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Baronessa Giovannella De Quatris

 

La Baronessa Giovannella De Quadro

Giovannella De Quadro, conosciuta oggi come De Quatris (1444 – 15 luglio 1529, ma nonostante le documentazioni, non tutti gli studiosi concordano spostando la morte al 16 luglio o all’anno 1519) fu una nobile Baronessa che visse nell’arco della sua vita prima a Catania e poi a Randazzo, dove acquisì un ruolo di primo piano. 
Le origini della famiglia De Quadro furono scoperte solo di recente, il padre della Baronessa si chiamava Giovanni De Quadro e invece suo nonno si chiamava Gomes De Guadro (detto anche Gometro, Gomezio, Gomecio, Gomecii e Gomecium come riportano alcuni documenti storici), catalano giunto in Sicilia, ebbe un ruolo di primo piano nella città di Catania dove sposò la figlia del nobile Raimondo Capitano di Giustizia della città, alla presenza anche dell’infante Pietro fratello del re e del fratellastro Federico d’Aragona conte di Luna e successivamente divenne anche Patrizio di Catania. 
Il nonno della Baronessa conobbe sicuramente il Governatore di Malta Gonsalvo Monroi (detto anche Gondisalvo Monroy o Murroi) che gli cedette i feudi detti “Flascino, Flaxio o Frascino e Briemi o Brieni” oggi Flascio e Brieni. 
Il cognome della famiglia fu modificato da Giovanni suo padre, che nel suo giuramento di fedeltà al re riportava: “Giovanni De Quadro figlio di Gomes De Guadro”, si trattava quasi sicuramente di una traduzione voluta forse per nascondere le origini catalane o per favorirne la pronuncia nell’idioma volgare dell’epoca.  Da questo momento in poi De Quadro diventa il cognome della famiglia, ma con la Baronessa fu poi nuovamente mutato da Quadro a Quattro, Quattris, Quadris fino all’attuale De Quatris che poi fu adottato da tutti, anche dai diversi studiosi. 
Tuttavia De Quatris è più un soprannome come riporta l’iscrizione nel suo monumento funebre in cui si specifica “detta De Quatris” a sottolinearne quasi la non originalità di questo cognome. 
Giovannella De Quadro ebbe nel corso della sua lunga vita due mariti; si sposa  la prima volta con Pietro Rizzari (??-1512), discendente probabilmente dallo stesso Pietro Rizzari che anni prima fondò l’Università di Catania e che aveva conoscenza presso il re Alfonso. (Infatti secondo diverse fonti, una Tarsia Rizzari fu la concubina del re Martino I e gli diede anche un figlio il futuro Federico Conte Di Luna, di cui re Alfonso era per l’appunto il fratellastro.I siciliani volevano incoronare re proprio Federico, ma gli spagnoli nonostante Federico fosse stato educato in Aragona si opposero giustificandosi contro i suoi natali illegittimi e scegliendo quindi Alfonso). 
La Baronessa, non ebbe figli da questo matrimonio e prima della morte del marito fece testamento (nel 1506 ma per quanto riguarda questo testamento pare che forse ci siano altre copie redatte in date differenti, poiché alcune fonti riportano le seguenti date: il 5 marzo 1506, il 23 marzo 1506 e il 28 aprile 1506) affinché con il ricavato delle sue proprietà fosse conclusa la costruzione della chiesa di Santa Maria (oggi Basilica di Santa Maria Assunta) mantenendo l’usufrutto per lei e il marito.
Morto il marito quando ella aveva 68 anni, si sposò la seconda volta con Andrea Santangelo discendente probabilmente dai baroni del Cattaino e secondo le fonti esso prese investitura dei feudi solo nel gennaio del 1517. Non fu ovviamente un matrimonio per avere dei figli, vista l’età avanzata, ma sicuramente di comodo o come azzarda qualche studioso per ragioni patrimoniali, oppure perché si suppone che Andrea Santangelo rivendicasse i feudi appartenuti ancora prima di Monroi dai suoi avi.
Andrea Santangelo entrò quindi come usufruttuario e secondo le fonti, ostacolò non poco gli ecclesiastici di Santa Maria nella costruzione della chiesa, ma finché la Baronessa era in vita tutto fu fatto secondo quanto da lei disposto.
Alla morte della Baronessa (morì all’età di 85 anni) nacquero infatti diverse questioni e furono promulgate persino scomuniche papali affinché nessuno potesse ostacolare quanto da lei disposto. Le due parti coinvolte erano la chiesa e il comune che a nome della comunità dovevano preservare gli interessi della nuova “Opera Pia” e di cui numerosi studiosi si sono documentati, anche schierandosi delle volte apertamente per l’una o per l’altra parte, fino a quando le ultime sentenze che ne definirono l’assetto oggi vincolante dell’Opera Pia della Baronessa Giovannella De Quatris la divisero fra le parti coinvolte.
Il testamento diventò presto una questione complessa, che divise il paese per molti anni circa 3 secoli; infatti esso dichiarava che la Baronessa non aveva parenti oltre ad un nipote figlio illegittimo di un Francesco De Quadro chiamato Cosma o Comisso, ma alcuni studiosi riportano anche di una sorella della Baronessa (una certa Tuccia) che dopo la sua morte reclamava una parte dell’eredità e si suppone che tale Francesco De Quadro potesse essere un fratello della Baronessa deceduto all’epoca del testamento, così da giustificarne sia il grado di parentela con Cosma e sia la dichiarazione di non aver più parenti in vita, ma a tal proposito non sono state trovate fonti sufficienti per dissipare ogni dubbio e confermare quanto supposto.

In sintesi il testamento prevedeva che le onze ricavate dai feudi Flascio e Brieni servivano per:

1-La “Maramma” o “Fabbriceria” della chiesa di Santa Maria
2-Al completamento della chiesa, doveva costruirsi un Ospedale per i pellegrini 
3-8 onze a vita venivano disposte per Cosma De Quadro
4-10 onze da destinare il 14 Agosto di ogni anno per matrimonio o ordine sacro alle giovani di famiglia nobile decaduta.
5-Per vigilare su quanto chiesto istituisce dei “Procuratori” laici eletti dai componenti della parrocchia e dal clero a condizione che siano persone oneste e di provata fede.
6-I feudi non potevano essere venduti o trasformati, ma dovevano servire solo per la causa testamentaria espressa.
7- I Procuratori trasgressori della sua volontà dovevano rendere conto ai “Giurati”.

Con gli anni le rendite aumentarono e le disposizioni iniziali divennero poi ricordo al completamento di quanto stabilito e così secondo alcune fonti, furono poi distorte per altri fini come: ai canonici per servire messa, all’organista o per altro scopo che fecero seguito a continue dispute tra il comune che intendeva amministrare per sé l’Opera e la Chiesa che ne richiamava diritto.
Con il ricavato dei suoi feudi inoltre è stato realizzato anche l’altare della Chiesa di Santa Maria e lo ricorda anche il suo stemma nobiliare posto in cima e poi altre diverse e numerose opere, anche su disposizione del Vescovo di Messina che ottenne parte delle rendite per il completamento del Seminario diocesano, tuttavia queste opere che studiosi si sono chiesti se legittime, hanno forse dato ancor più valore alla grandezza della Baronessa, anche dopo la sua morte, perché portano tutte il suo nome e la sua generosità testamentaria.
Nel corso degli anni alla Baronessa le fu attribuita anche la proprietà di un libretto in avorio, ma indagini hanno constato la presenza di questo già nell’Archivio dei Beni della Chiesa nel 1477, cioè già da quando la Baronessa aveva 33 anni e che forse invece rappresenterebbe una donazione fatta alla chiesa di Santa Maria da qualsiasi devoto, ma attribuitele forse per dare un maggiore riconoscimento al valore del manufatto.
Intorno al 1790 inoltre la tomba della Baronessa fu aperta per via di un trasloco e il “Decano Canonico” di allora  Antonino Vagliasindi, dichiarò in una lettera, che la Baronessa fu trovata intatta e che con lei vi era solo una corona di rosario in ambra che però gli prese per mandarla con altri suoi abiti e il libretto (nonostante non fosse con lei sepolto, a suo dire era appartenuto alla Baronessa), ad un ritrattista e ad uno scultore di Palermo, che quindi inventarono secondo la descrizione scritta del Decano il viso della Baronessa, avendo come indicazioni perfino i nei del viso.
Il ritratto e il busto custoditi oggi nella Chiesa di Santa Maria, non corrispondono quindi al vero, ma più che altro alle fantasie dei loro creatori, secondo le disposizioni del Decano che voleva omaggiare la Baronessa per via della sua preziosa donazione, che con gli anni aumentava di profitti.
La Baronessa Giovannella De Quadro è stata ed è ancora oggi una figura importante per la storia e la cultura di Randazzo, lo testimonia il suo atto di generosità a disposizione dei randazzesi.
I diversi misteri che riguardano la sua vita, hanno sicuramente contribuito a darle una maggiore riconoscenza e un maggiore interesse, ancor oggi avvertiti con curiosità da parte di tutta la città di Randazzo.

Emanuele Mollica

Per ulteriori informazioni si rimanda al libro  “De Quadro – Una storia prende vita”  di Emanuele Mollica

 

 

Giovannella De Quatris, una grande baronessa

La  storia del nostro paese non è grande solo grazie a uomini, ma anche a donne: un ruolo importante sicuramente l’ha avuto la baronessa Giovannella De Quatris.
Non è certa la data della sua nascita, ma si può stabilire intorno al 1444 a Catania, perché nel sarcofago è presente la seguente frase:
“Vixit annos LXXXV”  cioè “visse 85 anni” e  la data della sua morte, 1529.
Il cognome ne rivela le origini  aragonesi. Trasferitasi a Randazzo, in seguito al matrimonio con Pietro Rizzari, non riuscì mai a realizzare il sogno di avere figli.
Vivendo e pregando nella chiesa di S. Maria, con gli abitanti di Randazzo, aveva potuto constatare la povertà e la miseria in cui molti vivevano e proprio per questo motivo decise di donare, con atto del 23 marzo 1506,  alla chiesa che tanto amava,  due feudi, Flascio e Brieni nel territorio di Randazzo, affinchè ne venisse realizzato il completamento.
Tale chiesa era stata  luogo molto importante per la baronessa perché vi aveva potuto esercitare la fede in Dio con grande devozione.
Alla chiesa donò anche suppellettili vari, per l’abbellimento della stessa, come  il famoso libretto scolpito in avorio, all’interno del quale si trovano foglietti in pergamena con delle miniature che rappresentano i misteri della passione  di Cristo e le preghiere da lei recitate, descritte attraverso immagini, in quanto la Baronessa non sapeva leggere, essendo negato alle donne dell’epoca l’apprendimento attraverso la lettura.
La generosità di Giovannella è evidenziata dal fatto che la sua eredità si estende non solo alla Chiesa, ma anche alla vita di giovani donne; infatti con il testamento dispose che le giovani nobili decadute usufruissero di lasciti (10 onze il 14 Agosto di ogni anno) per la dote del matrimonio o di monacazione.
Un vitalizio di 8 onze all’anno fu lasciato anche al figlio illegittimo del padre.
Morto il marito Pietro Rizzari, Giovannella a distanza di un anno si risposò con Andrea Santangelo.
Grazie al suo lascito, nella Chiesa di S.Maria, nonostante le controversie con l’ultimo marito, che usufruì del feudo  di Brieni fino alla morte (1560), furono molti i lavori e gli abbellimenti fatti.
La chiesa man mano assunse una forma decorosa e monumentale, per le snelle colonne gotiche, i capitelli floreali stilizzati, gli archi acuti, solenni e agili, e infine per l’immagine della bella Madonna di fattura bizantina posta sull’altare. La chiesa fu dotata di altri ornamenti, come nel 1567 l’imponete Ostensorio processionale, in argento dorato, che tuttora fa parte del suo tesoro.
Grazie all’eredità della baronessa De Quatris, quindi, si è potuta realizzare la bella Basilica di S.Maria, simbolo del nostro paese.

Anna Bagiante   (Liceo Classico “Don Cavina” Randazzo ).

 

” a Vara”  dedicata all’Assunta, è una suggestiva tradizione che dal 1500 è giunta fino ad oggi.
La storia non lo afferma con sicurezza ma, da scritti dell’epoca, da leggende e dalla memoria popolare, si fa risalire l’istituzione della festa alla baronessa Giovannella De Quatris. Sotto il suo patrocinio bravissimi artisti, artefici realizzarono il “Carro Trionfale” detto nel gergo popolare ” ‘A Vara ” la stessa nobile Giovannella, si dice abbia lasciato l’incarico alla Chiesa di S. Maria, oggi Basilica Pontificia, di tramandare ai posteri la manifestazione, dotandola all’uopo anche di mezzi finanziari, oggi sostenuta dalle amministrazioni comunali e dai cittadini.
“‘A Vara “ viene allestita non perdendo nulla della originaria magnificenza e dei simbolismo primitivo.
Il sostegno centrale, un grosso tronco dei diametro di 40 cm., non è fisso, ma compie un movimento rotatorio continuo, che ha per immediata conseguenza la rotazione di tutto l’apparato, comprese le persone e le due grandi ruote già per se stessa mobili in altro senso. Dalla base al vertice dell’enorme ” simbolo ” si inseguono centinaia di figurine ornamentali in rilievo, nuvole d’argento, specchi a profusione delle dimensioni più svariate, una miriade di scaglie d’oro, argento, smeraldo, arancio, zaffiro.
 Il brillìo gioioso di tanta ricca veste, i barbagli vivissimi che gli specchi lanciano colpiti dai raggi solari bastano da soli a sottolineare l’apoteosi della Vergine che accede al Trono dell’Eterno.
Il carro base ha un’ area di 1 8 mq. e ospita oltre al tronco centrale, un altarino con la reliquia della Madonna. Attorno all’ara trovano posto sacerdoti e chierici. Il complesso misura da terra al sommo vertice quasi venti metri.

     Padre Luigi Magro  da Randazzo, al secolo Santo Magro (1881-1951), dei Frati Minori Cappuccini nel suo libro ” Cenni Storici della Città di Randazzo”  tratta molto dettagliatamente la questione della donazione della baronessa Giovannella De Quatris e di tutte le conseguenze che da essa derivarono.
Per un maggiore approfondimento vi rimando al suddetto libro ( cap.9  pag.258 )  che puoi trovare nel profilo di Padre Luigi Magro.

 

IL LIBRO DI PREGHIERE
   DI GIOVANELLA DE QUATRIS

Prof. Enzo Maganuco

   Gelosamente custodito nel tesoro della cattedrale, il libro di preghiere di Giovannella De Quatris, (1444 – 15 luglio 1529) , nobile randazzese della fine del quattrocento, chiude fra due valve eburnee, intagliate duramente a basso rilievo, tre lamine pure esse eburnee, sulle quali poggiano attaccate e leggermente erose per lungo, ascetico uso, sei paginette in pergamena.
   Il piccolo codice, sul quale la baronessa De Quatris, illetterata, posava lo sguardo a contemplare i misteri della vita e passione di Cristo, misura, aperto, cm. 10×13.
   Le valve del dittico che formano come due coperture di guardia al codice miniato, sono divise in due zone. La prima contiene la Crocefissione in alto, e la Resurezzione in basso, l’altra rispettivamente l’Incoronazione  e il Transito di N. D.
   Una cornice ricorre sopra ogni riquadro e consta di una serie di archetti pensili, ciechi di coronamento.
   Sono archetti acuti cuspidati, col giglio apicale di gusto francese e aragonese come se ne rivedono in tutte le tarde forme  gotiche sotto la dinastia aragonese in Sicilia: in S. Giorgio a Ragusa Ibla, nell’arco di S. Maria di Gesù a Modica.

Randazzo – La Baronessa Giovannella dè Quatris

 
L’artefice del dittico ha voluto  –  con evidente squilibrio di tutto il valore ornamentale  –  decorare con fogline rampollanti anche la convessità degli archi i quali, nell’intradosso non portano l’arco tribolo come nel tardivo gotico francese dal quale derivano molti, intagli eburnei del tempo, ma hanno l’intradosso liscio e a larga bi concavità come nel gotico siculo.
   Egli nell’ingenuo sforzo per riempire tutti gli spazi vuoti con figure che dovrebbero concorrere alla risoluzione dell’episodio mostra subito, co l’accavallamento delle figure stesse senza alcun tentativo di gioco prospettico  –  non ancora risoluto nell’epoca del dittico  –  un arcaismo dal quale non si salvano in Sicilia neanche i pittori più egregi.
   Anche nella  coimesis  l’artista segue ancora lo schema bizantino dei mosaici e delle pitture su tavola di Sicilia; e non è da far le meraviglie se  –  data la persistenza iconografica bizantina in Sicilia  –  nella Chiesa di S. Maria in Randazzo e nella Chiesa dell’Annunziata in Comiso, Giovanni Caniglia (1548), pittore del cinquecento, arcaico ma non privo di piacevolezza e di originalità in certe gamme cromatiche e in certi impasti, nel transito di N. D. segua pure lo stesso schema iconografico.
   Ma nel riquadro del dittico, la sproporzione delle mani e delle teste che vorrebbero dare grandiosità e solennità, quel fare convenzionale dei capelli a masse parallele sfuggenti, trovano compenso nell’illeggiadrirsi delle pieghe naturali soavi attorno alle gambe della Madonna e attorno al corpo della figura accasciata e implorante a lato della bara, La madonna è tutta chiusa nella linea soave creata dalla curva del capo poggiante sul cuscino approntato da mano pia, mentre il volto ristà soffuso da uno spento sorriso smarrito.
   E le mani stilizzate, si incrociano con purezza, se pur convenzionalmente, al di sopra del drappo scendente in dure e orbacee pieghe del  cataletto.
   Non è dubbia, in tutto il riquadro, l’influenza del goticismo francese che per questa opera arriva in Sicilia con un’ondata quasi spenta: basti pensare ai due avori  francesi del XIV conservati al Louvre e pubblicati dal Malet. Ma negli avori del Louvre, nonostante  l’insistenza dell’attitudine ieratica e convenzionale, la lunghezza delle mani eccessivamente affusolate, c’è nell’artista gotico una consapevolezza e una padronanza del senso decorativo che ci stupisce, un equilibrio nelle masse, in così dolce trapasso di piani nell’avvicendarsi delle pieghe !  E tanto armonica la linea decorativa sottintesa nelle figure secondarie e in special modo negli angeli tubicini e osannanti, che l’occhio ne rimane fermo e sorpreso.
   Invece del dittico di Randazzo  eco lontana di quelle forme originali nobilissime che in tono minore ci riportano alla scultura monumentale dei portali e dei protiri  delle cattedrali francesi, specie nel riguardo della  coimesis  , si sente un artista nostrano e primitivo nella distribuzione delle parti, che sostituisce alla fluida bellezza dei nordici modelli una robustezza anatomica delineata con rozzezza tagliente e con angolose sporgenze e rientranze: è musica insomma, concepita quasi, in tutte quattro i riquadri, in toni naturali, senza semitoni di trapasso.
   Maggior senso di proporzione, di dominio degli spazi, si ritrova nelle altre tre figurazioni. L’espressione dei volti riesce talora caricaturale poiché l’artista, nel definire coll’intaglio la mimica facciale, procede per approssimazione. Riso infatti, più che celestiale e ispirato sorriso, è quello dell’angelo che incorona Maria: allungatissime, forse a indicare il culminare del momento mistico e solenne, le dita benedicenti dell’Eterno, dell’Apostolo del Cristo nei due episodi della prima valva e nell’episodio basilare della Resurrezione nella seconda.
 In alto, a destra, nell’episodio della Crocefissione, lo spazio, diviso longitudinalmente in due dal corpo del Cristo contorto entro la tradizionale curva romanica, contiene due gruppi: a destra Longino e Nicodemo oranti e i soldati, affollati, delineati con aspri incavi che duramente sbalzano il drappeggio; a sinistra il gruppo delle donne, tra le quali Maria, esausta, irrigidita in una smorfia di dolore mal resa e convenzionalmente ottenuta dall’artefice, sorretta da mani pietose che stringono l’affannato torace.
   Qui l’ondeggiare e l’accavallarsi delle pieghe, resi con grande sensibilità di massa e per piani progressivi, mostrano come l’artista – meridionale probabilmente per l’atticciatezza delle figure e per la robustezza talora eccessive delle masse – si sia giovato, per l’intaglio, di qualche gruppo di modelli francesi del tardo gotico, mentre ha lavorato con proprio slancio di fantasia e con diverso ritmo creatore attorno a certi altri gruppi.
   Nel riquadro della Crocefissione vi sono, tra il gruppo circostante di sinistra e quello di destra, tali profonde differenze di concezione dell’anatomia e del drappeggio che se ne può facilmente dedurre la diversità di modello e d’ispirazione.
   Dalla Francia numerosi vennero in Italia ,i dittici eburnei e non è escluso che da noi abbiano avuto larga eco in varie riproduzioni simile, forse della stessa officina d’arte riprodusse il modello dittico, è quello di Sassoferrato (8) in cui però l’equilibrio degli spazi, la battuta larga ed armonica, la proposizione degli scorci anatomici ci portano lontano dal nostro e se mostrano la similarità fanno pur sentire la statura di un artista superiore.
   Ma la fonte della Crocifissione è ben riconoscibile : è il dittico della passione della Collezione Hainauer di Berlino. Il taglio quadrato, ancorché rettangolare, del piccolo lacunare contenente la scena, non ha permesso all’artista del dittico di Randazzo di addensare tutti i personaggi entro il riquadro e ha tolto Longino e Nicodemo d’attorno al Crocifisso. E ben probabile poi che il dittico di Berlino sia servito di modello mediato attraverso qualche copia o qualche replica: ché nel nostro dittico, benché le figure siano quelle del modello, più pigiate e addossate , v’è tale sciatteria che non sapremmo immaginare il diretto influsso dell’avorio francese eletto nella forma, squisitamente patetico negli atteggiamenti : del resto, evidente distanza di tempo separa le due opere.  La prima, della metà del secolo XIV, la seconda della fine del secolo quando, spento ogni flusso di idealismo  –  sia pure trascendente e convenzionale  –  per l’introduzione del realismo straniero, l’arte fu portata  a tendenze spiccate verso forme drammatiche e patetiche; certamente, non tutti gli artisti riuscirono compiutamente e rapidamente a togliersi dal solco della tradizione.
   Certo, esistono dei modelli perfetti : ma le derivazioni, pur conservando l’iconografia che potremmo dir nuova, mostrano eccesso, banalità, manierismi.
  La Vergine negli intagli eburnei tardivi, non sta più diritta fra i due angeli, una si curva verso di loro, sdraiata; nella tragedia del Calvario ognuno, come dice il Malet (9) , si torce sui suoi piedi col più melodrammatico dolore e il Cristo, curvo in due sulla Croce ondulante fra il gruppo delle donne e dei soldati come in balia di un vento violento.
   Le forme che la tradizione aveva imposto, imbevute di grazia impeccabile e concludenti gli episodi in disposizioni  ingegnosissime donde balzava lo spirito altamente decorativo dell’artista, declinavano ormai; le forme sfociavano in un realismo gretto e greve.
   A questo periodo di realismo svisato, mal compreso e mal reso, crediamo che appartenga il dittico di Randazzo; il quale pur avendo con altri  –  come si è dianzi detto  –  termini di similarità persino nella cornice archiacuta di gotico fiorito, mostra nell’artista un valente imitatore che pur sentendo qua  e là l’eleganza e lo slancio gotici, rimane, a nostro modo di vedere, specie nella durezza delle masse anatomiche e nell’arcaismo della distribuzione, un siciliano della fine del secolo XIV o del primo scorcio del XV.

LE MINIATURE

   Di stile più prettamente francese sembrerebbero, in una prima visione sommaria, le sei miniature contenute nel dittico creato per certo a contenerle dopoché esse furono ritagliate da qualche “officium” per servire da guida spirituale alla De Quatris.
   Il largo margine vergine che corre attorno alle riquadrature delineate violentemente in sepia e a doppia squadratura, escluderebbero nell’artista la volontà a fare l’opera di decorazione comune ai miniatori palermitani e arabo-siculi che nelle cassette e sulle pergamene, in preda a uno slancio decorativo, ornano di racemi, di ori, di fuseruole, di bacche, di volute, tavole e pergamene.
   L’artista qui ha voluto soprattutto rappresentare; l’elemento decorativo è spostato: da esterno diventa intimo e concorre a rendere soprannaturale la scena che nella rappresentazione delle figure cerca di essere realistica o, per lo meno, naturalistica. Le figure, manchevole nel nudo, ma sode e ben postate quando sono vestite perché l’artista conosce il ritmo delle pieghe cascanti secondo la legge della gravità, profilate con precisione si ché coll’avvicendarsi delle e delle ombre ne risulti modellato tutt’altro che debole, sono immerse in un’atmosfera di sogno, talora, come nell’Annunciazione, sotto un cielo convenzionale in cui lo razzare della luce è inquadrato in una rete di righe aurate a quadri.  Vano è parlare di veridicità cromatica, di corrispondenza al vero di pittura e tanto più quando si parla di miniatura; ad ogni modo l’artista non vuole solamente liricizzare il colore locale delle cose ma vuole addirittura portarci in un ambiente irreale nel quale si svolga però l’episodio con palpito e con naturalezza umana : l’artista vuol giungere al mistico attraverso l’equilibrio tra il reale plastico delle masse anatomiche e l’irreale convenzionale del colore ambientale e paesistico.




   Il sacro lungo uso del delizioso libretto attenuato qua e là le tinte senza però troppo scialbarle né logorarle; l’effetto cromatico è ancora completo. Il cielo, nella scena dell’Annunciazione, che nello schema iconografico segue quello della corrosa Annunciazione della finestra basilare del trecentesco torrione di S. Martirio, è purpereo, e di un cremisi cupo è nella scena del Cristo alla Colonna.
   Quest’ultimo episodio, ingenuo nella rappresentazione degli alabardieri resi male per l’inversione della statura che porta a una errata valutazione della distanza prospettica , e ingenuo ancora per la goffa apparizione dell’Eterno, pur essendo dello stesso maestro che ha miniato gli altri fogli, mostra più a nudo le qualità negative dell’artista che nelle altre miniature se scopre delle manchevolezze attribuibili all’epoca in cui egli operò, mostra d’altra parte qualità di disposizione delle figure e soprattutto una spiccata tendenza alla musicalità del colore che ritroviamo poi sviluppate solo nel tardo quattrocento, nelle miniature palermitane.
   Nella scena dell’Annunciazione Maria, serenamente atteggiata, con un rotulo svolto sulle gambe, in ambio manto celeste lumeggiato dall’artista con un cobalto sereno che si risolve in accordo coll’azzurro d’oltremare delle pieghe cupe, profonde, sinuose, elegantemente contenute, ristà sotto un baldacchino di cadmio tutto dorato dai raggi del sole; l’angelo in lucco rosso e con ali acutissime che rammentano quelle delle miniature francesi del trecento, è genuflesso; e divide architettonicamente lo spazio in diretta corrispondenza coll’oggetto del baldacchino: da un ornato porta fiore emergono fogli e gigli; la scena si svolge su un pavimento a scacchi verdi e neri che chiedono con tono freddo e intonato tutta la gamma cromatica della composizione. La scena della Visitazione si svolge entro un recinto limitato da un incannicciato, il tradizionale e ancor comune “cannizzu” siciliano che si rivede anche nella Natività né mi pare sia questo un riempitivo di indole nordica.
   Torrioni apparsi nella lontananza che li separa, si ergono in alto, sulla collina retrostante. Anche qui il rosso mattone della veste di S. Elisabetta, è intonato colle tinte espresse nella miniatura. Più solida nel colore è la miniature della Presentazione al Tempio; stridente pel contrasto che nasce da gridellino dell’abito di Giuseppe di fronte all’azzurro di cobalto del manto della Madonna immersa in una fiamma convenzionale, amplissima che la circonfonde e l’altra raffigurante la Natività; ambedue queste miniature mostrano qualità di disegno e un senso così marcato della plastica e della profondità  –  che diventa ammirevole risoluzione prospettica nello sfondo della trabeazione, costituito da un loggiato –  da far pensare quasi che l’artista abbia cominciato dalla Crocefissione e dal Martirio alla colonna e che dopo varie incertezze e inciampi nella risoluzione dei vari problemi anatomici e paesistici abbia meglio padroneggiato i suoi mezzi sboccando con vero lirismo pittorico in quelle figurazioni che cronologicamente sono anteriori nella vita del Redentore.                                             

                                                                                                                ***

   Ma ci occorre il problema del collocamento cronologico e della provenienza.
   Dissi sin da l’inizio che le miniature appaiono francesi.  Ed è verosimile che l’artista sia stato educato a modelli francesi. Un’analisi minuta ci porta ben lontani. Nelle presenti miniature il convenzionalismo, se c’è non è gotico; è nel colore e questo può essere frutto di quella spiccata tendenza al colore irrazionale che i siciliani ereditarono dai bizantini e dagli arabi.
   Né vale che spesso siano state illustrate leggende cavalleresche o sacre di sapore provenzale come nello steri o  nel tetto di S. Nicolò a Nicosia, o nel tetto del Duomo di Messina ; in Sicilia la tendenza al colore irrazionale fu intimo bisogno di decorazione sognatrice, non convenzionalismo di importazione straniera; né d’altra parte affiora in questi fogli miniati quell’eleganza slanciata ma chiusa e fredda del gotico tardivo francese.
 Nel Nostro codice, l’elemento figurato, umano o divini, sematico insomma, è reso con quel naturalismo stentato, ma naturalismo, che ritroviamo in Sicilia verso il quattrocento; quivi l’arco acuto comparso prima dell’evento del gotico, scompare presto e il primo rinascimento quattrocentesco ci dà nuovamente l’arco molto schiacciato, quasi a pieno centro, dal quale è bandita ogni idea di goticismo; e ricompare qualche decorazione cosmatesca come nel palazzo Ciampoli di Taormina, nel palazzo Clarentano e nelle case di via dell’Agonia a Randazzo; nella miniatura dell’Annunciazione la decorazione del mur0 di cinta del baldacchino, se pure aprossivamente, rammemmora la decorazione cosmatesca; e nella Presentazione lo sfondo è pienamente quattrocentesco nella semplicità del loggiato, nella rotondità degli archi ; e questo maestro che in luogo di giocare per impasti di tinte preferisce dipingere a forti tinte locali, lumeggiando poi per sovrapposizioni filiformi e chiare, porta nella sua tecnica, nella comprensione prospettica, nella variazione cromatica dei piani, gusto strano e rozzezza e dev’essere stato un primitivo siciliano del quattrocento educato soprattutto alla scuola di quei freschisti della Sicilia centrale che negli affreschi di S. Andrea di Piazza Armerina e di S. Spirito a Caltanissetta fanno sentire come le miniature in questione siano lontana e indiretta filiazione di quegli affreschi.

Prof. Enzo Maganuco .

 

 

A VARA

STORIA DELLA ” VARA” di Salvatore Calogero Virzì 

 

Invitato a far seguito alla simpatica cerimonia svoltasi con una mia conversazione che si adattasse nello stesso tempo al momento mi è sembrato argomento consono e opportunissimo parlare della ”Storia della Vara”, espressione folcloristica di grande importanza, non solo per la nostra cittadina, che da secoli gode della sua celebrazione, ma anche per tutta la storia del costume della nostra Sicilia.
Essa, infatti, conserva ancora in tutte le sue espressioni un sapore inconfondibile di tempi e di età trascorsi, gelosamente conservato dal multiforme spirito delle innumerevoli generazioni che formano questa nostra cittadina, che vanta momenti di vero splendore nella sua storia e godette di grande importanza nelle travagliate traversie dell’Isola, come in quel periodo di esaltazione nazionale quale fu il “Vespro Siciliano” di cui l’anno scorso, in tutta la Sicilia, si è commemorato, con manifestazioni culturali, il settimo centenario della ricorrenza: 1282-1982.

Tutti sappiamo in che cosa consiste la festa della “Vara”, quali sono i suoi momenti, quali la caratteristiche, ma non tutti conoscono né le origini, ne la sua lunga storia, né quale sia stato lo svolgimento degli avvenimenti che la riguardano lungo i secoli trascorsi ed a noi ricordati da polverosi e marciti documenti d’archivio, che io ho avuto la fortuna di ritrovare ed il coraggio di compulsare, e che oggi mi danno la gioia di riferirne e notizie in questa mia conversazione.

  1. – LA FIERA FRANCA

A diradare, in parte, il mistero della situazione della Festa della “Vara”, ci viene in soccorso il ritrovamento di un documento originario che ci fa conoscere la data precisa di una manifestazione che fu l’occasione determinante della nascita della festa della Vara.
La istituzione cioè di una Fiera Franca che doveva celebrarsi nell’ambito del territorio della Chiesa di S. Maria.
La concessione è del 3 Agosto 1476 e fu data dal Re Giovanni d’Aragona: privilegio di grande importanza che rivoluzionò tutto il costume e tutta la vita economica e civile del paese.

            Ma è necessario chiarificare in che cosa consiste tale privilegio.

“a Vara”  foto d’epoca – Randazzo

Da tutti si conosce la grande importanza che ebbero la fiere nel Medioevo e l’efficacia economica di tale rilievo che ancora molti paesi, non più per privilegio speciale, ma per tradizione che si è perpetuata nei secoli più lontani della loro storia, ne conservato la celebrazione.
Cosi Mojo, Francavilla, Cesarò, Roccella, Troina, i cui paesi più lontani dell’Isola, e raccolgono animali d’ogni genere in numero veramente impressionante.
RANDAZZO, dunque, ebbe questo privilegio sollecitato dal Clero e dal Procuratore della Chiesa di S. Maria, perché allora era in tali strettezze economiche che non aveva la possibilità di portare a termine i lavori della fabbrica della stessa chiesa ancora, dopo tanti secoli, in costruzione.
Tale privilegio della Fiera Franca, infatti, devolveva una certa tassa da pagare alla Chiesa, mentre i commercianti erano esenti dal pagare le tasse allo stato ed alla dogana del Re.
            La Fiera comprendeva il commercio di panni, merci varie e bestiame. Gli animali prendevano posto ad “un tiro di balestra dalle mura” (nel Piano di S. Giuliano, penso); i mercanti di stoffe e generi vari nella Piazza di S. Maria dove l’amministrazione della Chiesa faceva costruire le “logge “,  abitacoli provvisori di tavole, da affittare ai vari mercanti per un modico prezzo.

Commercio di primaria importanza era quello della seta grezza, di cui in Randazzo vi era una grande produzione, ricercata dai mercanti palermitani, specialmente, che venivano numerosi, per la sua buona qualità.
A tutte le operazioni di commercio presiedeva di turno per il quale, nel centro del mercato, si alzava una “loggia” su un podio a scalini, sulla quale sventolava la bandiera della Fiera Franca ed in cui prendevano posto l’assessore, il notaio per i contratti da stipulare, il pesatore ufficiale; un congruo numero di guardie prestavano servizio per la Fiera.
La Fiera durava 9 giorni: 4 prima del quindici Agosto e 4 dopo e tutte la Autorità (Sindaco, assessori, giudici, ecc.) dovevano essere presenti alla apertura e chiusura della Fiera Franca, simboleggiata dal grande gonfalone bianco, con in mezzo la immagine della Madonna che veniva innalzato sul pinnacolo più alto del Campanile.
            Cerimonia suggestiva cui assisteva tutto il popolo che godeva, acclamava a gran voce la sfilata delle Autorità comunali, vestite con sontuosi paludamenti, che al suono di numerosi tamburi e di “bifferi”, sfilavano solennemente lungo la Piazza Soprana, fino al podio, per loro innalzato, davanti alla Chiesa.
Momento culminante della cerimonia era l’innalzamento del gonfalone, mentre scoppiettavano i mille petardi e suonavano a festa le numerose campane della Chiesa.

Il Privilegio di Re Giovanni coincideva con la “Corsa del Palio”.

Da tutti si conosce, o almeno si è sentito parlare, del ”Palio di Siena” , cioè la gara tra i vari quartieri della città che si disputa la vittoria con una corsa sfrenata di cavalli. A Siena ancora perdura tale manifestazione, diventata tanto famosa per tutta l’Italia; a Randazzo, purtroppo, è morta fin dalla metà del 1700.
In quel tempo le “Corse del Palio” erano una manifestazione famosa in tutta l’Italia e le città più importanti ne godevano il privilegio fin dai tempi remotissimi della Cavalleria Medievale, tanto che ce ne parla perfino Dante nella Cantica dell’Inferno (c. XV 122-123).
Randazzo, città allora di grande importanza, ottenne il privilegio di memorare questa singolare manifestazione che si articolava in cinque gare: corsa dei cavalli, corsa dei giumenti, dei muli, degli asini e dei buoi.
Gli animali che vi concorrevano non erano, almeno nei primi tempi, cioè nei sec. XV e XVI, né pochi né poco efficienti, in numero imprecisato.
Essi correvano la loro corsa a scaglioni, mentre musiche e canti, eseguiti da professionisti chiamati per l’occasione da vari paesi, echeggiavano nella Piazza di S. Maria, all’ombra di quel campanile ornato nella cuspide dallo stendardo della Fiera, che garriva al vento.
A dare il via alla corsa sono le Autorità dal loro palchetto sormontato dalla bandiera bianca.
La gara affannosamente cominciava tra le grida e gli incitamenti dei concorrenti, gli squilli di tromba e gli osanna del popolo: prima i cavalli con le loro bardature trapuntate, poi i giumenti, quindi i muli, gli asini, i buoi.
I vincitori delle varie gare ricevevano in premio delle stoffe pregiate, che cambiavano, nella qualità, secondo le varie gare: damasco d’oro per i cavalli; velluto cremisino per i giumenti; damasco verde per i muli ed un imprecisato “catalubbo” per asini e buoi.

  1. – LA “VARA”

Indagare sull’origine della “Vara”, non è cosa agevole, appunto perché ci mancano i documenti.

Chi, per primo, costruì la “Vara” in Randazzo? Quando e quale fu il primo progetto? Queste sono domande che possono ottenere una risposta solo, all’atto attuale, dalla intuizione storica e dalle deduzioni che si possono ricavare dalle poche notizie che abbiamo.
A mio parere l’invenzione della “Vara” di Randazzo si deve collocare verso la seconda metà del 1500 ed ha una derivazione diretta da quella similare di Messina.
Dagli storici municipali messinesi, quali sono il Bonfiglio e il Gallo, sappiamo che la “Vara” di Messina fu inventata nei primi del 1500.
Quale sia stata l’occasione immediata di questa invenzione, non ci viene da essi riferito ma è chiaro che ebbe derivazione dall’uso dei carri trionfali, allora tanto in auge a Palermo, a Catania e nelle altre città della Sicilia.

Così, dall’uso in Messina di portare in processione la statua della Madonna Assunta su una bardatura cremisi su un cavallo bardo in occasione della Festa del 15 Agosto, per opera di grandi maestri si passò, prima, ad un modesto carro con in alto la statua della Madonna Assunta e poi, man mano, col passare degli anni della prima metà del 1500, ad un carro talmente vistoso che comprendeva ben 500 personaggi ed era alto 50 palmi.
0Fu una tale meraviglia che in occasione del passaggio dalla città dell’imperatore Carlo V, nel 1535, i messinesi lo vollero onorare montando questa meraviglia di carro, che andò incontro all’illustre personaggio che ne rimase ammirato e compiaciuto.
Tappa precedente obbligata del viaggio di Carlo V fu Randazzo, ove arrivò il 18 Agosto del 1535. Egli pare vi si sia fermato per tre giorni, insignì Randazzo del Titolo di “Città”, suscitando tra la popolazione un entusiasmo indicibile e, quindi, partì per Messina, accompagnato da una lunga teoria di nobili della novella città, cioè di Randazzo che, in gran gala, formano un imponente corteo degno di un tanto personaggio, lungo la trazzera regia che attraversava la Valle dell’Alcantara.
I messinesi, come abbiamo detto, accolsero trionfanti il loro Imperatore, con manifestazioni mai viste, giacché per l’occasione gli andarono incontro, sulla via che conduceva al Duomo, due poderosi carri mobili splendenti di ori ed argenti.
Rimasero sbalorditi i componenti del corteo imperiale e tra essi anche i randazzesi che ne facevano parte i quali, a mio parere, recepirono nel loro cuore e nei loro propositi il messaggio che veniva loro da quello spettacolo mai visto.
Perché Messina sì, e Randazzo no?

Anche Randazzo era una gloriosa città. Anche Randazzo celebrava la festa dell’Assunta. Anche Randazzo, e specialmente la Chiesa di S. Maria, avrebbe potuto avere il suo carro trionfale.

Data la posizione economica florida della Chiesa, in seguito alla vistosa eredità di Giovannella De Quatris, che nel 1506 aveva devoluto ad essa i suoi due grandi feudi, si dà mano al progetto e si realizza un carro trionfale alto 18 metri che, in forma sintetica, rappresenti i tre misteri mariani della Dormizione o morte, dell’Assunzione e della Incoronazione di Maria Santissima, prendendo come esempio ispiratore così ci tramanda la tradizione ancora viva – il quadro del Caniglia, ancora esistente nella Chiesa, proprio nella Cappella del Crocifisso, che rappresenta i tre misteri sopraddetti, proprio forma ascensionale con cui sono rappresentati nella “Vara”.

Chi fu il primo inventore ed esecutore del progetto? Nulla sappiamo, solo possiamo azzardare l’ipotesi che sia stato ispiratore e consigliere della costruzione tecnica il grande architetto messinese Andrea Calamech, allora in Randazzo per attendere alla ristrutturazione della facciata della Chiesa di San Nicola, prima, e dell’interno della Chiesa di Santa Maria, poi.

Da ciò che sopra abbiamo riferito, però, possiamo, con forte probabilità, ricavare i termini del tempo della costruzione della “Vara”.

Carlo V venne in Sicilia nel 1535. il quadro del Caniglia porta la data del 1548. Perciò il lasso di tempo in cui fu creata la “Vara di Randazzo” è determinato da queste due date, cioè la metà del sec. XVI, anno più anno meno.

Che il periodo della costruzione sia proprio questo ci viene confermato, inoltre, dal fatto che i documenti più antichi che parlano di essa, uno del cosiddetto “LIBRO ROSSO” e l’altro dell’Archivio, risalgono proprio alla fine del sec. XVI

La struttura originaria della “Vara” sostanzialmente era quella che possiamo ancora ammirare: non si muoveva su ruote ma su scivoli, in un primo momento, e poi, su “rullari”, ed era tirata con entusiasmo da ogni ceto di persone che si prestavano volentieri per devozione, ma anche perché potevano essere avvantaggiati, per la vicinanza, nel salire sulla “Vara”, in occasione della sua spoliazione, per impossessarsi di qualche pezzo considerato preziosa reliquia da porre nei campi e in casa come buon antidoto contro il “malocchio”.

Il montaggio della “Vara” impegnava per mesi tutta la popolazione, operai, rivenditori, artigiani d’ogni specie, perfino boscaioli che dovevano tagliare anno per anno, nel più crudo inverno, e poi lasciarlo stagionare, il tronco della “Vara”, vero supporto portante cui era affidata la vita di tanti bambini e che in tutti i quattro secoli della esistenza della “Vara” cedette solo una volta, alla metà del sec. XVIII.

Col passare degli anni, affidata come fu, nella sua realizzazione strutturale, ad abili maestri ed artigiani, essa subì trasformazioni d’ogni genere e si ingrandì talmente che nel suo passaggio per la “Piazza Soprana” scuoteva pericolosamente le case.

La processione, come ai tempi nostri, si svolgeva lungo l’attuale Via Umberto sia perché era la strada principale ed era pianeggiante, e sia ancora perché, prospicienti ad essa, sorgevano i tre Monasteri di Benedettine (Santa Caterina, S. Giorgio, S. Bartolo), monache di clausura, che attraverso le fitte grate potevano seguire il suo svolgimento.

Alla semplice processione della “Vara”, col passare del tempo, si aggiunsero due altre manifestazioni di grande momento: il carro trionfale e la cavalcata.

La “Cavalcata” era una lunga teoria di cavalieri cui prendevano parte tutti i giovani più nobili della città che, all’occasione, sfoggiavano vistosi costumi alla spagnola dai molti colori, ricchi di trine e di ornamenti preziosi, che, su focosi cavalli, avanzavano accompagnati da alabardieri e scudieri, al seguito del signifero o portatore del gonfalone della città.

Precedeva la processione vera e propria, il “Carro Trionfale”, sontuoso podio mobile su cui prendevano posto i personaggi più importanti della festa e della città: le autorità, i suonatori, i cantanti, ecc.

La festa così diventò sempre più sontuosa, specialmente da quando la sua organizzazione fu assunta dall’Opera De Quatris (1676), che sopperì alle enormi spese richieste dall’illuminazione con accorgimenti speciali della Piazza Soprana, dal Campanile, della Facciata della Chiesa e all’addobbo di tutto l’interno della Chiesa che, in un anno particolare, richiese tanti drappi che per portarli da Linguaglossa, patria dell’impresario, richiese l’impiego di numerosi carri, dai fuochi pirotecnici.

Così la Festa della “Vara” diventò un momento di tripudio popolare in quel mese di Agosto assolato, in cui finalmente le braccia posavano dal lavoro dei campi ed i cuori speravano nel prossimo raccolto delle vigne.

  1. – IL DECLINO 

Così la festa si svolse per secoli: nel 1600 non saltò un anno, nonostante la grossa spesa che comportava (onze 95).
La prima metà del 1700 incrementò la fiera, il Palio e la festa in sé, ma, col maturare degli anni nella seconda metà cominciarono a sorgerei primi contrasti esterni ed interni, che avviarono il tutto verso un deprecabile tramonto.
Gravissimo il contrasto con il vicino comune di Roccella Valdemone, detto allora “Roccella di Randazzo”, che durò per ben un secolo e mezzo e che concorse al declino della Fiera Franca, la Chiesa si premurò di avere altre concessioni, tra le quali quella che proibiva ai comuni viciniori entro trenta miglia, di celebrare fiere nel medesimo tempo in cui la celebrava Randazzo.
Ed ecco i fatti.
Ottenuto Randazzo da Re Giovanni il Privilegio della Fiera Franca, la Chiesa si premurò di avere altre concessioni, tra le quali quella che proibiva ai comuni viciniori entro trenta miglia, di celebrare fiere nel medesimo tempo in cui la celebrava Randazzo.
Le cose andarono bene per oltre un secolo e mezzo.
Tutti i paesi circonvicini erano dipendenti dal Capitano di Giustizia del Valdemone, che risiedeva a Randazzo e pertanto, volenti o nolenti, dovettero sottomettersi a scanso di rappresaglie.
Ma, col passare degli anni, il Capitano di Giustizia si trasferì a Barcellona e così non ci fu, per detti paesi, il pericolo delle temute rappresaglie e Roccella si ribellò all’imposizione e così, forte dei suoi diritti giusti o pretesi, in barba a tutti i privilegi che vantava Randazzo, celebrò la sua festa e la sua fiera dall’11 Agosto al 22, proprio nel tempo riservato alle celebrazioni randazzesi.
Il primo documento in nostro possesso, che ci parla della vertenza, è del 22 Aprile 1655 ed è un richiamo del Tribunale del Real Patrimonio ai roccellesi perché smettano di celebrare la loro festa e la loro fiera nel tempo riservato alla fiera di Randazzo.
Ma i roccellesi, sostenuti da non chiari documenti a loro vantaggio, dai loro potenti feudatari e da esperti avvocati, per anni ed anni, non si diedero per intesi, anzi presero tanto coraggio che, illegalmente, trasformarono la loro piccola fiera “pro maestri scarpari, frondinari e cacinari”, cioè di piccole mercanzie, in grossa fiera di animali.

Vincenzo Rotella il Figlio Salvatore, Cartillone

Le vicende si susseguirono serrate su questa linea di acceso contrasto dall’una e dall’altra parte, per anni ed anni, con continui ricorsi ai Tribunali, che facevano la voce grossa, ma che non avevano la volontà dagli alti personaggi che proteggevano i roccellesi, che in tutte le controazioni randazzesi, come afferma il documento, non “volsero” ubbidire, anzi arrivarono al punto, avendo Randazzo mandato come messo un certo Francesco Paccione di 15 anni, inviato con intento così giovane perché, edotto dai fatti precedenti, si temevano delle violenze e giustamente si pensava che i roccellesi non avrebbero avuto il coraggio di infierire contro un ragazzo.
Ed ebbero ragione, perché il povero giovane se la vide brutta.
Egli, infatti, aveva l’incarico di notificare alle Autorità roccellesi le decisioni del Tribunale, che comandava loro di sospendere le celebrazioni della Fiera e li condannava a pagare i danni ed una grossa multa.
Non avesse mai comunicata la cosa, il povero messo perché, come egli stesso, ancora terrorizzato, riferì, scampò per un miracolo alla furia omicida di quel popolo inferocito: “ci visti fari a tutti di quel popolo etiam a femmini una conturbata grande… che voliano abbrugiare i randazzesi e, se non avesse stato picciotto lo voliano…appendere ad un albero e tagliare a mezzo…”.
Ma intanto altri contrasti più gravi, purtroppo, maturarono in seno alla comunità randazzese, che fecero dimenticare e trascurare i contrasti con Roccella, dando agio a quest’ultima di consolidare i suoi pretesi diritti: contrasti tra Autorità civiche e Autorità ecclesiastiche della Chiesa di S. Maria che, con alterne vicende, si trascineranno fino alla fine del sec. XVIII e che determineranno, per parte loro, il tramonto di questa grande istituzione che aveva procurato per diversi secoli tanta fama alla città e aveva apportato tanto benessere economico alla popolazione.
Ma andiamo con ordine esponendo i fatti e denunziando gli errori.
Malanimi, prepotenze, egoismi, competizioni personalistiche, invidie furono le cause del disastro non solo da parte dei responsabili ma anche dei signorotti del tempo, arbitrariamente protesi verso le prepotenze.
Non è questa una affermazione arbitraria mia perché è confermata da documenti inconfutabili e da esempi che mi permetto di riferirvi, solo qualcuno fra tanti.
E’ del 1765 la persecuzione del Capitano di Giustizia della Città contro mastro Francesco Emmanuele, impresario della “Vara”. La ragione? L’Emmanuele aveva litigato con un servo del Capitano. Solo l’aiuto e intervento del clero della Chiesa impedì il peggio.
Altro caso indicativo è quello di un assessore che fa mettere in carcere i giocolieri che avevano vinto due grani al figlio suo.
Casi questi caratteristici del clima che regnava in città, ma ben altri più gravi turbarono l’armonia della festa e della città.
La legge dava ai Giurati il diritto di imporre alle merci la meta, ed era costume, per accertarne la genuinità, da fare dei prelievi.
Nulla da eccepire! Ma perché doveva essere il solo degli assessori incaricato ad usufruire di questo diritto e privilegio e non tutti e quattro i Giurati?
E così, ecco, tutti i giurati, sindaco guardie e chiunque vantasse un briciolo di autorità, darsi da fare a rilevare prelievi a man salva con quanta gioia da immaginarsi dei vari commercianti!

Singolare il caso di un rivenditore di vetrerie, cui vengono prelevati, a titolo di mostre, i quattro più bei pezzi che aveva. E ancora più banale il caso di un rivenditore di “calia” a cui ne vengono richiesti, sempre a titolo di mostra, ben due mondelli.

Ben più gravi erano poi gli arbitri perpetrati dal Giurato preposto nella compilazione dei contratti, richiedendo indennizzi, ricompense arbitrarie, e spesso perpetrando prepotenze ed ingiustizie.

I commercianti ed i forestieri ne rimanevano sconcertati. I Procuratori della Chiesa reagivano, tempestando di esposti le Autorità centrali che intervennero con provvedimenti non piacevoli alle Autorità Comunali: così viene loro tolta la facoltà della meta alle merci. Indi ire e ripicche.

Usurpano il diritto di suonare il campanello nella processione.
Il clero reagisce e allora le autorità cittadine si intromettono con prepotenza nella assegnazione delle logge. Continuano le reazioni e naturalmente continuano prepotenze ed usurpazioni.
Sono in verità deludenti pettegolezzi di paese, ma incisero tanto nel buon andamento della Fiera e della Festa che allontanarono, anno per anno, forestieri e commercianti.
Infatti, è del 1770 l’assenteismo quasi completo dei mercanti alla Fiera.

Nel 1782 i disordini suscitati dai contrasti tra autorità religiose e comunali, tra gli stessi membri municipali per gelosie personali e irriducibili competizioni, sono così gravi, che il Governo Centrale, dietro denunzia dei Procuratori della Chiesa, ridusse i giorni della franchigia della Fiera da nove a tre.
La reazione dei Giurati non tardò a farsi sentire perché in risposta tentano addirittura di fare abolire la Fiera Franca di S. Maria a vantaggio della Fiera di San Giovanni.

Ma se per il momento non ci riuscirono, hanno in serbo un colpo decisivo.

Il colpo maturò nel 1794, anno in cui, col capitale maturato con la stessa tassa sulla carne, si pensa di pavimentare la “Piazza Soprana” con lastroni di basalto e contemporaneamente si avanza la proposta di abolire il passaggio della “Vara” così pesante da scuotere le case e consentire il lastricato.

Pippo Crimi 

La proposta suscita un immaginabile stupore e le proteste più violente da parte del clero e della popolazione tutta, ma il Consiglio Civico è tutto concorde e si abolisce la Festa, con immenso danno economico.
Né Palio, né Fiera risorgeranno mai più.

Troppo tardi si accorgono del danno che si è recato alla città.

Gli esposti di tutti i ceti della popolazione si avanzano incalzanti al Governo, all’Amministratore della Opera de Quatris, al Re.

Il popolo soprattutto è tanto inquieto da far temere violenze pubbliche perché nella abolizione della processione della “Vara” vede la ragione di tante cattive annate per il raccolto: “i castighi di Dio – dice un esposto al Re firmato da centinaia di persone – in questi anni non sono stati pochi: “grandine mai vista, terremoti, piogge eruttive, effusioni di ceneri vulcaniche” che tutto hanno brugiato…”.

Finalmente dopo tante insistenze esposti e pressioni nell’Agosto del 1815, 21 anni dopo, si ripristina la Festa della Vara, ma non il Palio.
Esso è morto verso la fine del secolo precedente, in quel periodo di contrasti.

Si riprende a celebrare la Fiera, ma con tanta fiacchezza che, non favorita dagli avvenimenti politici del principio del sec. XIX e dalla cessata produzione della seta, man mano andò esaurendosi fino alla completa estinzione.

Solo verso la metà del secolo, dopo vari tentativi e progetti di cui possediamo anche i disegni estrosi e irrealizzabili, si pensò alla riforma della “Vara”, in conformità  alle proposte di alleggerimento di tutto l’apparato, avanzata dalle Autorità che avevano concesso la ripresa della Festa.

E così, tra alti e bassi, dovuti in gran parte ai momenti politici del tempo e ai momenti di disaccordo insanabile per la divisione dei beni dell’Opera de Quatris, si è perpetua fino ai nostri tempi e costituisce ancora il vanto e l’espressione più caratteristica della città.

Dico fra alti e bassi, perché ancora parecchie volte, per ragioni estranee alla volontà dei responsabili, ha dovuto essere sospesa, come in occasione del colera nel 1911, delle due guerre mondiali, la seconda delle quali così furibonda e funesta per il paese che solo nel 1962, quando in parte erano risanate le ferite inferte alla città dai feroci bombardamenti a tappeto del Luglio-Agosto 1943, potè con gioia di tutti essere ripristinata.

Essa è diventata ormai non soltanto una festa religiosa, ma una somma di manifestazioni che raccoglie aderenti in tutti i campi del progresso moderno: pittorico, sportivo, culturale, musicale, dando, purtroppo, a tutta la manifestazione piuttosto un aspetto mondano promosso dallo spirito moderno proteso verso altri valori che quelli della fede.

Essa è diventata un’occasione per evadere dalle preoccupazioni della vita ed una ricerca di obliterazione delle cure presenti senza quell’anelito spirituale che fu la molla di propulsione dei vecchi cittadini del sec. XVI.

Ora, infatti, si è tolto l’uso di collocare sul Carro Trionfale, ai piedi del fercolo, le sante reliquie, né il clero procede, come una volta, in abiti liturgici, mentre il suo posto è preso da squadre di sbandieratori vestiti alla medievale che, allo squillo di lunghe trombe ed al rullo di grossi tamburi, fanno piroettare le loro variopinte bandiere dai molti simboli, da teorie di danzanti majorettes, da sfilate storiche come il Corteo di Carlo V, ultimo Imperatore che dimorò a Randazzo e “dulcis in fundo”, da prestigiosi cantanti che salassano il bilancio della festa per allietare con le loro trite e ritrite canzonette, urlate senza grazia, accompagnate dagli strumenti rumorosi del jazz, gli esaltati animi della gioventù moderna che in essi vedono i loro nuovi santoni.

Ma la “Festa della Vara” è sempre, e per sempre rimane, un atto di fede del popolo e una testimonianza di quella civiltà cristiana che ha civilizzato i popoli, imprimendo nel loro cuore quelle virtù che fecero grandi i nostri padri e che sono sempre, anche in mezzo alle deviazioni moderne ed ai disastri terroristici del tempo, l’anelito del mondo e il miraggio dell’uomo onesto.

Sac. Salvatore Calogero Virzì

 

      Un pregevole depliant  sulla storia della “VARA” a cura di Ettore Palermo ed edito dalle Grafiche PALERMO di Randazzo






Un depliant del 1973 




 

 

 Il parroco don Domenico Massimino sulla festa dell’Assunta: “Profonda la devozione dei Randazzesi a Maria”

 

Annamaria Distefano

Quella del 15 agosto si è trasformata in una festa laica, ma i cattolici, non dimenticano il suo primo e autentico significato: celebrare l’assunzione di Maria Vergine in cielo. Per parlare di questo, abbiamo intervistato  il parroco della Basilica di Santa Maria di Randazzo,  padre Domenico Massimino, fine teologo oltre che sacerdote sempre dedito alla parrocchia.
– Padre Domenico, la Vara, il 15 agosto, mette in scena l’Assunzione di Maria al cielo. Ci spiega in parole povere cosa significhi questo? 
L’Assunzione sta a indicare come, pur essendo Maria morta, esattamente come moriamo tutti noi esseri umani, Gesù compreso, il suo corpo non abbia conosciuto la corruzione del sepolcro, la decomposizione. Maria è stata infatti assunta in cielo nell’interezza dell’identità umana, fatta di anima e corpo. Per la Chiesa ciò che è accaduto a Maria è ciò a cui andremo incontro tutti. Lo scopo della nostra vita terrena, ciò che le conferisce un senso è arrivare a questa risurrezione di vita. La resurrezione di vita comprende l’anima, che non muore mai, e il corpo. Per noi è impossibile immaginarci al di fuori dalle due categorie che conosciamo nella vita terrena: spazio e tempo. Eppure è questo che accadrà nella resurrezione di vita, o per esemplificare, nel Paradiso”.

– Perché la Madonna ha conosciuto immediatamente questa resurrezione di vita, essendo stata l’unica al di fuori di Gesù Cristo?
L’esistenza terrena di Cristo è legata in maniera speciale a quella di Maria. Maria non ha conosciuto mai il peccato. La morte è l’espressione del peccato. Non avendo conosciuto peccato, Maria non ha sperimentato la corruzione del sepolcro. La sua, infatti, non è nemmeno da considerarsi una morte, ma è chiamata dalla Chiesa “dormizione”. Qui in Basilica abbiamo un quadro bellissimo di Giuseppe Velasquez, pittore palermitano vissuto tra il ‘700 e l’ 800. Egli raffigura il ritrovamento del sepolcro vuoto di Maria, da parte degli apostoli. Si tratta di un episodio narrato solo dai Vangeli apocrifi, che il quadro descrive in maniera perfetta: una parte degli apostoli volge lo sguardo al sepolcro vuoto, la rimanente parte volge lo sguardo al cielo. Non si tratta di due sguardi, ma di un unico sguardo, lo sguardo della Fede, che coglie i segni, ma va oltre”.

– Quando è diventato dogma l’Assunzione di Maria?

Padre Domenico Massimino


“ Nel 1950, sotto Papa Pio XII. Un dogma è una verità alla quale bisogna credere necessariamente se ci si professa cristiani. Non è che prima di quella data non si credesse all’Assunzione della Madonna. Al contrario, infinite sono le testimonianze, prima fra tutte la consacrazione di numerose chiese alla Madonna Assunta, che ci dimostrano come, a livello popolare, fosse già radicata la venerazione della Madonna Assunta. Quando parlo ai ragazzi io faccio sempre un esempio per spiegare loro il significato di dogma. Il dogma è come un indumento che hai in valigia, ma che non sai di avere. Nel momento in cui lo cerchi, scopri di averlo. Non si è materializzato nel momento in cui lo trovi, chiaramente è sempre stato lì, solo che prima non si era manifestata l’esigenza di cercarlo”.

– Crede che la Vara aiuti a ricordare il vero significato del 15 agosto, o che, al contrario, l’aspetto folkloristico che ha assunto, e che è proprio a tutte le feste, possa distrarci dal significato cattolico?
Innanzi tutto, esiste, per celebrare la Madonna Assunta, un momento di assoluto raccoglimento in preghiera: è la Messa solenne del 14  pomeriggio, concelebrata da tutti i sacerdoti di Randazzo e presieduta da un Vescovo (quest’anno sarà monsignor Giombanco, vescovo di Patti). Questa Messa è seguita da una processione intima, intensa, partecipata dal paese e da tutte le confraternite”.

“La Vara rientra senza dubbio nelle manifestazioni folkloristico-religiose. Il folklore religioso, però, non è di per sé negativo. Gesù, Dio incarnatosi, ha parlato una lingua specifica, ha vissuto tradizioni, usi e costumi tipici del tempo e del luogo in cui ha vissuto. Certe feste folkloristico-religiose ci presentano i contenuti della fede cristiana in modalità tipiche di una certa cultura e tradizione.
La Vara dà il senso della verticalità, costituisce una sfida all’uomo prigioniero dell’orizzontalità di vita, incapsulato in una visione riduttiva rispetto al senso della vita.
La Vara induce l’uomo a guardare in alto, verso il cielo, fino a trovare l’aggancio che dà senso pieno, globale, eterno, al suo vivere sulla Terra”.

Annamaria Distefano

 

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