
È un tempo senza tempo, è un tempo non-tempo.
Le lancette dell’orologio paiono muoversi in modo impercettibile seguendo una linea tutta loro in cui i giorni si accavallano alle notti e i giorni e le notti ad altri giorni e ad altre notti cosicché diventa quasi impossibile distinguere l’oggi dal ieri.
È un tempo in cui sembra che nulla accada. Tutto è fermo, silenzioso e, nello stesso tempo, tutto è attento a cogliere il più piccolo movimento, ogni fatto, ogni gesto, ogni parola che potrebbe tramutarsi in evento.
I giorni passano e sono tutti uguali.
“Le sue condizioni sono stazionarie ma la sofferenza al cervello è gravissima”, spiegano i medici; “a questo stadio rimane poco: o migliora, o peggiora”.
Non ci sono più i rumori, tutto è ovattato, i passi, le voci, gli odori, gli sguardi.
Sguardi ovattati che incontrano altri sguardi ovattati, e quell’odore acre di disinfettante che arriva al naso come un pugno.
È un luogo che sa di sospensione quello dell’ospedale.
Solo ogni tanto dei rumori: i passi in fondo al corridoio, la porta dell’ascensore che si apre, la macchinetta del caffè, le monete che cadono. Qualcuno che apre una finestra e dal basso le voci degli infermieri che chiacchierano mentre si fumano una sigaretta.
Ma sembra tutto lontano, distante, chiuso in quell’odore di anestesia e in quel colore bianco che trattiene.
Dentro la stanza, lui, quello dell’altra notte in Porta Leoni, quello con i due amici, quello del “no” alla sigaretta. Lui è disteso sul letto mentre c’è chi entra e gli si siede accanto, gli parla, lo accarezza, e la stanza è un continuo via vai: i suoi genitori, il fratello Alessandro, la fidanzata Erika, e poi gli amici di quella sera durata un’eternità, quelli i cui ricordi sono ofuscati, i due che sono appoggiati al muro e a malapena si reggono in piedi, e poi i colleghi. E poi di nuovo i suoi genitori, e Alessandro, Erika, e gli amici, i colleghi.
In ospedale arrivano fiori, biglietti perché tutti vorrebbero trovare le parole giuste da dire, tutta Negrar, ma anche tutta Verona, si stringe intorno alla sua famiglia.
Le “parole giuste da dire”.
“Coma irreversibile”. “Essere in fin di vita per una sigaretta”, dice Maria Tommasoli nel suo appello.
No, non possono e non devono essere queste le “parole giuste”.
Al parcheggio delle Golosine viene ritrovata l’Audi A3 grigia viene ritrovata, si risale al proprietario della macchina, una donna di Boscochiesanuova. L’auto è chiusa a chiave, sui sedili e nel bagagliaio scarpe, un casco, alcuni cd, un paio di dvd e delle fotocopie di un libro. E ancora, svariati programmi elettorali di Forza Nuova con scritta nera su fondo rosso. E, poi, i volantini dell’Hellas Verona, con lo stemma a righe gialle e blu, la scritta nera e i due mastini con tra loro il tricolore.
Intanto le indagini proseguono. Il magistrato Francesco Rombaldoni intanto ha un’intuizione, che bisogna partire da qualche parte, e allora si mette a cercare tra la “lista dei 17”, tra i nomi di quei 17 giovani, tutti di Verona, tutti tifosi dell’Hellas e appartenenti all’estrema destra, ritenuti responsabili di vari pestaggi avvenuti tra il 2006 e il 2007, per i quali si ipotizza il reato di “associazione a delinquere con l’aggravante della Legge Mancino, contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa”.
Perché Verona dall’estate precedente è tornata prepotentemente sulle pagine di cronaca, come per esempio con aggressioni a extracomunitari, o a tre militari paracadutisti della Folgore perché meridionali, perché “terroni”, a un ragazzo con la maglia del Lecce; o a uno che mangiava un kebab, e a frequentatori di centri sociali.
Rombaldoni legge le parole degli inquirenti: “L’obiettivo era quello di colpire con calci, pugni, colpi di spranga e catene chiunque potesse sembrare diverso.”
Rombaldoni, il viso asciutto, le dita lunghe, legge e pensa. E, forse, la sua intuizione è giusta.
Adesso sono le ore 12, e in questo momento all’ospedale di Borgo Trento scattano le sei ore di osservazione. Cioè, bisogna aspettare 6 ore prima che il collegio medico possa esprimersi sulle condizioni cliniche del 29enne ricoverato in terapia intensiva e in stato di coma in seguito al gravissimo trauma cranio-cervicale con emorragia cerebrale provocato da un calcio alla testa, “C’è assenza di attività cerebrale”, dicono.
Il ragazzo con la tuta, a San Giovanni Lupatoto parla a lungo con il padre. Lui vorrebbe convincere il figlio a chiamare un legale e a costituirsi. Perché forse questa è la soluzone migliore, perché il ragazzo di Porta Leoni non si ripiglia e, allora, forse questa è la cosa giusta da fare. Il ragazzo con la tuta non sa che fare, “Però forse, sì, forse è meglio costituirsi, forse con un buon avvocato questa storia si sistema”. Il ragazzo ci pensa.
Anche a Londra i due ci stanno pensando, che le notizie dall’Italia non sono buone, le notizie dall’Italia dicono che quel ragazzo aggredito in corticella Leoni non è mai uscito dal coma, e che le indagini sono iniziate. E poi, la vita Londra è cara, si sa, e i due per risparmiare dormono in ostello ma gli basta fare una colazione che spendono una cifra esagerata e in un paio di giorni si trovano senza denaro.
È pieno giorno, al commissariato di Verona l’appuntato vede entrare un ragazzo giovane e due uomini. Il ragazzo è quello della tuta, i due uomini sono il padre e un avvocato.
Il ragazzo della tuta si presenta alla polizia, racconta la propria versione dei fatti ma non fa nomi “per non essere scambiato per infame”, spiegano gli investigatori, “Il padre ci ha fornito subito la massima collaborazione, mettendo per iscritto, senza esserne obbligato, le responsabilità del figlio, l’uomo dice che vorrebbe essere il papà della vittima anziché il padre di suo figlio”.
Anche a Illasi i due ragazzi ci stanno pensando da giorni, camminano per le strade del paese e ci pensano “No, aspettiamo, aspettiamo ancora”.
Il ragazzo con la tuta si è presentato alla polizia e quella notte, in due case di Illasi si sente bussare alla porta, i due ragazzi aprono ed è la polizia che arresta entrambi, nessuno di loro oppone resistenza, solo uno sguardo alla madre che gli aveva consigliato di costituirsi.
Il ragazzo della tuta e i due di Illasi finiscono in carcere con l’accusa di “lesioni gravissime”.
Ne mancano altri due adesso, quelli a Londra che si stanno chiedendo: “Come facciamo qui senza soldi?” Dicono che il fratello di uno dei due sta collaborando con la Digos e allora provano a mettersi in contatto con i fuggiaschi e li convince a tornare, acquistando loro un biglietto aereo Londra-Bergamo. Il 5 maggio alle 22,30 i due arrivano a Orio al Serio, ad aspettarli ci sono la Digos e il magistrato Francesco Rombaldoni.
I due fuggiti a Londra vengono portati, come il ragazzo della tuta e i due di Illasi, nel carcere di Montorio Veronese.
Adesso sono tutti in carcere.
All’ospedale di Borgo Trento, alle ore 18 viene dichiarato il decesso di quel ragazzo rimasto sotto i ferri per 40 ore e in coma da giorni perché picchiato per un “no” ad una sigaretta.
È proprio mentre alle spalle dei cinque si chiude la cella i cinque capiscono che ora le cose non sanno se si sistemano.
Il giorno dopo il capo d’accusa dei cinque diventa “omicidio preterintenzionale”. “Preterintenzionale” significa che va oltre l’intenzione di chi agisce, che è un’azione in cui l’evento dannoso è più grave di quanto fosse l’intenzione dell’autore. Che è più grave di quanto si pensava.
Forse scappare non è stato un buon piano, forse picchiarlo non è stata una buona idea, forse non è come nei film.
Ci sono dei giorni in cui i cerchi che si chiudono. Nei modi più inattesi, a volte modi desiderati, altri scongiurati, perché nessun genitore dovrebbe seppellire un figlio.
Ci sono giorni come questo 5 maggio 2008, dieci anni fa, come domani, in cui alcuni pezzi strappati sembrano andare al loro posto: le confessioni, gli arresti; mentre altri sembrano destinati a non ricucirsi mai più.
Fine dell’attesa, della sospensione.
Fine dei giorni e delle notti passate a guardare un muro bianco, a bere caffè scadente, a fare su e giù per il corridoio, a entrare in una stanza per parlare e stringere mani e accarezzare un volto sperando, sperando anche in un minimo movimento.
Fine delle preghiere.
Adesso come non mai, Luca e Maria Tommasoli si stringono e cercano di proteggersi e farsi forza, perché un senso è impossibile da trovare e, allora, si rimane così, come quei pezzi strappati tra le mani.
“Oh ce l’hai una sigaretta o no?”
Chi sono loro?
Adesso ve lo dico.
Il ragazzo della tuta si chiama Raffaele Dalle Donne, lo chiamano “Raffa”, 19 anni, è di San Giovanni Lupatoto, studia al liceo classico Maffei ed è un ex attivista di Blocco Studentesco, l’associazione giovanile legata a Fiamma Tricolore e Casa Pound.
È già noto alle forze dell’ordine, colpito dal Daspo, nel febbraio 2008, il provvedimento che allontana per un anno gli ultras violenti dagli stadi, ed è implicato nelle indagini della Procura veronese sul gruppo di 17 giovani accusati “associazione a delinquere con l’aggravante della Legge Mancino”. Questo è Raffaele Dalle Donne, ed è un tifoso Hellas Verona.
Quelli scappati a Londra sono Federico Perini, “Peri”, 20 anni, di Boscochiesanuova, ultras della curva sud dell’Hellas, colpito da Daspo. È stato candidato di Forza Nuova alle ultime amministrative per la seconda e l’ottava Circoscrizione, è così che ha conosciuto quello che li ha portati in Austria. E, poi, Nicolò Veneri, detto“Tarabuio”, 19 anni, vive a Verona, anche lui già indagato nella lista dei 17; anche lui ultras dell’Hellas, anche lui colpito da Daspo.
E poi ci sono i due di Illasi, quelli che non si sono mossi da lì, Guglielmo Corsi, di 19 anni, metalmeccanico, lui è un tifoso dell’Hellas e fondatore di un gruppo di supporter. E Andrea Vesentini, 20 anni, promotore finanziario, dicono c’entri poco con il calcio e pure con la politica, e che sia sconosciuto alla polizia.
E, poi, c’è il ragazzo di Borgo Trento, il ragazzo che non s’è ripigliato, lui è Nicola Tommasoli.
Nicola che quella notte aveva 29 anni, Nicola che da un anno viveva a Negrar con la fidanzata Erika, che aveva studiato al liceo Maffei e poi a Treviso dove si era laureato in disegno industriale allo Iuav in Industrial design, e lì aveva abitato in un appartamento insieme ad altri studenti. Nicola che adesso aveva un buon lavoro come disegnatore tecnico per una ditta di Affi. Nicola che aveva una creatività incredibile, che esprimeva al computer, aveva vinto anche alcuni concorsi internazionali. Nicola che aveva tantissimi amici e che spesso usciva anche con il fratello poco più grande di lui. Nicola che non amava il calcio ma aveva una grande passione per i motori, auto e moto da corsa. Nicola che d’inverno praticava lo snowboard e d’estate andava in skate. Nicola non aveva mai avuto nessun particolare credo politico, che era una persona creativa e sensibile.
Nicola che aveva una bella vita e che e adesso stava pensando al futuro.
Nicola che quella sera era uscito per divertirsi e divertirsi non è reato. Nicola che quella sera aveva rifiutato una sigaretta, e anche dire “no” non è reato.
Nicola Tommasoli che è morto il 5 maggio 2008 all’ospedale di Borgo Trento.
Nicola Tommasoli il cui processo, per il suo omicidio, è iniziato il 9 febbraio 2009 e ancora non è terminato.
Adesso silenzio.
C’è uno strano silenzio il 10 maggio, a Verona e a Negrar, tutto si è fermato, è lutto cittadino.
Il funerale di Nicola si svolge il 10 maggio nella chiesa del XV secolo di San Bernardino a Verona.
A Verona, e non a Negrar, dove abitava. A Verona perché è lì che è morto, e allora forse è giusto che sia questa la città dove celebralo. A Verona perché il maggior numero di persone possa partecipare al saluto a Nicola, perché questo saluto si diffonda per tutta la provincia.
Per volere della famiglia non ci sono giornalisti né autorità.
La chiesa è piena: la famiglia, gli amici, i compagni di scuola, gli insegnanti, i colleghi, quelli che Nicola non lo conoscevano bene, ma che ogni tanto lo incrociavano, quelli che Nicola non lo avevano mai visto, ma che in questi giorni non hanno potuto non pensare a lui.
Non ci sono giornalisti o telecamere oggi.
Adesso c’è solo silenzio.
Anche a scuola c’è uno strano silenzio.
Certo che a uno strano effetto leggere di tuoi coetanei coinvolti in un fatto di cronaca. Leggere che hanno picchiato un ragazzo, lasciandolo lì, steso a terra, immobile e tutto per un “no” ad una sigaretta. L’effetto strano si amplifica se sai che quei ragazzi li hai sicuramente incontrati per le strade della tua città, per i corridoi della tua scuola, magari erano seduti al banco dietro al tuo. Magari ti stavano simpatici, o magari no, non ti era mai sembrato così importante.
Fa uno strano effetto anche se sei l’insegnante di questi ragazzi. Ti domandi se c’entri in qualche modo anche tu in quello che è accaduto, se avresti dovuto notare di più, fare di più. O, forse, no, forse sì. Insomma, tu sei l’insegnante, ma poi c’è la famiglia, gli amici, la società…
Sono giorni dall’aria pesante quelli che seguono la morte di Nicola, giorni che non lo diresti che è primavera e che per molti la maturità è alle porte, giorni densi di domande senza risposta.
Nelle classi, gli insegnanti dedicano un tempo per parlare insieme, ragionare, riflettere, i temi sono sempre gli stessi le scelte, il futuro: “Cosa farai l’anno prossimo?, “E tu? Io ancora non lo so”
Si parla tanto, si parla di Nicola, di quei cinque, di quello che è successo quella notte, di quello che succede in città.
Si parla tanto perché questo è qualcosa di molto vicino a loro, di vicinissimo, perché si parla di loro.
Al liceo Maffei, poi, è ancora più strano. Qualcuno se lo ricorda bene Nicola, passato da lì dieci anni prima, e tutti conoscono Raffaele che su quei banchi sedeva fino a due settimane fa.
Durante l’intervallo ci si raduna come al solito in piccoli gruppi, tutti parlano sottovoce e guardano quell’aula, quella dove c’era uno di quei cinque, “che io mai l’avrei pensata una roba così”.
Nicola e Raffaele – Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele e dai suoi quattro suoi amici, così, una sera – hanno studiato nello stesso liceo, lo “Scipione Maffei”, fiero di essere il più antico liceo d’Italia. Nato nel 1804, il “Maffei” è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora “lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l’assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri”.
Qui si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee. Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia “ars dubiae”.
E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?
“Ce lo stiamo chiedendo – dice il preside – e ce lo siamo chiesti. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza”, dice, “Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti”.
Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il circuito istituzionale e mediatico descrive un’occasione perduta di “recupero”, di disvelamento, ma non spiega le ragioni della “caduta” in un “rito della crudeltà”, per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro gli “altri”.
I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. Non vogliono difendere Raffaele, ma non si è mai comportato da mostro.
E allora come è potuto accadere ad un loro compagno di classe?
Ne stanno parlando accanto alla fontana del chiostro, Giulia e Simone provano a ragionare – ancora una volta, in questi giorni – su quei perché.
“Come è potuto accadere? Perché?”
Prova a spiegarsi Giulia: “Non c’è spazio per l’ignoranza che produce l’ottusa violenza senza scopo qui. Si viene travolti da quel che c’è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare – e capita spesso – che si senta dire in autobus “non siedo qui, accanto a questo negro” e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole… Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica”.
Simone ne sta parlando tanto con Giulia e, come Giulia, ha idee lucide e asciutte. “In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo.
Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c’entra. E invece, c’entra, eccome”, dice Simone, “se politica è l’odio per il diverso, se politica è un’ideologia diffusa là fuori”, indica l’arco, il cancello, la strada, “che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli.
Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola, e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici saranno evidenti. È quel che dovreste fare: ed è chiamare le cose con il proprio nome”.
Chiamare le cose con il proprio nome.
“Difendi il tuo simile e distruggi il diverso” recita il motto dell’Hellas Verona, una delle curve da stadio più famose in Italia: dura, pura, rigorosamente di estrema destra.
Nel settembre 2004, di fronte ad un bar nei pressi dello stadio, poco prima di una partita, un appartenente alla tifoseria dell’Hellas Verona insulta (“Negro di merda!”) un ragazzo di origine senegalese di passaggio. Il ragazzo nero chiede conto e ragione di questo insulto e, allora, il ragazzo bianco gli lancia un boccale di birra in faccia, che gli procura una profonda ed indelebile cicatrice sul volto.
Nel marzo 2008, un altro ragazzo nero è in un bar della Valpolicella. Tutto il bar sta cantando canzoni da stadio dell’Hellas Verona. E allora anche il ragazzo nero lo fa con gli amici si unisce ai cori, canta le canzoni da stadio dell’Hellas Verona.
Ma lui è “negro” e questo fatto infastidisce più di qualcuno. Nemmeno il tempo di apostrofarlo con i soliti epiteti, e la furia dei “butei” si accanisce sul ragazzino. Furia violenta a tal punto che il ragazzino è tuttora in sedia a rotelle e non riesce a camminare a causa delle lesioni subite.
Nel bar erano circa 40, ma nessuno ha visto niente.
Chiamare le cose con il proprio nome.
E, allora, torniamo indietro.
Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dieci anni fa.
Dammi una sigaretta.
Una settimana corta, questa, domani è festa e davanti ci quattro giorni di ponte.
Quattro giorni liberi, tutti da inventare. Quattro giorni non programmati. Del tempo da passare in famiglia, con gli amici, da dedicare a ciò che si ama. Quattro giorni per staccare dalla quotidianità.
Quattro giorni. Un giorno, 24 ore ore. E, allora, davanti, 96 ore “impreviste”, tutte da scrivere, tutte da riempire.
Come dappertutto, i ragazzi ne approfittano per uscire e fare tardi che tanto domani non c’è da andare a scuola o lavorare, che tanto stanotte “la città è tutta per noi”, “si può fare quello che ci va”, “facciamo un giro in centro”, “vedrai che ci divertiamo”, “Hai una sigaretta?”
Corticella Leoni, è uno spazio buio, stretto. Lì ci sono tre ragazzi sono Nicola, Andrea ed Edoardo.
Anche loro hanno fatto serata. Parlato, scherzato, bevuto, fumato. Si sono divertiti. Anche loro domani non andranno al lavoro che domani è il Primo maggio, domani, cascasse il mondo, si dorme.
I tre, sono appena usciti da un locale e stanno tornando alla macchina.
Camminano quando ad un certo punto sentono una frase che è questa: ”Codino, dame na sigareta”, e uno di loro risponde “No”.
96 ore da riempire che cominciano con 3 minuti.
Andrea viene colpito, all’improvviso, di spalle, neanche il tempo di girarsi.
E, poi un altro, secco, duro, mentre fanno per girarsi, senza il tempo di voltarsi, senza il tempo per capire, Nicola, Andrea ed Edoardo hanno i cinque addosso. Sono quelli con il bomber, i jeans, il cappellino. Sono quello della tuta, quelli che scappano a Londra, quelli di Illasi.
Colpiscono, senza un fiato, senza una parola. Solo calci, pugni, capelli tirati, vestiti strappati.
I tre cercano di difendersi, corpi che non riconoscono, che non vedono se non a pezzi. E sono braccia e gambe, e sono bomber, e scarpe, e mani, e un cappello, e capelli e occhi e jeans. Ed è un cadere a terra e rialzarsi, continuamente, con la città che gli ruota intorno, negozi, bar, ciottoli, e quel negozio con le insegne luminose.
I tre cercano di difendersi, gridano, cercano aiuto.
La furia dei cinque è grande, e sotto i colpi, le ginocchia cedono, i corpi si piegano. E ogni volta cadono e ogni volta provano a rialzarsi, fanno leva sulle braccia, ma ogni volta un altro colpo li ributta a terra. Le teste tirate all’indietro, per i capelli, le braccia ora sono bloccate, la schiena inarcata, colpita.
I cinque sembrano un corpo solo, un’unica forma di braccia e gambe. Non parlano, non un insulto, non un nome, non una voce.
Sono bestie. Bestie silenziose, animali impazziti, furie cieche.
Colpiscono, spingono, tirano, calciano. I loro occhi sono fuoco , le bocche serrate. I muscoli tesi, i corpi rigidi, corpi come macchine. Ad ogni colpo ne segue un altro, e poi un altro e un altro ancora.
“Quando finirà? Quando smetteranno?” Non smettono. “Bisogna pensare, capire cosa fare” ma i colpi sono più veloci dei pensieri e pensare diventa praticamente impossibile.
Nessuno pensiero. Solo colpire. Uno, due, tre, quattro, cinque, dieci e di nuovo.
Gambe che tremano che faticano a reggere il peso del proprio corpo. Paura per il prossimo colpo che arriverà. È arrivato il prossimo colpo.
Sentire i polsi che vengono stretti, torti. Il dolore in ogni parte del corpo fino a non sentire più nulla, a non distinguere più una parte del corpo dall’altra, a non distinguere più il proprio corpo.
Nicola, i pugni serrati cerca di difendersi, vuole difendersi, Nicola, resistere. Le mani le tiene strette, Nicola, più strette per poi sentire un dolore acuto, più forte del resto. Il pollice e l’indice di Nicola scricchiolano, si frantumano.
Un altro colpo, un altro, di nuovo, alle gambe, all’addome, un calcio.
Nicola è a terra. Gambe e braccia non lo reggono più. Rimane a terra.
Lo sguardo su questa notte di metà primavera, su questo blu veronese. Lo sguardo a contare le stelle per provare a non sentire il dolore,
Continuano a colpire.
Nicola è a terra, conta le stelle e si dimena.
Urla di dolore.
Un calcio, ancora, gli arriva dritto alla nuca, un colpo lì alla base del collo.
Un colpo che è l’ultimo.
Adesso Nicola non urla più, non si dimena, resta steso a terra immobile che pare addormentato.
Il tempo sembra essersi fermato,
Il tempo si è fermato all’improvviso, ora che qualcosa è cambiato, ora che qualcosa si è strappato.
I cinque scappano via, ora.
I due amici, Andrea ed Edoardo, si reggono a malapena in piedi, si avvicinano a Nicola, lo chiamano, lui non risponde e loro quasi non lo riconoscono. Che non è Nicola quello, che sembra diverso, gambe e braccia e dita spezzate. Che non è Nicola quello, che vorrebbero rimetterlo insieme,e allora, per un istante restano lì, contro la parete alta e bianca di Porta Leoni. E poi li riprendono quei pezzi, pezzi di Nicola e li riattaccano insieme, e capiscono che devono chiamare i soccorsi.
Verona, mercoledì 30 aprile 2008.
Dieci anni fa.
Il resto della storia ve l’ho già raccontato.
a cura di Lucio Rubbino
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Giovanni Concetto Vecchio(alias Giovanni Sciara)Scritto il12:07 pm - Mag 17, 2022
Buongiorno,sono lo scrittore Giovanni Sciara da Linguaglossa,abbiamo avuto modo di parlare,credo che abbiamo come comune amico Giuseppe Cerra da Linguaglossa. Si tratta di questo: il 4 e 5 Giugno,a Linguaglossa,presso il Collegio dei Domenicani,ore 10 –18,avverrà il casting per un film tratto da uno dei miei romanzi,”La baronessa di Linguaglossa”.La invito a partecipare.
Cordiali saluti e buona giornata