Il 14 luglio del 1948 accadde un fatto terribile e spettacolare ( non penso certamente a Gino Bartali che vince il Tour de France, anche se poi avrà un suo ruolo) l’attentato al segretario politico del PCI Palmiro Togliatti. Ma il fatto più stupefacente per noi è che l’attentatore è un giovane studente di Randazzo: Antonio Pallante.
I randazzesi rimangono molto stupiti ed increduli. Molti conoscono la famiglia Pallante ed anche Antonio. Giovane molto impegnato in politica , anche se con idee confuse e contraddittorie,ma nessuno poteva immaginare che potesse diventare addirittura un attentatore.
Antonio Pallante e figlio di Carmine e di Meloro Maddalena, nato a Bagnoli Irpino il 3 agosto del 1923. Il padre abruzzese lavora nel Corpo Forestale ed era una persona molto rigida e severa soprattutto nei confronti dei tre figli, anche se durante un comizio di Antonio ad un certo Proietti che lo contestava gli dà un pugno che lo scaraventa a terra.
Da giovane era religioso,spinto pure dal padre che lo voleva sacerdote, ed entra nel seminario di Cassano allo Jonio in Calabria. Finita la vocazione prende la licenzia ginnasiale a Castrovillari, poi la maturità classica in Sicilia al prestigioso Real Collegio Capizzi di Bronte, quindi si iscrive a giurisprudenza a Catania».
Per anni fa “finta” di dare esami ingannando il padre che per mantenerlo agli studi aveva venduto un terreno di famiglia per duecentomila lire.
Ai primi di luglio del 1948 saluta i genitori, parenti e amici, raccoglie da loro tremilacinquecento lire e dice che sarebbe andato a Catania per la tesi di laurea.
A Catania ci passa solo per acquistare una pistola la Smith calibro 38 al mercato nero per 250 lire e per 25 lire acquista in armeria cinque proiettili. e parte per Roma.
Di seguito alcuni articoli di giornali, interviste e di recente un libro scritto dal giornalista Stefano Zurlo inviato de “Il Giornale” – Quattro colpi per Togliatti. Antonio Pallante e l’attentato che sconvolse l’Italia (Baldini+Castoldi, pagine 254, euro 17,00) , che spiegheranno bene e da diversi punti di vista cosa successe in quei terribili giorni.
Andrea Velardi per il Messaggero
La mattina del 14 luglio del 1948, anno della Costituzione e delle prime elezioni repubblicane, l’ Italia sfiora il baratro della guerra civile quando, davanti a Montecitorio, il giovane studente siciliano Antonino Pallante ferisce gravemente Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano.
La reazione del Migliore fa subito capire che quella del comunismo italiano sarà una vera anomalia, destinata a non reiterare gli scenari cruenti che la storia recente ha confermato essere assai realizzabili.
A 70 anni da quell’ attentato si può considerare come tutta la storia del Partito comunista sia contenuta in nuce in questo evento così decisivo. Lo conferma il libro ricco e inusuale costruito da Salvatore Sechi mettendo insieme la sua lunga di intellettuale liberale di sinistra e la breve parentesi della sua consulenza presso la Commissione Mitrokhin, il cui lavoro viene giudicato fallimentare, a causa della censura nella accessibilità degli archivi e dei documenti, dei reciproci interessi partitici, del giornalismo petulante e sensazionalistico.
L’apparato para-militare del PCI e lo spionaggio del KGB sulle nostre imprese. Una storia di omissis fornisce, offre una tesi storiografica complessa e forte, restituendo la cornice di un’ identità del Partito comunista la cui matrice è in Togliatti e che si mantiene continua nonostante le virate e le mutazioni strategico-politiche del Novecento.
Il Pci ha perseguito due direttive contradditorie che in qualche modo hanno però realizzato la sua unicità con un equilibrio paradossale ma efficace. Da una parte l’ avversione esplicita per la socialdemocrazia, l’ influenza del Pcus e del Kgb nella politica italiana tra spionaggio industriale e tentativi di infiltrazione.
Dall’ altra l’ impossibilità di ridurre il comunismo italiano al Kgb e all’ immagine marziale del Partito così come venne espressa dall’ ampio dossier sulla organizzazione paramilitare dei comunisti italiani confezionato dal Sifar negli anni Cinquanta a cui si è appiattita tutta la vulgata storica e di cui bisogna attenuare la portata visto che una certa militarizzazione post-bellica era comune a partiti di diversa vocazione, col risultato dell’ esistenza di una Gladio bianca accanto ad una Gladio rossa.
LO SCENARIO. Questo scenario riprende due linee adottate con grande efficacia da Togliatti.
L’ intuizione del dicembre del 1947 di non radicalizzare lo scontro armato sostenendo nella Direzione del partito la «possibilità di intreccio di lotte legali e di massa extralegali», pur non escludendo che si potesse essere costretti ad uscire dalla legalità, cioè ad abbandonare quelle che gli jugoslavi e gli stessi sovietici chiamavano «illusioni parlamentaristiche».
Vi è poi lo sforzo strumentale, ma geniale di Togliatti medesimo di agganciare la tradizione comunista a quella più risorgimentale e liberale, dissimulando in tutti i modi il reale e tremendo volto stalinista e bolscevico del Partito, con l’ effetto di italianizzare il comunismo (formula secondo Sechi poi fin troppo abusata), radicandolo inscindibilmente nella nostra tradizione sociale, istituzionale e costituzionale così da consolidare nei decenni successivi, soprattutto dopo la mutazione solo parziale dell’ era Berlinguer, una impermeabilità dei dirigenti di Botteghe Oscure alle stesse influenze sovietiche, impedendo nei fatti una infiltrazione massiccia dell’ Urss nel tessuto della nostra democrazia.
Si dovrebbe così all’ input togliattiano se Berlinguer potrà con coraggio «non assecondare supinamente le decisioni e gli orientamenti dall’ Unione Sovietica» e insieme a Longo, Rodano e gli altri mantenere l’ ambiguità togliattiana della radicalità e dell’ enfasi della retorica della unicità storica della rivoluzione di Ottobre e della creazione dell’ Urss, nonché della contrapposizione tra comunismo sovietico e democrazie individualiste occidentali, minimizzando sulla repressione dei diritti civili come nella famosa intervista a Nuovi Argomenti nel giugno 1956 .
IL SOSTEGNO DELL’ URSS. Senza coltivarne l’ immagine marziale, Sechi, che lasciò il Partito negli anni Settanta, non nasconde però quanto sia stato massiccio il sostegno economico sotto traccia del Kgb e quanto la storia del comunismo italiano sia sostanzialmente illiberale e totalitaria con buona pace di chi ha cercato di voler conciliare in tutti i modi la Rivoluzione liberale di Gobetti con il comunismo occidentalizzato, non leninista, ma certamente non pluralista, di Antonio Gramsci.
L’ esperienza deludente della Commissione Mitrokhin e la disavventura di una infondatissima causa per diffamazione intentatagli da un ex parlamentare comunista non hanno permesso che si confermasse l’ amara conclusione di Sechi secondo cui «coltivare la speranza di ripensare la storia del comunismo è ormai impossibile».
L’ occasione dell’ anniversario dell’ attentato a Togliatti e questo libro così denso ci fanno capire che lo sguardo dello storico può viaggiare alto al di là delle limitazioni documentarie e delle prospettive ristrette e faziose dei partiti e dei mass media.
LA DOMENICA DI REPUBBLICA: DOMENICA 29 APRILE 2007
La memoria:Storia d’Italia
Il 14 luglio 1948, in un periodo di estrema tensione politica, lo studente siciliano Antonio Pallante sparò da breve distanza quattro colpi di rivoltella contro il segretario del Partito comunista, che rimase ferito ma si salvò.
Abbiamo ritrovato negli archivi l’incartamento del processo che ne seguì e documenti rimasti sepolti per sessant’anni.
ROMA «Anche se in una cella del Regina Coeli, caro Paolo, io sono sempre quell’Antonio buono, affettuoso, e ponderato!». Era il 23 agosto del 1948 quando Antonio Pallante, da una cella d’isolamento del carcere romano, scrisse queste parole dirette al suo amico d’infanzia Paolo Marrone.
Poco più d’un mese prima, il 14 luglio, in piazza Montecitorio, quel ragazzo di Randazzo, provincia di Catania, che si definiva «buono e ponderato», all’epoca appena venticinquenne, aveva sparato a bruciapelo quattro colpi di rivoltella contro Palmiro Togliatti, ferendolo gravemente.
E scatenando al Nord un moto insurrezionale che costò la vita a decine di persone. Quasi sessant’anni dopo, il fascicolo giudiziario di “Pallante Antonio” è diventato pubblico, custodito nell’Archivio di Stato, sezione di Galla Placidia.
Bisogna slegare sei o sette cordicelle per aprire il faldone quasi imbozzolito che contiene un migliaio di fogli ingialliti.
Le pagine più toccanti che spuntano da quel fascicolo dimenticato sono le lettere inedite che Pallante scrisse a Regina Coeli e che la censura sequestrò.
Da quei manoscritti emerge il ritratto di un giovane fortemente condizionato da una ideologia intrisa di fascismo, che arrivò a Roma con un solo libro, Mein Kampf di Hitler.
Il fascicolo giudiziario inizia con la testimonianza di “Iotti Romilde fu Egidio nata a Reggio Emilia, deputato al parlamento”, interrogata dal procuratore di Roma due ore dopo la sparatoria.
Stando a questa testimonianza di Nilde Iotti, che vide Togliatti «abbattersi al suolo», mentre «quel giovane pallido in viso si abbassava sul ferito e gli sparava a bruciapelo al fianco sinistro», e che fu la prima a gridare ai carabinieri «arrestatelo, arrestatelo», diventa difficile immaginare che il Migliore, quel drammatico frangente, possa aver pronunciato la fatidica frase che gli viene attribuita: «Non perdete la calma».
Dopo quello della Iotti, c’è l’interrogatorio dello stesso Togliatti del 22 novembre, quando, ormai guarito, pone fine alla tesi del complotto agitata a lungo dall’Unità e da esponenti del Pci. «Non sono in grado di fornire alcun elemento in merito a responsabilità di altre persone —dichiara, lapidario, ai giudici — non essendomi curato di fare indagini, né mi è stato riferito da altri alcun elemento al riguardo».
Così il forestale Carmine Pallante descriveva il figlio. «Ha un carattere mite e ubbidiente, però un po’ nervoso, si adirava quando era contrariato anche nelle più piccole cose. Ha una certa ripugnanza per le armi. Durante il passato regime era appartenuto alla Gioventù italiana littoria».
Pallante, ambizioso quanto confuso, passò dai liberali all’Uomo qualunque, e manifestò l’intenzione sia di scrivere per l’Unità, che di iscriversi all’Msi.
Ecco come descrisse se stesso alla polizia che lo aveva appena arrestato. «Nel ‘44 mi sono iscritto al Partito liberale, diventandone dirigente della sezione di Randazzo. Lo lasciai perché a mio giudizio troppo conservatore. Nel mio paese sono conosciuto come un fascista perché il mio noto anticomunismo viene a torto giudicato fascismo ». Ed ecco come spiegò il movente del suo gesto. «Ho sempre pensato che in Togliatti si debba ravvisare l’elemento più pericoloso alla vita politica italiana.
Repubblica Nazionale
Tra il febbraio e il luglio del 1948 la giovane democrazia italiana è sottoposta a tensioni durissime, che in più di un momento sono a un passo dal metterla in discussione. Esclusi socialisti e comunisti nel giugno 1947 dal terzo governo De Gasperi, l’Assemblea costituente è ancora riuscita, superando divisioni politiche sempre più profonde, a dare al paese la sua nuova Costituzione.
Ma la carta fondamentale della Repubblica appare più la testimonianza estrema di un momento irripetibile, maturato nel clima di unità del dopoguerra e presto svanito, che il fondamento riconosciuto di una nuova convivenza civile.
La Guerra fredda è diventata ormai una realtà.
Il risultato delle elezioni del primo Parlamento repubblicano italiano, convocate per il 18 aprile, rappresenta una posta altissima per le due superpotenze, che si dimostrano tutt’altro che disposte ad accettarlo a scatola chiusa: George Kennan, autorevole consigliere del segretario di Stato americano, prospetta l’ipotesi di «mettere fuori legge il Partito comunista e condurre un’energica azione contro di esso prima delle elezioni» per provocarlo alla guerra civile, e fornire così il pretesto alla rioccupazione militare del Paese.
Togliatti informa l’ambasciatore sovietico Kostylev che il Pci è pronto a reagire ad un’eventualità del genere con un’insurrezione armata nel Nord del paese.
Strutture paramilitari clandestine sono apprestate non solo dai comunisti, ma, come è ora ampiamente documentato,
anche dai cattolici, in vista di uno show down ritenuto inevitabile nel caso che gli avversari non accettino un responso sfavorevole delle urne.
Il clima è avvelenato da una situazione sociale esplosiva. La politica di risanamento economico e finanziario inaugurata da Einaudi e proseguita da Pella ha aumentato i livelli di una disoccupazione già estesissima.
La Confindustria attribuisce il dilagare degli scioperi a un piano preciso del Pci e invita le imprese associate a non concedere nulla sul fronte della contrattazione.
La campagna elettorale si apre così in un clima di contrapposizione esasperata, in cui la situazione dell’ordine pubblico sembra sul punto di sfuggire di mano.
La Chiesa e i comitati civici si mobilitano nella lotta contro «l’Anticristo».
Gli emigrati americani scrivono alle loro famiglie in Italia che in caso di vittoria del Fronte gli aiuti del Piano Marshall cesseranno, e sarà la fame.
I partiti del Fronte popolare, apparentemente sicuri della vittoria, plaudono al colpo di forza con cui i comunisti, in Cecoslovacchia, si sono sbarazzati degli alleati di governo, e evocano minacciosi scenari di resa dei conti finale.
I toni della propaganda si fanno via via più accesi, rappresentando due Italie irriducibilmente nemiche.
La vittoria della Democrazia Cristiana, netta oltre ogni previsione, non smorza la tensione.
Nelle settimane successive al voto l’attenzione del Parlamento è polarizzata dalla ratifica dell’accordo con gli Stati Uniti sul Piano Marshall.
Nella discussione alla Camera, il 10 luglio, Togliatti denuncia in quell’accordo una subordinazione «alla politica dei gruppi dirigenti imperialisti degli Stati Uniti» e ammonisce che se il Paese dovesse essere trascinato in una guerra, «noi conosciamo qual è il nostro dovere. Alla guerra imperialista si risponde oggi con la rivolta, con la insurrezione per la difesa della pace, della indipendenza,dell’avvenire del proprio Paese!».
Tre giorni dopo un editoriale del quotidiano socialdemocratico, siglato dal suo direttore Carlo Andreoni, bollando la «jattanza con la quale il russo Togliatti parla di rivolta», esprime la certezza che «il governo della Repubblica e la maggioranza degli italiani avranno il coraggio, l’energia, la decisione sufficiente per inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti e i suoi complici. E per inchiodarveli non metaforicamente».
Questa prosa virulenta può essere qui matura il gesto di Pallante il 14 luglio.
Sia la Direzione del Pci sia la Cgil sono colte di sorpresa dall’imponenza di una risposta di massa, disarticolata e in gran parte spontanea, in cui confluiscono la frustrazione per la sconfitta elettorale del 18 aprile, lo sdegno per l’attentato alla vita di un dirigente amatissimo dai militanti, la diffusa attesa per una .
Non è mai stato provato che dietro questo movimento tumultuoso ci fossero una trama organizzativa e una leadership politico-militare del Pci, come sosterrà più tardi il ministro Scelba.
È probabile piuttosto che scattino quei meccanismi di difesa che il partito ha predisposto per l’ipotesi di una «provocazione» e di un colpo di Stato, e che in qualche caso questi meccanismi sfuggano di mano, soprattutto per l’intervento degli ex-partigiani, a chi li aveva ideati.
Per tre giorni, paralizzata dallo sciopero generale, l’Italia sembra sull’orlo della rivoluzione.
Restano sul terreno almeno quindici morti, equamente divisi fra agenti delle forze dell’ordine e dimostranti, mentre vengono operati migliaia di arresti.
Eppure in quel momento decisivo ciascuna delle parti che si fronteggiano compie un passo indietro sull’orlo del baratro: i comunisti frenano, evitano che il moto si trasformi in insurrezione, e presto lasciano cadere anche la richiesta di dimissioni del governo.
Questo a sua volta non cede alla tentazione di mettere al bando il Pci. La guerra di movimento dei caldi mesi di febbraio-luglio si trasforma lentamente in guerra di posizione.
Le appartenenze separate,benché abbiano messo radici profonde e destinate a durare, non cancellano del tutto il senso di una cittadinanza comune e il rispetto di una serie di regole sia pure a malincuore condivise.
La democrazia, malgrado tutto, tiene.
Storia. Pallante, cronaca di un delitto mancato
Un libro-intervista di Zurlo chiude la bocca alle dicerie e ad ogni dietrologia sul tentato assassinio di Palmiro Togliatti. Settant’anni dopo il “mistero” svelato dal 95enne “ex attentatore” catanese.
Roma, 14 luglio 1948, l’attentato al leader del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti che ferito gravemente viene trasportato in ospedale, si salverà
Antonio Pallante? Ma quel Pallante… l’attentatore di Palmiro Togliatti? Ma è una storia di settant’anni fa, possibile che sia ancora vivo? Questa la conversazione avuta con amici e colleghi, anche ferrati in storia patria, subito dopo la sorprendente scoperta: quell’Antonio Pallante che attentò alla vita del “Migliore”, il leader massimo del Partito Comunista Italiano, è ancora vivo e lotta per sé, e alla veneranda età di 95 anni risiede nella sua Catania.
A testimoniarlo è il bel libro Quattro colpi per Togliatti. Antonio Pallante e l’attentato che sconvolse l’Italia(Baldini+Castoldi, pagine 254, euro 17,00) scritto dall’inviato de “Il Giornale” Stefano Zurlo.
Un lavoro paziente quello di Zurlo – mesi d’attesa per essere ricevuto da Pallante, stanco solo di difendersi dai rigurgiti storiografici e caduto volontariamente nell’oblio – quanto certosino nella ricostruzione dei fatti che si innestano in un momento in cui il nostro Paese sembrava sull’orlo della guerra civile.
«Era il14 luglio, giornata caldissima e anniversario della presa della Bastiglia, un caso naturalmente, ma sì sa le coincidenze sono terreno fertile per giornalisti, storici, dietrologi…», racconta Pallante a Zurlo, fidandosi dell’esperto giornalista affinché una volta per tutte sgombri il campo dai falsi storici e dalla perniciosa pratica dietrologica che dal dopoguerra in poi ha fatto dell’Italia il Paese dei misteri.
Pallante si confessa, e il ritratto che ne esce è quello dell’idealista formatosi e partito con la sua pericolosa idea reazionaria da un piccolo paese siciliano, Randazzo.
Un borgo del catanese che, in quei giorni di “semimoti” di un altro ’48, era assurto agli onori delle cronache per il suo gesto estremo che ferì, ma non uccise, né Togliatti e tanto meno l’odiato Pci.
L’allora 24enne studente in Giurisprudenza (era iscritto all’Università di Catania) racconta a Zurlo di essere «stato afferrato dal demone della politica».
Il circolo «demoliberalqualunquista che aveva fondato a Randazzo era un coacervo di pensatori più o meno liberi, di simpatizzanti liberali, monarchici e adepti del neonato Fronte dell’Uomo Qualunque, nato nel 1946 dall’idea del giornalista Guglielmo Giannini.
Il buon Antonio tra un esame e l’altro («poi non mi sono più laureato») in quel microcosmo provinciale, fatto di lunghe “conversazioni siciliane” a tavolino e di infinite partite a dama e baccarà, si scaldava in comizi vulcanici e alla stesura di elzeviri monarchici (ero diventato corrispondente de “La Voce dell’Isola”, periodico monarchico di Catania) in cui si scagliava puntualmente contro «i comunisti asserviti a Mosca.
Non sopportavo – dice – i separatisti che volevano staccare l’Isola dalla mia Italia». Le elezioni del 18 aprile 1948 divennero la grande ossessione per quel ragazzo “ultrarisorgimentale”, per certi versi letterario, «un Vitaliano Brancati senza i baffi», che respirava i venti tempestosi dello scontro tra le destre postfasciste e la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi: forze in cui credeva e che dovevano arginare la deriva insurrezionale lanciata dal filosovietico Togliatti.
Nonostante la batosta rimediata alle urne dal Pci, per mesi Antonio il caldo aveva un solo pensiero in testa: «Dovevo essere il vendicatore degli italiani traditi dal Pci». Il “Migliore” per lui era la peggiore espressione politica, un nemico da eliminare in fretta e furia, prima che l’Italia potesse diventare un nazione soggiogata dallo stalinismo e quindi si ponesse fine al Piano Marshall (con il relativo sostegno economico degli Stati Uniti) e ancor peggio alla strategia di De Gasperi che «spingeva per inserire il nostro Paese nel Patto Atlantico, l’ombrello che avrebbe garantito il nostro benessere».
Togliatti, con il suo discorso incendiario pronunciato alla Camera, il 10 luglio, aveva tuonato: «Alla guerra imperialista, si risponde oggi con la rivolta, con la insurrezione per la difesa della pace, dell’indipendenza, dell’avventura del proprio Paese». Lo spauracchio delle masse operaie e contadine, guidate dagli intellettuali estremisti, pronti a mettere a ferro e fuoco il Paese, fecero accelerare il piano di esecuzione di Pallante. L’11 luglio del ’48 in treno era salito a Roma, armato (una pistola Hopkins&Allen calibro 38 acquista al mercato nero di Catania) e deciso ad estirpare il «Male».
L’attentatore catanese Antonio Pallante, classe 1923
Dopo giorni di “studio” della sua vittima, con ingannevole astuzia riuscì a convincere l’onorevole Francesco Turnaturi che cedendo all’insistenza del compaesano gli rilasciò il pass d’ingresso per il Parlamento.
Il povero Turnaturi aveva introdotto la “serpe” in seno a Montecitorio e quella si rivelò la vipera velenosa di Togliatti.
Il leader comunista, quel pomeriggio afoso del 14 luglio si fece prendere dalla tentazione di un gelato da Giolitti e mentre si recava al noto bar romano assieme alla compagna di lotte e di vita, Nilde Iotti, in via della Missione venne raggiunto da quattro colpi di pistola sparati da Pallante.
La ricostruzione di quegli attimi cruciali sono degni della miglior trama di un noir. Il giovane catanese a quel punto si ritrovò stordito, con un’arma in mano, e a salvarlo dal linciaggio intervenne, celere, il capitano dei carabinieri Antonio Perenze che «due anni dopo sarà il protagonista della misteriosa uccisione del bandito Giuliano».
Sbattendolo dentro la jeep che schizzò via al carcere di Regina Coeli, Pallante ebbe salva la vita e lì iniziò la sua seconda esistenza.
Una seconda vita non macchiata dalla morte di Togliatti, salvo per miracolo (morì nel 1964), e da una guerra civile scongiurata (secondo i “gazzettieri” anche grazie alla straordinaria impresa compiuta da Gino Bartali che vinse il Tour de France) ma che comunque ferì il “Drago rosso”.
Tra il 14 e il 15 luglio sul campo di battaglia, da nord a sud, rimasero 30 morti, 800 feriti. Oltre 7 mila le persone arrestate con danni quantificati in 50 miliardi di vecchie lire.
Notizie filtrate arrivavano a Pallante dietro le sbarre in cui, con i giorni, cominciò a delinearsi la sua doppia immagine pubblica: quella del “carnefice” anticomunista e di contro, l’eroe di tutti coloro che lo ringraziavano per lo scampato pericolo della rivoluzione rossa.
Durante la detenzione, che proseguì al carcere di Noto, ricevette centinaia di lettere di encomio e doni, anche in denaro, persino dall’eroina d’Argentina Evita Perón che «spedì «tanti pesos, forse l’equivalente di 25mila euro di oggi», esaltando il combattente anticomunista Pallante.
Difeso da un principe del foro come l’avvocato Giuseppe Bucciante, in Cassazione la pena gli venne ridotta a 6 anni (per effetto dell’amnistia tornò a casa il Natale del 1953) ma una volta fuori continuò la scia insopportabile delle illazioni che mistificavano quella grande Storia in cui, con ingenuità, furore e orgoglio giovanile, era stato ascritto.
La diceria degli untori lo voleva braccio armato del complottismo e della nuova spirale fascista. Ma Pallante non era mai stato fascista, neanche sotto il regime, come dimostra il suo «quinto colpo di pistola», quello sparato a Bronte.
Il tiro mancino esploso dal moschetto del liceale: fracassò la centralina elettrica che garantiva i collegamenti «fra Roma e Tripoli, fra Mussolini e i suoi generali… Ero spacciato».
Ma anche allora dal cielo si calò l’ancora della salvezza: il direttore delle poste di Bronte, caro amico del padre, fece sparire la documentazione sul “caso Pallante”.
In seguito, il tenente americano Charles Poletti sbarcato in Italia, per liberarla, con la VII armata, volle incontrare quel «bravo italiano» e donargli mille lire di premio. «Non ho più saputo nulla di Poletti (poi noto avvocato a New York, morto a 99 anni, nel 2002) e non so se gli giunse in America l’eco di quello che poi ho combinato…», si chiede oggi Pallante che, prima di ritirarsi a una vita privata, quasi anonima (impiegato alla Regione Sicilia fino alla pensione, sposato con due figli) ha dovuto difendersi dalle accuse più disparate.
Ora grazie al saggio-intervista di Zurlo la verità finalmente trionfa.
Pallante nell’attentato a Togliatti ha agito da solo, senza complici. «Sono solo uno studente e agisco per la libertà», disse allora e conferma oggi, concludendo: «Mi sono preso responsabilità pesanti e me le sono tenute strette, per tutta la vita».
Massimiliano Castellani martedì 22 gennaio 2019
L’attentato a Togliatti: Pallante un separatista vicino ad Antonio Canepa?
Cosa ha spinto l’uomo che nel 1948 sparo’ al leader del pci? veniva da Randazzo e aveva studiato con il leader dei separatisti siciliani. C’e un nesso tra l’attentato e la causa indipendentista? l’interrogativo nell’affascinante libro di Salvatore Grillo Morasutti che ricostruisce gli anni del dopoguerra in Sicilia: dall’assassinio di Canepa, al ruolo del pci, fino a quello di don Sturzo e delle potenze alleate.
Chi è veramente l’uomo che il 14 luglio 1948 sparò quattro colpi di calibro 38 a Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista italiano? Era davvero, ai tempi dell’attentato, un esponente di estrema destra- cosa peraltro da lui sempre negata- così come venne dipinto dai media?
IL mistero di Antonio Pallante, ancora oggi, rimane insoluto. Ma, una nuova ipotesi comincia a prendere corpo. Una ipotesi che affonda le sue radici a Randazzo, città dalla quale partì per Roma con l’idea di uccidere Togliatti.
Città che, insieme con tutta la provincia di Catania, in quegli anni era la culla del separatismo siciliano e in cui, nel 1945, venne ucciso il Professor Antonio Canepa, leader dell’Evis, l’Esercito dei Volontari per l’Indipendenza Siciliana.
Di Canepa, Pallante era stato alunno alla Facoltà di Giurisprudenza di Catania. E lui stesso in una intervista del 1972 trasmessa da Rai Storia (sotto il link al video) conferma che negli anni in cui era studente, in Sicilia il dibattito politico era animato dal fuoco separatista.
C’è dunque un nesso tra la sua decisione di attentare alla vita di Togliatti e la causa indipendentista siciliana?L’interrogativo, declinato in tutti i suoi dettagli, è contenuto in un nuovo affascinante libro sugli anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale. Si intitola ‘Il delitto Sicilia- Operazione Vulcano’ di Salvatore Grillo Morasutti, edito da Bonfirraro (18.90euro – distribuito anche dalle librerie Mondadori), che verrà ufficialmente presentato Sabato 12 Luglio a Caltagirone.
Il testo, scritto sotto forma di romanzo storico – che lo rende di facile lettura anche ai neofiti – ripercorre le tappe principali della politica internazionale che all’indomani del conflitto ridisegnò stati e confini.
A questo disegno, ovviamente, non sfuggì la Sicilia, unica regione in cui gli alleati imposero un governo provvisorio (Amgot) che dovette fronteggiare le istanze separatiste (nel 1945 il Movimento separatista aveva 500mila iscritti, gli altri partiti poche migliaia).
Nel libro di Grillo Morasutti, che pubblica documenti ufficiali dell’Intelligence inglese e americana, si evince chiaramente come le Grandi potenze straniere, all’inizio, avessero avuto un atteggiamento del tutto conciliante nei confronti di una Sicilia indipendente. Poi tutto cambia. Una Sicilia libera, infatti, avrebbe richiesto una contropartita troppo grande in favore dei russi (ad esempio, l’annessione di quella che oggi chiamiamo Padania all’Iugoslavia di Tito).
Da qui sarebbe nata, secondo quanto leggiamo in questa interessante ricostruzione storica, l’Operazione Vulcano, ovvero la decisione di uccidere Antonio Canepa, che mai avrebbe accettato quella sorta di compromesso (rivelatosi alquanto fasullo) che poi ha portato all’Autonomia siciliana e alla sepoltura dell’idea separatista.
L’influenza negativa della Russia rispetto alle istanze separatiste e il ruolo di Togliatti nel ‘sacrificio’ della Sicilia, secondo la tesi del libro, potrebbero avere contribuito a spingere Pallante fino a Roma per uccidere il segretario del Pci.
L’autore del libro ricorda, tra l’altro, che Canepa aveva aderito al Partito Comunista fino al 1944, quando a Firenze aveva fondato il Partito dei lavoratori in polemica con le scelte fatte dai vertici sulla Sicilia. Siamo ad Ottobre. Otto mesi dopo, Canepa verrà ucciso dai Carabinieri nell’ambito dell’Operazione Vulcano, decisa dagli Alleati e dal Governo italiano. Al tempo dell’uccisione del leader dell’EVIS, Togliatti era il Vice Presidente del Consiglio. Difficile che non sapesse cosa si stava decidendo per l’Italia e per la Sicilia.
E’ possibile dunque che Pallante avesse voluto vendicare Canepa?
Certo è che il trattamento da lui subito dopo l’attentato a Togliatti è molto singolare. Lo Stato, stranamente, si mostrò molto clemente con lui. Fu condannato, per un reato così grave, a soli sette anni, dei quali solo due effettivamente scontati. Una volta scarcerato, fu assunto alla Forestale: un impiego pubblico.
Un premio per cosa? Il silenzio sulle reali motivazioni che lo avevano spinto ad attentare alla vita di Togliatti? Un altro contributo a quella propaganda ufficiale che ha voluto fare dimenticare ai siciliani parte della loro storia?
Nel libro, non mancano ( e non poteva essere diversamente) interrogativi anche sul ruolo di Don Sturzo, non solo sulla causa separatista (solo nel 1947 si dichiarò contrario, mentre uomini a lui molto vicini erano di sicura fede indipendentista) ma anche sullo sbarco degli alleati, organizzato mentre il prete calatino era esule negli Usa. Difficile, anche in questo caso, escludere un suo coinvolgimento.
Nel testo di Grillo Morasutti- 320 pagine da leggere tutto ad un fiato per la ricchezza di documenti storici citati e per lo stile romanzesco che rende il tutto scorrevole- si sfogliano le pagine della storia dell’Isola, del suo incanto, delle sue speranze e dei suoi drammi. Ma, soprattutto, si apprendono fatti che gettano non poche ombre sulla già oscure prime ore della vita dell’Italia Repubblicana.
ANTONELLA SFERRAZZA 8 LUGLIO 2014
Pallante, l’ uomo che vuol farsi dimenticare.
Catania – Ci sono uomini che fanno di tutto per farsi dimenticare. Con il passare del tempo, a volte ci riescono. Con un atto di volontà provano a seppellire la loro storia, cancellano in un solo colpo la vecchia vita, violentano sentimenti e ideali pur di diventare invisibili agli occhi del mondo. Così, alla fine spariscono.
Dati quasi per morti, questi uomini possono vivere con un po’ di pace la loro nuova esistenza.
Come? Come fa l’ anonimo amministratore di un silenzioso condominio di Catania, quartiere borghese, i palazzi anneriti dai fumi del vulcano, gli alberi bruciati dalle ultime folate di scirocco.
Si chiama Antonio Pallante, l’ amministratore del condominio al numero civico 2 di piazza Beato Angelico.
C’ è qualcuno che si ricorda più di lui, in Italia? Cinquant’ anni fa era partito una notte dalla Sicilia perché credeva di avere una missione da compiere, il giorno dopo arrivò a Roma. Nella valigia aveva una copia di Mein Kampf, nella mano destra stringeva la pistola a tamburo appena comprata al mercato nero per 1500 lire.
Chi si ricorda più di lui? Chi si ricorda più di Antonio Pallante, l’ uomo che il 14 luglio del ‘ 48 cercò di uccidere il Migliore? Siamo andati a cercarlo “l’ attentatore”, l’ altro giorno. Non era a casa. Non era in campagna. Non era al solito posto al mare. E non era a casa né in campagna né al solito posto al mare nemmeno sua moglie Nunziatina. Siamo andati ad Acireale a parlare con suo fratello Guido.
Siamo andati a Randazzo per incontrare suo cognato Alfredo. Abbiamo telefonato a sua sorella Concettina che abita a Mirabella Imbaccari. Niente, loro non sapevano dov’ era Antonio. “Quello fa la sua vita e noi facciamo la nostra, ci sentiamo solo per le feste, Natale e Pasqua“, ci hanno risposto.
Parole pesate con cura, un certo fastidio mascherato dalla fredda cortesia, nessuna voglia di rinvangare il passato più lontano.
E poi il silenzio. Un silenzio lungo come mezzo secolo. Il tempo per diventare un altro uomo e farsi inghiottire dal nulla, per disperdere il suo nome e il suo volto nei labirinti della memoria. Per scoprire chi è oggi – e chi è stato per almeno quattro decenni – il “nuovo” Antonio Pallante, abbiamo inseguito tante vie. Abbiamo parlato con il suo amico Francesco Puglisi, che dal 1956 ha la macelleria all’ Orto dei Limoni a Catania.
Abbiamo provato a risvegliare qualche ricordo al vecchio capocronista de La Sicilia Turi Musumeci, che per primo intervistò “l’ attentatore” nel 1954. Abbiamo chiacchierato con i suoi vicini di piazza Beato Angelico, la signora Sebastiana Turrisi, l’ avvocato Santi Terranova, la signora Fina Toscano.
Abbiamo incontrato i suoi ex colleghi del Corpo Forestale, dove lui lavorava fino a dieci anni fa. Abbiamo parlato con il custode del lido alla Plaja dove Antonio, di tanto in tanto, passa qualche pomeriggio al mare con il nipotino.
Abbiamo chiesto notizie sul suo conto al giornalaio, al fioraio e al salumiere che vede ogni mattina quando scende a fare la spesa al Borgo.
Sull’ anonimo amministratore del condominio di piazza Beato Angelico numero 2, ciascuno di loro ci ha raccontato tutto ciò che sapeva.
Tutto ciò che sapevano era niente. E’ riuscito a farsi dimenticare l’ uomo che con la sua Smith & Wesson sparò a Togliatti.
Di lui – anche i suoi amici più intimi conoscono solo quello che lui ha voluto far loro conoscere. Che Antonio compirà 75 anni il prossimo 3 agosto. Che gli sono sempre piaciute le Vespe. Che è molto contento della laurea in Giurisprudenza presa da sua figlia Magda e che stravede per il piccolo Antonio, il figlio di suo figlio Carmelo.
Dicono che sia un uomo dai modi molto garbati. Amministratore di condominio scrupoloso. Mai una parola in più e mai una parola in meno con gli occasionali interlocutori. Religiosissimo. Tutto casa e chiesa.
E poi? Poi nulla. Nulla da dire. Nulla da raccontare. Tranne una sorta di leggenda metropolitana che gira negli ambienti musicali di Catania. La voce racconta che lui – “l’ attentatore” – sia il proprietario (insieme a un uomo misterioso) di una grande e famosissima azienda di corde per chitarre fondata nel 1958 a Saint Louis, Stati Uniti d’ America. L’ ultima intervista l’ ha rilasciata – ne concede una ogni dieci anni e sempre alla vigilia del 14 luglio – qualche settimana fa a una rivista. E’ l’ unico cedimento che gli si conosce sul suo passato. L’ ultima intervista era comunque la fotocopia di quella che aveva fatto nel 1988 e anche di quella che aveva fatto nel 1978.
Non rinnega nulla Antonio Pallante. Non si pente di nulla Antonio Pallante. Le poche volte che parla, dice sempre le stesse cose: “Io mi misi in testa un’ idea molto precisa: se Togliatti fosse morto, l’ Italia si sarebbe salvata. Pensavo che quello fosse l’ unico modo di evitare l’ invasione dei sovietici, dovevo farlo e l’ ho fatto”.
Da quel giorno non mi sono mai più occupato di politica”. Quel giorno, suo fratello Guido aveva 16 anni. Ricorda poco. Ricorda soltanto le parole di suo padre: “Ci disse che non avremmo potuto incontrare Antonio per molto tempo…furono quasi sei anni…”. I quasi sei anni passati da Antonio Pallante in carcere. Condanna a 13 anni e 3 mesi in primo grado. Condanna a 7 anni in Appello. Condanna a 6 anni meno qualche settimana in Cassazione. Una volta libero, “l’ attentatore” tornò in Sicilia per cominciare un’ altra vita.
Il concorso al Corpo Forestale, il matrimonio con Nunziatina, i due figli, il condominio silenzioso di Catania, la tranquilla esistenza di un uomo qualunque che si confonde con gli altri.
ATTILIO BOLZONI -14 luglio 1998 Repubblica.it
Alcune immagini della vita privata di Antonio Pallante
Alcune curiosità:
L’Attentato a Togliatti
del cantastorie Marino Piazza
«Alle ore undici del quattordici luglio
dalla Camera usciva Togliatti,
quattro colpi gli furono sparati
da uno studente vile e senza cuor.
(…)
L’assassino è stato arrestato
dai carabinieri di Montecitorio
e davanti all’interrogatorio
ha confessato dicendo così:
“«Già da tempo io meditavo
di riuscire a questo delitto,
appartengo a nessun partito,
è uno scopo mio personal”».
L’intervista di Mara Venier al giornalista Stefano Zurlo
Nella puntata di ‘Domenica In‘, trasmessa il 20 gennaio, Mara Venier ha ospitato Stefano Zurlo. Il giornalista ha presentato il suo libro ‘Quattro colpi per Togliatti – Antonio Pallante e l’attentato che sconvolse l’Italia’. Zurlo ha intervistato l’uomo che il 14 luglio 1948 tentò, senza riuscirci, di uccidere il segretario del Partito Comunista Palmiro Togliatti:
“Sono riuscito a intervistare colui che 71 anni fa sparò a Togliatti. È ancora in giro, è ancora vivo, ha quasi 100 anni. Antonio Pallante finalmente si è convinto, a 96 anni d’età, a raccontarmi come arrivò a quella decisione. Lui, studente universitario, si era messo in testa che Togliatti fosse il nemico dell’Italia. Prese la pistola, dalla sua città Catania andò a Roma. Si piazzò davanti a Montecitorio per sparare a Togliatti. Realizzò l’attentato ma dato che erano pallottole comprate al mercato nero, per fortuna molto scarse e spuntate, Togliatti ha potuto raccontare quello che è successo perché è sopravvissuto all’attentato ed è vissuto a lungo. È morto nel 64”.
Il commento di Mara Venier poi le scuse.
Mara Venier, allora, ha pensato di salutare Antonio Pallante: “Noi lo salutiamo perché lui forse ci sta guardando. Perciò salutiamo Antonio Pallante e grazie a Stefano Zurlo”. Il gesto di riguardo nei confronti di un uomo che all’età di 25 anni ha acquistato un’arma, ha esploso quattro colpi contro Togliatti e ha portato a termine (per fortuna senza successo) un attentato, ha suscitato grandi polemiche. La conduttrice, raggiunta da AdnKronos, si è scusata:
“Io ho soltanto salutato una persona molto anziana, di 99 anni. Chiedo scusa se qualcuno si è risentito. Sono molto dispiaciuta, ma vorrei fosse chiaro che la politica non c’entra nulla. Sono una persona spontanea, ma davvero non era mia intenzione prendere una qualsivoglia posizione”.
L’indignazione di Rita Borioni
Dopo essere venuta a conoscenza dell’accaduto, la consigliera d’amministrazione della Rai Rita Borioni, ha espresso il proprio disappunto sui social: “Apprendo: a ‘Domenica In’ su Rai1, la conduttrice, al termine della presentazione di un libro sull’attentato a Togliatti avvenuto nel 1948, manda un ‘saluto a Antonio Pallante (l’attentatore n.d.r.) che ci segue da casa’. È sconcertante. È sconcertante che non si sappia che Togliatti rischiò di morire, che l’Italia rischiò la guerra civile e che fu solo per la responsabilità dello stesso Togliatti che si evitarono disordini. È sconcertante come si scelga di buttare tutto ‘in caciara’ e come un attentatore e potenziale assassino sia salutato come se fosse un simpatico telespettatore qualsiasi. Sono molto preoccupata per quello che sta succedendo in Rai. Molto preoccupata”.
Francesco Verducci parla di “pagina miserevole”.
Repubblica.it riporta le dichiarazioni di Francesco Verducci, senatore Pd e membro della Vigilanza Rai, che richiede un intervento del cda per chiarire “come sia avvenuta una tale scempiaggine”: “Pallante è simbolo e artefice di una delle più drammatiche vicende della nostra Repubblica.
Vederlo ‘sdoganare’ da Rai1 nel contenitore nazionalpopolare per eccellenza è una pagina miserevole per il servizio pubblico e per il nostro Paese.
Chiediamo alla direttrice di Rai1 Teresa De Santis, all’amministratore delegato Fabrizio Salini e al cda di intervenire per chiarire come sia potuta avvenire una tale enormità e scempiaggine, per riparare questo torto e chiedere scusa agli italiani”.
Emiliano Minnucci reputa l’accaduto “vergognoso”
Emiliano Minnucci, consigliere regionale PD del Lazio, ha chiarito di reputare “vergognoso” quanto accaduto a ‘Domenica In’: “Quello che è accaduto questo pomeriggio nel corso della trasmissione ‘Domenica In’ ha dell’incredibile anzi, del vergognoso.
Mara Venier, a seguito della presentazione del libro di Stefano Zurlo, si è tranquillamente permessa di salutare il fascista Antonio Pallante. Un fatto di gravità inaudita soprattutto perché si è consumato nella rete di punta della nostra tv di stato. Mi auguro che i vertici Rai prendano immediatamente le distanze condannando l’accaduto in maniera seria e determinata. Stiamo parlando di un fascista che nel ’48 attentò alla vita di Togliatti, trascinando l’Italia sull’orlo della guerra civile con manifestazioni violente in tutto il Paese che portarono alla morte di decine di persone. La TV di stato non può essere questo”.
Alcune considerazioni vere o/e presunte su questo tragico avvenimento:
– Antonio Pallante non era fascista, ma sicuramente anticomunista.
– Agi da solo ?! Sicuramente fu il braccio armato. In paese circolava voce che un gruppetto di amici avente tutti lo stesso obbiettivo (uccidere Togliatti e così liberare l’Italia dal comunismo) tirarono a sorte chi doveva farlo.
– Il giovane universitario Pallante aveva ingannato i propri genitori in quanto aveva dato pochi esami e conoscendo il carattere del padre (per mantenerlo agli studi aveva venduto un podere per duecentomila lire) era molto preoccupato e si sentiva in colpa. Forse anche questo fatto ebbe un suo peso.
– Antonio Canepa e il separatismo. Canepa muore a Randazzo il 17 giugno del 1945 vittima di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine in contrada Murazzo Rotto. Questa è la storia ufficiale. Storia che non convinse tutti. Si dice che furono alcuni giovani comunisti di Randazzo appostati sopra il vigneto (era di proprietà del salesiano Don Mondio) che si trova di fronte dove ora vi è il monumento a Canepa e da lì fecero fuoco. Se questa è la verità il giovane Pallante, come si è detto molto attivo politicamente, non poteva non sapere e con Lui i suoi amici. Da qui a quello che poi successe il passo non dovrebbe essere lungo.
– L’ultima considerazione: abbiamo riportato quanto dichiarato da alcuni rappresentanti delle nostre Istituzioni al saluto di Mara Venier nella trasmissione televisiva……. ma siamo veramente combinati così male ? ! ? !
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Una intervista, su Rai Storia, ad Antonio Pallante
CANEPA, Antonio. – Nacque a Palermo il 25 ott. 1908, in una famiglia di origine genovese, da Pietro e da Teresa Pecoraro.
Nel 1930 il C. si laureò in giurisprudenza all’università di Palermo con una tesi di filosofia del diritto dal titolo Unità o pluralità di ordinamenti giuridici?, nella quale appaiono già con chiarezza tesi politiche antifasciste.
Durante il servizio militare, prestato a Palermo, iniziò l’attività pratica di opposizione al regime, che si concretò inizialmente nei legami stretti con un gruppo di antifascisti settentrionali (Attinelli, Vittoriano Massolo, Davide Turrone, Biglieri ed altri).
Con essi formò un gruppo omogeneo per orientamento ideologico, più tardi chiamato dei “sanmarinesi”, con i quali studiava l’attuazione di un colpo di mano nella Repubblica di San Marino, per dimostrare l’esistenza in Italia di forze contrarie al regime fascista.
Questo piano, che doveva concretamente essere messo in atto nei primi di giugno del 1933, consisteva nel far convergere nella Repubblica alcuni gruppi provenienti da varie parti d’Italia, occupare i posti di polizia locali, impadronirsi della radio, catturare la famiglia fascista Gozzi, che a San Marino deteneva il potere, impadronirsi del tesoro pubblico (destinato a finanziare l’antifascismo all’estero), emettere via radio una serie di comunicati antifascisti, quindi, dopo ventiquattro ore di occupazione, possibilmente riparare in Svizzera.
Il complotto tuttavia fallì, in seguito all’arresto del fratello del C., Luigi, che era stato trovato in possesso dei piani dell’occupazione, durante un suo soggiorno di ricognizione a San Marino. Subito dopo le autorità fasciste operarono altri venti arresti fra cui quello dello stesso Canepa.
.In seguito al processo il Canepa venne internato in manicomio a Roma e poi a Palermo, mentre agli altri congiurati vennero inflitte pene varianti fra i quattro e i due anni. Dimesso dalla casa di cura nel 1935 il C. rinunciò, temporaneamente, all’attività di aperta opposizione al fascismo ed iniziò una attività di ricerca e di studio. Già nel 1937 pubblicò a Roma in tre volumi il Sistema di dottrina del fascismo. Benché quest’opera venisse lodata dalla rivista ufficiale Gerarchia (XVIII [1938], 8, p. 580) e nonostante il titolo, essa era costruita con un abile taglio per la propaganda di idee democratiche antifasciste, con amplissime citazioni di opere proibite, specie marxiste. Questa caratteristica non sfuggiva al Popolo d’Italia, che le dedicò un corsivo molto polemico.
Nel 1937 il C. otteneva l’incarico di storia delle dottrine politiche e di storia dei trattati e politica internazionale, all’università di Catania. Egli venne allora ad assumere il duplice ruolo di professore universitario ligio al regime e di clandestino animatore ed organizzatore dei primissimi nuclei di Giustizia e Libertà. Contemporaneamente divenne agente dell’Intelligence Service inglese.
Allo scoppio della guerra il Canepa era in prima linea nell’attività antifascista: rappresentava infatti i nuclei Sicilia e Libertà a Catania: si trattava delle prime organizzazioni di orientamento indipendentista, di cui era presidente Andrea Finocchiaro Aprile, convinte della necessità di azioni armate contro il fascismo.
Sin da questa prima fase il Canepa rappresentò l’ala sinistra del movimento indipendentista siciliano e, con tale orientamento, pubblicò, a Catania, nel 1942, un opuscolo che ebbe larga diffusione a Catania, ma anche a Messina e a Palermo.
Il titolo di tale opuscolo era La Sicilia ai siciliani e venne pubblicato con lo pseudonimo di Mario Turri.
In esso, dopo una ricostruzione delle vicende storiche dell’isola il C. afferma che “la Sicilia si è trovata male sotto qualunque governo che non fosse siciliano. E si è trovata malissimo sotto il governo italiano. E si è trovata ancora peggio, peggio che mai, sotto il governo fascista”, e conclude affermando “Non si può continuare come per il passato. Per noi siciliani è questione di vita o di morte. Separarci o morire”.
Argomentazione centrale del C. in questo scritto è inoltre quella che l’indipendenza siciliana sia lo strumento indispensabile per il progresso delle classi inferiori.
In questa idea sta anche il nucleo dell’indipendentismo di sinistra rappresentato, oltre che dal C., più tardi anche da Antonino Varvaro.
Tale concezione sarà però destinata a scontrarsi con il separatismo reazionario degli agrari e sarà, molto verosimilmente, questa l’origine, non solo della divisione del movimento indipendentista, ma anche della morte stessa del Canepa.
L’attività pubblicistica era però la parte meno importante dell’azione antifascista del Canepa, dalla fine del 1942 alcuni gruppi da lui diretti iniziarono azioni armate contro installazioni fasciste e germaniche. In tal modo, sempre per iniziativa del C., prese corpo il primo nucleo dell’E.V.I.S. (Esercito volontario per l’indipendenza siciliana).
Fra le azioni di rilievo compiute in questa fase va annoverato soprattutto il sabotaggio compiuto all’aereoporto di Gerbini, presso Catania, importante base aerea germanica per le incursioni sulla isola di Malta, un mese prima dello sbarco alleato in Sicilia.
Dopo l’arrivo delle forze alleate il C. collaborò attivamente con esse e operò anche da collegamento con le organizzazioni partigiane del Nord.
Nei primi mesi del 1944 si trovava infatti in Toscana, dove comandava una brigata partigiana denominata “Matteotti”, ma di orientamento anarchico e non inquadrata nei partiti del Comitato di liberazione nazionale.
A Firenze fondò anche, ma si trattò solo di un’esperienza transitoria, un “Partito dei lavoratori“. In tale periodo si collocano anche i suoi contatti, secondo molte testimonianze assai stretti e per taluni anche da militante, con il Partito comunista italiano.
Per esempio secondo Edoardo D’Onofrio il C. ebbe strettissimi contatti con le organizzazioni del partito (cfr. Gaja, pp. 200-02); questa attività militante del Canepa nelle file del PCI non è però corroborata da altre testimonianze: Leonardo Sciascia ricorda come manchi in proposito un documento ufficiale e il Renda lo esclude esplicitamente.
Dopo il periodo di cui si è detto al Nord, il Canepa ritornò, alla fine del 1944, a Catania dove riprese il suo posto di professore universitario, e il ruolo di capo del braccio armato del Movimento indipendentista, al quale egli affidò, in opposizione alla maggioranza moderata dell’indipendentismo siciliano, un ruolo decisamente rivoluzionario. Il movimento era stato, fin dal suo sorgere nel 1942, appoggiato dalle forze alleate. Quando tale appoggio venne a mancare, la lotta armata tuttavia continuò in varie parti dell’isola. Il C., che costituì anche una sua brigata nel marzo del 1945, continuò ad esserne uno dei capi militari.
Il 17 giugno 1945, nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri, sulla strada fra Randazzo e Cesarò, Antonio Canepa veniva ucciso.
Alcune donne (tra cui la mamma di Emanuele Gullotto) sentendo tutto questo trambusto andarono nella chiesa dei Cappuccini a chiamare il dottor Gianbattista Pannisidi Sapio che stava ascoltando la Messa e questi con padre Luigi Magro (autore del libro: “Cenni storici della Città di Randazzo” che puoi trovare in un’altra parte del sito) prontamente si recarono sul posto, ma non c’era più nulla da fare per il Canepa. Furono portati all’ospedale, lì si trovavano casualmente Nino Greco e Gino Paparo, e venne chiamato pure il dottor Salvatore Mannino che accerta la morte di Antonio Canepa (per dissanguamento e dei giovani che erano con Lui: Giuseppe Lo Giudice e Carmelo Rosano.
Antonio Canepa è sepolto nel cimitero di Catania, nel viale dei siciliani illustri, accanto a Giovanni Verga e Angelo Musco.
di Luigi Putrino —
Dopo 79 anni ha un volto il «Ragioniere Donovan», è mister Anthony Eric Heath, ex vice amministratore della Ducea Nelson di Bronte, lo 007 inglese facilitatore dello sbarco Alleato del ’43 (avvenuto nella notte fra il 9 e 10 luglio), nonché contatto degli indipendentisti siciliani Antonio Canepa e Salvatore Giuliano.
Il misterioso personaggio è stato identificato dall’ingegnere Mario Carastro, cultore di storia patria, originario di Bronte.
«Secondo molti studiosi, il famoso ragioniere Donovan era stato amministratore della Ducea Nelson, negli anni Trenta. Ebbene, oltre Heath – spiega Carastro – tale ruolo in quel decennio lo ricoprirono: George Dubois Woods (partito per il Canada nel 1938), George Niblett (trasferitosi in Inghilterra nel 1940) e Lawrence Hughes (internato come nemico in un campo di concentramento a Parma dal giugno 1940)».
Prosegue Carastro: «Soltanto Anthony Eric Heath, quindi, poteva trovarsi in Sicilia nel 1943 ed essere riconoscibile come ex amministratore dei Nelson. Questo e altri dettagli consentono, con ragionevole certezza – puntualizza l’ingegnere -, d’identificare Heath con il ragioniere Donovan, capo operativo di Mario Turri, alias del professore Antonio Canepa, comandante dell’Evis e agente segreto inglese pure lui, ucciso durante il conflitto a fuoco vicino a Randazzo, all’alba del 17 giugno 1945».
Sulla prima permanenza siciliana del giovanissimo Tony, Carastro racconta: «Nel novembre del 1929, il V duca di Bronte, Alexander Nelson Hood, a Londra decise di assumerlo come aiuto amministratore. Le modalità del suo viaggio, comunicate da Scotland Yard personalmente al Duca, fanno dedurre che l’impiego fosse di copertura e che Nelson Hood lo sapesse, vista la sua posizione alla Corte britannica. Heath arrivò a Bronte, al castello di Maniace, il 4 gennaio 1930, ad agosto 1935 fuggì a Malta, per scampare all’arresto del controspionaggio italiano».
Mario Carastro non è nuovo a scoop sulla Ducea di Bronte, ambiente dov’è cresciuto e di cui conserva, oltre ai suoi, ricordi e documenti personali del padre Giuseppe e del nonno Mario (un tempo impiegati al Castello Nelson). Ricerche nell’«Archivio privato Nelson», riscontri nel diario personale inedito del V Duca di Bronte e altri approfondimenti – sia bibliografici sia con i figli di mister Heath, Philip (che, come l’ingegnere, abita a Roma) e Sebastian (che vive in Inghilterra) – hanno consentito a Carastro d’individuare l’agente segreto dell’MI6 «Heath-Donovan», tanto cercato per 79 anni da storici e giornalisti.
«Nel 1943 l’abile 007 fu inviato in Nord Africa, con la VIII Armata inglese, e poi in missione segreta in Sicilia, per facilitare lo sbarco alleato. Nel catanese, sotto le vesti del ragioniere Donovan – evidenzia Carastro -, Heath ordinava sabotaggi a Canepa e al suo gruppo clandestino antifascista di giovani guerriglieri, fiduciosi nel sostegno inglese per l’indipendenza siciliana.
Il 10 giugno ’43, nella piana di Catania presso Paternò, ci fu il sabotaggio più clamoroso, alla base aerea militare italo-tedesca di Gerbini, che l’indomani – ricorda – consentì agli Alleati la presa di Pantelleria e il via libera all’operazione Husky».
«Nel 1950 Tony Heath è di nuovo in Sicilia, per parlare con il bandito Salvatore Giuliano, su richiesta dello stesso colonnello dell’Evis, il quale, alcuni mesi dopo quell’incontro, nella notte fra il 4 e il 5 luglio, sarà ucciso a Castelvetrano», conclude Carastro.
Anthony Eric Heath (1912-1995), nella sua lunga carriera rivestì anche prestigiose cariche diplomatiche per il Governo britannico in diversi Stati, fra cui l’Italia, dove intrattenne relazioni di alto profilo politico-istituzionale e culturale.
Questo e altro, Mario Carastro affronta nella sua ultima ricerca storica sulla Ducea Nelson, dal titolo «Spionaggio e controspionaggio a Bronte e Maniace 1930-1945» (luglio 2022).
Luigi Putrino
Fu strage di stato
A tutt’oggi ancora avvolto nel mistero
l’agguato di Randazzo del 17 giugno 1945
di Giuseppe Scianò
La mattina del 17 giugno 1945, sulla strada che da Cesarò porta a Randazzo e in prossimità del bivio per Bronte, in contrada “Murazzu ruttu”, un rumoroso e malandato motofurgone Guzzi 500 incappa in un posto di blocco, non casuale, dei Regi Carabinieri. Non è un motofurgone qualsiasi, che avrebbe comunque dato nell’occhio perché sono tempi tristissimi nei quali sono pochi gli automezzi in circolazione. Sono più comuni i quadrupedi e i carretti.
Questo motofurgone è particolare perché trasporta armi nel cassone e ha a bordo il fior fiore dell’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia)
. Probabilmente i carabinieri ne erano stati informati. Chi c’è, in pratica, sul furgone? In tutto sei persone.
Alla guida, isolato nella semicabina anteriore, c’è Giuseppe Amato Papaleo (nome di battaglia: Joe, anche se gli amici lo chiamano Pippo), vice comandante dell’EVIS, amico di vecchia data e principale collaboratore del comandante Mario Turri, con il quale ha condiviso la inquietante lunga esperienza di agente dell’Intelligence britannica. Pippo è un giovane molto efficiente e preparato, è di idee socialiste e appartiene a una prestigiosa famiglia borghese di Catania. Da poco ha compiuto ventuno anni, essendo nato il 9 giugno 1924.
All’interno del furgone ha preso posto il comandante Mario Turri. È questo, infatti, lo pseudonimo scelto dal prof. Antonio Canepa, nato a Palermo il 25 ottobre del 1908, docente dell’università di Catania, protagonista di diverse iniziative politiche e talvolta rivoluzionarie, quanto meno nelle intenzioni. Era stato attivo collaboratore, se non un agente, dei servizi segreti britannici in funzione antifascista e antitedesca.
Non sappiamo perché nel 1943, quando, con lo sbarco degli Alleati, già in Sicilia si sarebbe potuta giocare la carta dell’indipendenza, il prof. Canepa invece se ne sia andato in Continente a fare il partigiano italiano. Ma, in quel 17 giugno 1945, Canepa ha già da tempo lasciato alle spalle l’esperienza di partigiano vissuta, con lo pseudonimo di Tolù, fra gli Abruzzi e la Toscana.
E ha anche abbandonato la guida di un partito marxista-leninista fondato a Firenze, unitamente a una battagliera testata giornalistica. Non sappiano, né ci interessa sapere, quanto la sua attività fosse apprezzata dal Comitato toscano di liberazione nazionale. Siamo sicuri però che un certo “scrusciu” lo faceva.
Con l’accusa che il suo giornale veniva stampato senza autorizzazione, Canepa aveva dovuto subire un processo e una piccola, ma significativa, condanna. Segno, questo, che i compagni del PCI della Toscana non gli volevano più bene (ammesso che prima gliene possano aver voluto) né lo volevano più fra loro.
Nell’ottobre del 1944 Canepa era quindi ritornato in Sicilia, ben deciso a mettere a disposizione della lotta per l’indipendenza le proprie esperienze, l’immensa cultura, il coraggio e, soprattutto, la sua stessa vita. Probabilmente è quello il momento in cui Canepa è diventato separatista. Di certo è che egli è separatista.
Dopo un incontro con Andrea Finocchiaro Aprile, leader carismatico dell’Indipendentismo siciliano, ottiene il “silenzio-assenso” (o ne riceve una vera e propria autorizzazione) a costituire l’EVIS. Fino a quel momento in Sicilia erano esistite varie formazioni separatiste giovanili, soprattutto studentesche, paramilitari. Basate però prevalentemente sullo spontaneismo e sull’entusiasmo. Senza la preparazione, l’addestramento e quel senso dell’organizzazione quasi scientifica che Canepa voleva che l’EVIS avesse.
Il 17 giugno 1945 un altro passeggero del motofurgone è lo studente universitario (Facoltà Economia e Commercio) Carmelo Rosano, il quale proprio quel giorno compie ventidue anni (era nato il 17 giugno 1923). Rosano è senza dubbio uno dei migliori uomini dell’EVIS. Preparato, serio, militante convinto. Naturalmente distinto ed elegante nel portamento. Appartiene a un’ottima famiglia ed è il braccio destro del comandante Turri.
[ Sulla morte di Carmelo Rosano leggi “Onore ai martiri siciliani” ]
Altri due giovani studenti che si trovano sul motofurgone, entrambi nati nel 1924, sono Nino Velis e Armando Romano che, per percorsi e diverse vicende sopravviveranno all’eccidio di Randazzo unitamente a Pippo Amato. Infine, c’è il guerrigliero più giovane. Si chiama Giuseppe Lo Giudice, detto Pippo, studente ginnasiale, appena diciottenne. Era nato a San Michele di Ganzeria il 2 gennaio 1927.
Quanto fosse valido lo dimostra il fatto che i superiori lo avevano voluto con loro in una missione tanto delicata. Gli si legge in faccia che è un giovane di ideali purissimi e pieno di entusiasmo. Non è un personaggio secondario, qualche volta da ricordare e qualche volta no. Ben rappresenta tutti i ragazzi siciliani. Giuseppe Lo Giudice è, infatti, il simbolo dell’Indipendentismo Siciliano di ogni epoca: onesto, leale e generoso.
Ci siamo permessi di richiamare qualche dato biografico dei sei guerriglieri per evitare che con il tempo si dimenticasse anche ciò che è importante. Ma soprattutto per ricordare a noi stessi e agli storici e ai giornalisti e a coloro che sono soliti occuparsi del Separatismo Siciliano, come nessuno (dico nessuno) dei guerriglieri siciliani che il 17 giugno del 1945 si trovavano sul vecchio Guzzi 500 potesse essere accusato di essere delinquente comune o mafioso In contrada “Murazzu Ruttu” morì crivellato di colpi, e per primo, Giuseppe Lo Giudice. Canepa e Rosano, gravemente feriti, moriranno invece a Randazzo.
La morte di Antonio Canepa: un “caso” rimasto aperto dal 1945.
La morte di Antonio Canepa, il “professore guerrigliero” creatore dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana), avvenuta nel corso di un conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri alle porte di Randazzo il 17 giugno del 1945, può considerarsi, a tutti gli effetti, un “caso ancora aperto”. In quell’azione militare, la cui dinamica non è mai stata pienamente chiarita, caddero anche due giovani militanti dell’EVIS, Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice, mentre un quarto ragazzo, Nando Romano, rimase ferito e venne arrestato.
Il “caso Canepa” viene riaperto con la pubblicazione di due volumi del giornalista Salvo Barbagallo, “Antonio Canepa, ultimo atto” e “L’uccisione di Antonio Canepa”, due libri connessi tra di loro: nel primo si trova l’analisi del personaggio e del periodo storico in cui visse; nel secondo libro una vera e propria “anatomia” sui documenti (la maggior parte inediti) che riguardano l’oscura vicenda del conflitto a fuoco a Randazzo.
La fine di Antonio Canepa, che rappresentava la punta avanzata e progressista del Movimento indipendentista siciliano (che allora contava ben 500 mila iscritti, là dove i nascenti partiti tradizionali – dal PCI al PSI, alla DC – raggranellavano poche migliaia di iscritti), segna una svolta nella vita della Sicilia che aspirava all’indipendenza. Un anno dopo all’ Isola verrà concessa un’Autonomia Speciale quale palese compromesso tra la nuova Italia, nata dalle macerie della guerra, e la Sicilia che dal giogo fascista era stata liberata nell’estate del 1943, quando le sorti del conflitto mondiale ancora erano incerte.
Il Movimento indipendentista siciliano venne non solo accettato ma anche alimentato dagli “alleati” angloamericani e abbandonato quando si comprese che la fine della Germania nazista era prossima.
Antonio Canepa era d’ostacolo a ciò che il futuro del mondo presentava, dopo gli accordi di Yalta.
Chi volle l’eliminazione di Canepa? Nessuna traccia documentale negli archivi italiani, inglesi e americani.
Che la fine di Canepa sia stata predeterminata il giornalista Salvo Barbagallo lo fa emergere proprio dall’analisi dei documenti che è riuscito a reperire, pur dovendo ammettere che sui “mandanti” di quello che oggi può definirsi un vero “agguato” si possono fare solo ipotesi.
Francis Drak
Ciccina Lo Giudice: “Piango ancora mio fratello, ucciso con il prof. Canepa e gli altri”.
Sono passati pochi giorni dalla commemorazione della strage di murazzu ruttu, a Randazzo dove il 17 giugno del 1945 vennero uccisi, antonio canepa, docente universitario e comandante dell’evis (esecito volontario per l’indipendenza della sicilia), insieme con carmelo rosano (22 anni), giuseppe amato detto pippo (21 anni), antonio velis (21), peppino lo giudice ( studente liceale diappena 18 anni). Incredibilmente i reali carabinieri, li avevano scambiati per banditi. Un professore universitario e tre ragazzi. Della figura di canepa, della sua morte e delle particolari condizioni storico-politiche della sicilia del dopoguerra, vi abbiamo raccontato in numeorisi articoli, come questo: canepa una strage premeditata. (e in altri correlati sotto).
Sono passati pochi giorni dalla commemorazione della strage di Murazzu ruttu, a Randazzo. Dove il 17 giugno del 1945 vennero uccisi, Antonio Canepa, docente universitario e comandante dell’EVIS (Esecito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), insieme con Carmelo Rosano (22 anni), Giuseppe Amato detto Pippo (21 anni), Antonio Velis (21), Peppino Lo Giudice ( studente liceale diappena 18 anni). Incredibilmente i Reali Carabinieri, li avevano scambiati per banditi. Un professore universitario e tre ragazzi. Della figura di Canepa, della sua morte e delle particolari condizioni storico-politiche della Sicilia del dopoguerra, vi abbiamo raccontato in numeorisi articoli, come questo: Canepa una strage premeditata. (E in altri correlati sotto).
Oggi pubblichiamo, invece, la straordinaria testimonianza di quei giorni della sorella di Peppino Lo Giudice, il più giovane tra le vittime di quel giorno del lontano 1945: Ciccina Lo Giudice, che ha parlato con la nostra collaboratrice, Daniela Giuffrida, attivista del Mis, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia, del suo dolore mai sopito per la morte violenta e prematura del fratello. Si sono incontrate al cimitero di Randazzo, il 17 giugno scorso.
In un angolo assolato del cimitero di Catania, in quel “viale degli uomini illustri” dove riposano in pace anche Giovanni Verga ed Angelo Musco, quattro “giovani banditi” morti per la loro terra, riposano, sotto il sole cocente, all’ombra di una colonna spezzata a metà come le loro vite, mentre, la loro bandiera “da combattimento”, sventola adagio sopra i nostri fiori gialli e rossi. Sono in quattro e riposano li, uno accanto all’altro, per l’eternità, come vicini avevano lottato per un unico scopo… per quella Indipendenza della Sicilia che aveva regalato loro la stessa sorte, la stessa morte.
Antonio Canepa, docente universitario di 37 anni, comandante dell’EVIS , Carmelo Rosano, il suo braccio destro, 22 anni, laureando in scienze economiche, 22 anni compiuti proprio quel 17 giugno) Giuseppe Lo Giudice (18 anni studente liceale) e Francesco Ilardi ucciso 5 giorni dopo i suoi compagni, durante un pattugliamento nei dintorni di Cesarò…
Stanno li in quell’angolo dimenticato di cimitero, lontano dai fasti e “nefasti” delle manifestazioni ufficiali, lontani dalle cineprese e dai microfoni, dalle scene e dalle sceneggiate di chi, a torto o a ragsi ritiene unico depositario dei valori e del destino della nostra terra… Un cimitero e poi una stele, posta a Murazzu ruttu a perenne memoria. Campagne verdi a Murazzu ruttu e fiori, tanti fiori e ancora bandiere e tanta commozione alle parole di una vecchina piccola e bianca di 92 anni che, dopo 67 anni, non si rassegna ancora al furto crudele della giovane vita del suo Peppino…
Piange Ciccina Lo Giudice e fra le lacrime mi racconta di come quel giorno i carabinieri fossero andati a casa loro, a San Michele di Ganzaria, a cercare notizie del giovane Peppino. Peppino lo Giudice studiava a Caltagirone, mi racconta Ciccina, era bravo….si voleva diplomare. La sua vita fu fermata, invece, quel 17 giugno, nelle campagne di Randazzo, morto per le ferite riportate durante l’agguato misterioso di quella mattina, agguato voluto forse da servizi segreti, forse…non si sa da chi… la Storia è vaga, ma la storia dei “vinti” non è mai “vera storia”, lo sappiamo bene e resta coperta da un velo di mistero e nel frattempo la polvere del tempo si aggiunge rendendo quel velo ancor più imperscrutabile, impenetrabile, sebbene….
Ciccina piange e guardando la foto del fratello, mi mostra il maglioncino che indossa sotto una giacca. Quel maglione glielo aveva fatto lei all’uncinetto o forse ai ferri da maglia, non se ne ricorda più, ma ricorda il dolore e lo sconforto di quella mattina, quando i “reali carabinieri” dopo aver chiesto loro dove fosse Giuseppe accompagnarono lei e sua madre sul luogo in cui i tre ragazzi erano stati assassinati.
Feriti dagli stessi carabinieri, in un agguato, erano stati caricati e trasportati, per disposizione degli stessi carabinieri, all’ospedale di Giarre, anzicchè a quello vicinissimo di Randazzo, dove forse qualcuno di loro si sarebbe potuto salvare…ma evidentemente non dovevano salvarsi. Furono lasciati morire dissanguati. Erano in sei quella mattina, due riuscirono a fuggire, mentre gli altri 4, dentro casse di legno ca parevanu chiddi da frutta, si puttanu o cimiteru.
Al cimitero il guardiano (Isidoro Privitera, separatista anche lui) chiese i nomi di quei morti ma i reali carabinieri risposero che erano solo quattro banditi morti in conflitto ! Un docente universitario e tre studenti, erano volgari banditi da poter essere giustiziati come agnelli al macello…. squarciati da un colpo da fuoco e lasciati dissanguare… Il guardiano del cimitero, sapendo per esperienza che prima di essere inumati sarebbe passato del tempo, aprì quelle casse, nel tentativo di farle arieggiare…. Triste spettacolo si offrì ai suoi occhi, corpi di ragazzini crivellati di colpi mentre quello più anziano del gruppo, aveva soltanto uno squarcio nella gamba che oppurtunamente bendato gli avrebbe impedito di morire dissanguato… I medici dell’ospedale di Giarre avevano infilato in tutta fretta quei corpi dentro le casse, ma nella quarta cassa, uno di quei ragazzi era ancora vivo… era Armando Romano, nome di battaglia Nando, il suo diaframma si muoveva, era ancora vivo..,
Ma tutto questo la storia ufficiale non lo racconta, nuddu ni parra ma du carusu si savvau grazie o vaddianu du cimiteru! Mi dice Ciccina e il suo sguardo da fiero diventa rabbioso, stringe i pugni, mi abbraccia e scoppia a piangere, mi abbraccia ancora..
E’ l’istinto che guida la mia mano, stacco il mio spillino, un triscele argentato, dal mio petto e lo metto sul suo, le mostro quel simbolo per cui il suo Peppino è morto... il mio triscele adesso sta sul petto giusto, sul petto di una donna antica, fiera, arrabbiata e addolorata, ma dalla dolcezza infinita e dal sorriso stanco e amaro ma non sconfitto…sul petto di una madre antica, nobile e grande….proprio come la nostra terra.
Antonio Canepa e i suoi tre ragazzi dormono vicini, dunque, sotto quella colonna spezzata, come le loro giovani vite, all’ombra della loro, della nostra bandiera, i nostri fiori fanno loro compagnia, il nostro cero illuminerà per un pò la loro notte e poi sarà ancora lotta con loro, per loro, per quel triscele argentato…
di Daniela Giuffrida 21 giugno 2012
Attivista M.I.S. Movimento per lIndipendenza della Sicilia
Randazzo 17 giugno 1945: una strage premeditata Per non dimenticare Antonio CanepaCanepa e loscurantismo mediatico
Ogni anno il 17 giugno un gruppo di persone si riuniscono qui a Randazzo per rendere onore ad Antonio Canepa e alle altre vittime dell’eccidio.
17 Giugno 1945
17 giugno 1945, una data che la cosiddetta storia ufficiale d’Italia (o chi l’ha scritta e la scrive ancora) ha volutamente cancellato.
Eppure questa data per l’Italia dovrebbe significare qualcosa, dal momento che in quel giorno di 72 anni addietro si consumò uno dei misfatti più gravi di un Paese appena uscito dalla guerra, con un Governo “provvisorio” e che ancora non aveva trovato la strada per il suo futuro. Quel 17 giugno del 1945 veniva assassinato in circostanze mai chiarite il professore Antonio Canepa, capo dell’EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) che voleva una Sicilia “Indipendente”, non legata all’Italia. Un personaggio che doveva essere eliminato necessariamente per non rischiare un effetto domino in altre regioni.
Ogni anno, in questa ricorrenza, gruppi sparuti di Sicilianisti ricordano quell’episodio nella strada che porta a Randazzo, dove un ceppo indica il presunto luogo dove venne ucciso, in un presunto conflitto a fuoco con carabinieri, Antonio Canepa e due militanti dell’EVIS, Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice.
Altri che non vogliono spingersi sino alla pendice dell’Etna, portano fiori sulla tomba dove sono custoditi i resti dei tre “guerriglieri”, nel viale degli Uomini Illustri nel cimitero di Catania.
Tante volte descritta quella vicenda alla quale gli organismi istituzionali non hanno mai dato risposte esaurienti. Per non ripeterci riportiamo quanto pubblicato lo scorso anno: il “contenuto” di quell’articolo è come se fosse stato scritto oggi.
20 giugno 2016 – La Voce dell’Isola
Antonio Canepa 17 giugno 1945: la memoria cancellata
di Salvo Barbagallo
Avrebbe stupito tutti, e soprattutto i Siciliani, il Capo dello Stato Sergio Mattarella (Siciliano) se nel festeggiare l’anniversario della Repubblica avesse ricordato gli avvenimenti che precedettero la nascita della nuova Italia e avesse ricordato la “concessione” alla Sicilia dell’Autonomia Speciale con “Speciale” Statuto prima ancora che la Repubblica Italiana nascesse, e il perché quell’Autonomia venne data.
No, non è il tempo delle “meraviglie” o degli “stupori” nel Paese che dà medaglie a chi si è macchiato d’eccidi in patria (vedi quella a Valentino Bortoloso a Schio), nel Paese dove “tutto va bene” e dove la memoria è stata scientificamente cancellata per evitare che le generazioni che non hanno vissuto gli anni tragici della guerra potessero conoscere verità scomode e inconfessabili.
Non crediamo che il Capo dello Stato abbia perduto la sua memoria, ma che probabilmente ha ritenuto non opportuno in questi giorni di pace rinverdire eventi che potrebbero riaprire contenziosi mai sanati tra lo Stato e la sua regione più a sud, la Sicilia. D’altra parte lo stesso presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, non poteva avere alcun interesse a riportare a galla episodi che hanno segnato la sua Terra in netto contrasto con l’Italia d’allora e l’Italia d’oggi.
Perché si dovrebbe “commemorare” una data come il 17 giugno del 1945, una data che aprì in Italia la stagione dei delitti di Stato e la stagione dei compromessi?
Già, il 17 giugno 1945, il giorno in cui venne “assassinato” nelle campagne di Randazzo Antonio Canepa, il professore che aveva creato l’EVIS, l’esercito di volontari che auspicavano una Sicilia Indipendente.
Già, quell’Indipendenza della Sicilia richiesta dalla maggioranza della collettività da quando l’Isola era stata “liberata” dalle truppe angloamericane e quando ancora le sorti del conflitto mondiale erano incerte.
Oggi vengono chiamati “buchi neri” i fatti che accadono ovunque che non trovano spiegazioni o soluzioni.
Una volta, invece, venivano definiti più semplicemente “misteri”.
L’Italia e la Sicilia nel corso degli ultimi settantun anni hanno collezionato una infinità di “misteri”: tanti e tanti avvenimenti, la maggior parte riferiti a crimini oppure a storie irrisolte.
Probabilmente la definizione “buco nero” (black hole in inglese) si adatta meglio a certe realtà siculo-italiche. Scientificamente un “buco nero” è una regione dello spaziotempo con un campo gravitazionale così forte e intenso che nulla al suo interno può sfuggire all’esterno, nemmeno la luce. Generalizzando: nel corso degli ultimi decenni in Italia sono stati costruiti artificialmente tanti “buchi neri” da trasformarla in un Paese dello spaziotempo dove non ci sono frontiere o confini visibili, un territorio ancora sconosciuto. Chi intendesse esplorare questo Paese correrebbe l’evidente rischio di rimanere inesorabilmente intrappolato al suo interno: in passato, infatti, chi ha tentato l’impresa non è più tornato per riferire sulle sue scoperte.
Nel rapporto Sicilia/Italia non ci sono buchi neri ma verità abilmente nascoste dopo avere cancellato altrettanto abilmente le memorie. Parlare delle istanze indipendentiste della Sicilia è anacronistico, là dove si sta perdendo anche la misura della Sovranità dello stesso territorio nazionale e la dignità di un passato è affidata a pochi sopravvissuti nello scempio generale.
Così come sono stati in pochi a ricordare ieri (domenica 19 giugno) alla periferia di Randazzo, nel luogo della presunta scena del crimine, la fine del professore-guerrigliero che lottava per una Sicilia libera e democratica, Indipendente e Sovrana nell’autodeterminazione del suo futuro.
E non colonia come si ritrova a distanza di 70 anni dalla nascita della Repubblica Italiana
Ma chi fu Antonio Canepa?
Il fascismo e la sua fine, la guerra e la Resistenza, il separatismo e la sua guerra furono gli ambiti in cui si svolse la turbinosa esistenza di Antonio Canepa
Il delitto Matteotti (10 giugno 1924) indusse il giovane Canepa, che non aveva ancora compiuto sedici anni, ad esprimere tutto il suo sdegno contro il governo fascista.
Questa ostilità contro il fascismo si materializzò nella preparazione di un attentato a Mussolini: attraverso un passaggio segreto aveva progettato di giungere addirittura nella Sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, ma la chiusura del passaggio fece fallire il piano.
Ma, poi, nel 1937 ottenne la cattedra di Dottrina del Fascismo, con tre volumi dal titolo “Sistema della Dottrina del Fascismo. Una formidabile contraddizione che lo stesso Canepa ammette, ma che invita a sciogliere attraverso una lettura attenta del testo, dal quale si può capire che il fascismo è pericoloso per l’Italia e per gli altri Stati, che il fascismo si può combattere, che ci sono molti scrittori che lo giudicano negativamente.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale entrò in contatto dei servizi segreti britannici, preparò ed attuò con successo, la notte del 10 giugno 1943, l’attentato all’aeroporto di Gerbini, neutralizzando i caccia tedeschi, distruggendo bombe, armi e munizioni.
Come si sa bene, dopo trenta giorni gli angloamericani sbarcarono dalle parti di Gela non incontrando, anche per merito del sabotaggio alla postazione tedesca di Gerbini, un’adeguata resistenza.
A questo punto ecco un altro fatto inspiegabile o, quanto meno, difficile da spiegare: Canepa lasciò la Sicilia e si recò tra l’Abruzzo e la Toscana a fare il partigiano.
La lotta partigiana intrapresa da Canepa fu assolutamente finalizzata alla liberazione dai nazifascisti in particolare dei territori in cui operò tra l’Abruzzo e la Toscana. Avendo conseguito questo risultato e giunto a Firenze nel maggio del 1944, lanciò un’operazione politica di segno divergente rispetto alla linea politica dei CLN e del governo: in nome del Partito Dei Lavoratori, diffuse, il 20 giugno, un appello in cui, per un verso si ringraziavano gli alleati per il decisivo aiuto fornito per la liberazione dai nazifascisti, per un altro si chiedeva agli Alleati di collaborare con i partigiani ed in particolare con la componente comunista, per l’instaurazione di un governo liberato dalla “borghesia – un pugno di capitalisti, di speculatori e di parassiti – (che) ha portato l’Italia alla rovina”.
I contenuti del manifesto non potevano essere condivisi neppure dagli Alleati, sicché Canepa – Tolù perse i riferimenti con il SIS (Secret Intelligence Service), il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) lo arrestò e lo condannò a venti giorni di reclusione con la condizionale e a mille lire di multa.
Decise, quindi, nell’autunno del 1944, di tornare in Sicilia, di morire come Canepa –Tolù e di rinascere come Mario Turri. Molto probabilmente dopo l’eccidio di Palermo, il 19 ottobre 1944, Mario Turri incontrò Andrea Finocchiaro Aprile , riuscendo a convincerlo dell’opportunità di istituire l’EVIS.
Canepa tenne conto, necessariamente, degli intendimenti espressi da Finocchiaro Aprile e da Togliatti: certamente nel primo, il “fatto” istituzionale contava di più di quello sociale e non poteva che essere così (non dimentichiamo che Andrea Finocchiaro Aprile faceva parte di un triunvirato in cui c’era il conte Luigi Tasca, latifondista, e Calogero Vizzini, ex gabelloto e ora latifondista mafioso), mentre per Togliatti, condizionato ancora dalla “svolta di Salerno”, e lui stesso al governo, considerava la soluzione “autonomistica” quella più avanzata, oltre la quale non era lecito, per impedimenti nazionali ed internazionali, pensare di potere andare; in ogni caso, per Togliatti, restava la monumentale questione sociale della riforma agraria ancora da risolvere e i comunisti ne sarebbero stati ancora i grandi protagonisti.
Non si sa bene se Canepa fu più indipendentista o comunista, ma, forse, Tasca, Finocchiaro Aprile e Vizzini lo considerarono più comunista e forse anche per questo fu tolto di mezzo a Murazzu ruttu il 17 giugno 1945, colpito a morte in uno scontro a fuoco con una pattuglia di carabinieri che lo intercettarono a bordo di un furgone guidato da Pippo Amato. Assieme a Canepa quel giorno morirono Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice.
Nessuno ha mai saputo come si svolsero i fatti, chi dette inizio alla sparatoria, chi avvisò i carabinieri di Randazzo del passaggio del furgone, perché i corpi furono sepolti in tombe senza nome.
La storia della Sicilia è soprattutto storia di persone difficili da capire, di fatti difficili da capire e da spiegare perché volutamente censurati e tacitamente dimenticati.
Elio Camilleri – maggio 2013
La morte del capo dell’EVIS Antonio Canepa primo delitto di Stato in Italia?
Un paese che bagna i suoi passaggi epocali con il sangue e il mistero. Questa è l’Italia. Da Bronte ai briganti, da Canepa a Capaci e via D’Amelio è tutto un fiorire di momenti in cui, soprattutto nel mezzogiorno d’Italia, il dissenso e le figure scomode sono stati soffocati nel sangue e senza che venissero perseguiti a dovere i responsabili di crimini efferati. E la domanda che viene da farsi, forse inutilmente, è: quando è incominciata la stagione delle stragi dell’Italia repubblicana? Quando la stessa ancora non lo era ancora, Repubblica, e usciva, a pezzi, da una guerra disastrosa.
Quest’opinione viene certamente rafforzata dalla lettura dei due volumi (“Antonio Canepa ultimo atto” e “L’assassinio di Antonio Canepa” – nella collana Storia e Politica della Bonanno Edizioni- che compongono l’ultima fatica del direttore de “La Voce dell’Isola” Salvo Barbagallo, libri che verranno presentati in un tour di incontri che parte dalla Sicilia l’11 e il 12 ottobre, con gli appuntamenti di Catania (Giovedì 11 ottobre, alle ore 17.30, alle Ciminiere di Catania) e di Acireale.
Salvo Barbagallo ha analizzato a fondo i documenti che, con difficoltà enormi, è riuscito a raccogliere sulla morte di Antonio Canepa. Creatore e comandante dell’Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana, la sua scomparsa avvenne in circostanze mai chiarite in quel di Randazzo il 17 giugno del 1945 e l’autore, senza esplicitare fino in fondo la tesi della strage di Stato, lascia che quest’ultima affiori tra le righe della sua ricerca appassionata. Prima di Portella della Ginestra e della tragica fine di Salvatore Giuliano, prima degli attentati e delle sparizioni dei sindacalisti socialisti e comunisti nelle campagne dell’interno della Sicilia, c’era chi agiva per oscuri motivi e faceva fuori, senza troppi complimenti, chi si opponeva a disegni diversi da quelli previsti.
Delitto di Stato? Già, di uno Stato “nuovo” che ancora non era nato, e che però sapeva di non potersi permettere di perdere una risorsa strategica del suo territorio, la Sicilia. E a cui in molti, dall’estero, guardavano con occhi tutt’affatto disinteressati, nella prospettiva di rafforzare la propria presenza nel Mediterraneo.
Antonio Canepa cadde, insieme a due militanti dell’esercito indipendentista, Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice, “ufficialmente” colpito a morte dai proiettili esplosi dai fucili di una pattuglia di tre carabinieri. E di questa vicenda Salvo Barbagallo ricostruisce meticolosamente l’anatomia, mettendo a disposizione di tutti i documenti nei quali sono raccolte le dichiarazioni a verbale dei protagonisti del presunto conflitto, i tre carabinieri, delle dichiarazioni dei superstiti che scamparono al fuoco dei militari, di quanti potevano essere a conoscenza di ciò che realmente era accaduto. E l’autore del libro, inevitabilmente, giunge a conclusioni non certo lusinghiere: la verità su quanto si verificò a Randazzo è stata occultata sotto una montagne di menzogne.
Il conflitto bellico si era appena concluso a livello nazionale, ma in Sicilia la “pace” era scoppiata subito dopo l’occupazione dell’Isola, governata da americani e inglesi mentre l’Italia rimaneva occupata dai nazifascisti e le sorti della guerra erano incerte. Il momento migliore per far rinascere nel cuore dei siciliani l’aspirazione all’indipendenza e soddisfare così anche le esigenze di una popolazione che voleva dimenticare le violenze subite. E a molti quest’idea apparve la formula migliore visto che nel corso di pochi mesi migliaia, centinaia di migliaia (per l’esattezza in cinquecento mila) aderirono al MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia), non ascoltando la voce di socialisti, democristiani e comunisti.
Era una “pace” che non cambiava l’ordine delle cose, quella che i Siciliani vivevano: fuori i fascisti, sostituiti da un governo di occupazione presieduto da americani e inglesi e, soprattutto, con la prospettiva di andare sotto ad un governo provvisorio italiano che, come altri prima di lui, invece di ascoltare le istanze della popolazione, si presentò con manovre repressive, sedando nel sangue le rivolte provocate dalla fame.
Canepa, quindi, come protagonista principale della prima strage di Stato repubblicano? E’ la conclusione a cui si è naturalmente portati dalla lettura della mole di documenti messi a disposizione del lettore da Barbagallo. Meglio. Una prova generale di quello che, qualche anno dopo, sarebbe stato il capolavoro che portò alla fine di tutte le velleità indipendentistiche siciliane: la fine di Salvatore Giuliano, eseguita con una metodologia che conferma uno stile che, ciclicamente, si è ripresentato nel tempo, sino ai giorni nostri. Una strategia che i servizi segreti (noti e ignoti) in molti casi hanno applicato.
Nella vita del nostro Paese, afferma Salvo Barbagallo, non ci sono misteri, ma (semplicemente ma amaramente) verità che vengono nascoste: come dargli torto?
Alla presentazione dei due volumi a Le Ciminiere di Catania, l’11 ottobre prossimo, prendono parte Valter Vecellio, capo redattore del Tg 2 Rai (che ha curato la prefazione del primo volume), Corrado Rubino, presidente dell’Istituto per la Cultura Siciliana, Marco Di Salvo (che ha curato la prefazione del secondo volume), condirettore del quotidiano online “La Voce dell’Isola”, e l’autore dei due libri su Antonio Canepa, Salvo Barbagallo. Introduce e modera l’incontro il giornalista e scrittore (già capo redattore delle pagine Cultura del quotidiano “La Sicilia”) Salvatore Scalia.
20 settembre 2015 – La Voce dell’Isola
Ancora oggi la parola “indipendentismo” allarma
Se pronunciate la parola “indipendenza” nel contesto di un Paese che presenta instabilità, allora noterete che negli ambienti governativi o politici si crea subito preoccupazione, a volte anche allarmismo. Ma che significa, in fondo, questa parola che può suscitare reazioni a vari livelli e magari contrastanti? I dizionari mostrano diverse sfaccettature del termine “indipendenza”: il Sabatini Coletti per “indipendenza” indica la “Libertà di agire secondo il proprio giudizio e la propria volontà”, il Treccani come la “Condizione di chi o di ciò che è indipendente, riferito sia a stato o nazione, sia a persona, sia a cose, fatti, ecc”, il Garzanti come “La condizione di chi non dipende da altri”, insomma la “Capacità di sussistere e di operare in base a principi di assoluta autonomia”. Da “indipendenza” a “indipendentismo”, il passo è facile. Indipendentismo? I dizionari lo indicano come “atteggiamento” o come “orientamento”: “Orientamento di coloro che propugnano l’indipendenza della propria nazione, del proprio territorio o del proprio partito politico” (dizionario Hoepli).
In realtà più che un atteggiamento o un orientamento è un “sentimento” radicato in quanti aspirano a una “indipendenza” (quale che sia, e nei livelli socio-economici-militari di un territorio che non è considerato o non si “sente” sovrano. Ebbene le parole “indipendenza, indipendentismo” suscitano allarme, così come sta avvenendo in questi giorni in Spagna dove in Catalogna fra sette giorni si vota e dove i “secessionisti” sono dati per favoriti: la Confederazione Casse di Risparmio (Ceca) e l’Associazione della Banca (Aeb), le due grandi associazioni del settore bancario spagnolo, hanno minacciato (diramando una nota congiunta) di ritirarsi dalla Catalogna se diventerà indipendente. Le due banche chiedono che “venga tutelato l’ordine costituzionale” spagnolo e “l’appartenenza alla zona euro di tutta la Spagna”. Barcellona il prossimo 27 settembre giunge a un voto che può rappresentare l’inizio del processo di indipendenza del territorio regionale che verrà trasformato in un nuovo Stato, nonostante l’opposizione di Madrid. Il governo spagnolo, infatti, ha negato il referendum sull’indipendenza, bollandolo come anticostituzionale e Barcellona ha dovuto rinunciare al voto esplicito sul proprio futuro, il presidente catalano uscente, Artur Mas, ha però aggirato l’ostacolo trasformando le imminenti elezioni regionali in un pronunciamento sull’indipendenza. Con la nascita di un nuovo Stato, l’adesione della Spagna all’Unione Europea andrebbe ridiscussa, così come si verificò per i Paesi balcanici che hanno chiesto di entrare nell’Ue. L’indipendenza della Catalogna costituisce un “pericolo” immanente: c’è il rischio concreto che l’esempio catalano possa trovare molti imitatori, a partire dai baschi. La Spagna, se nelle elezioni del 27 dovesse passare l’indirizzio secessionista (e i sondaggi vanno in questa direzione) rischia di esplodere.
In Italia la questione dell’indipendentismo è stata posta poco tempo addietro per quanto attiene la situazione di degrado politica ed economica della Sicilia dal politologo (e altro) americano Edward Luttwak in un’intervista concessa a Enrico Deaglio sul “Venerdì” di “Repubblica”. Luttwak esordisce con una frase inquietante: “…Io sono l’unico ad avere la ricetta perfetta per la Sicilia” e i Siciliani. Come? “E’ semplice. Alzando con orgoglio il vessillo indipendentista sanguinante, i siciliani si riuniscono in assemblea e dichiarano la loro separazione da Roma (…)”. Certo, occorre “tirare la cinghia e risorgere, sotto un capo, un nuovo Federico II (…)”.
Apparentemente l’intervista a Edward Luttwak è passata inosservata: al messaggio, all’invito o alla provocazione del politologo (le dichiarazioni di Luttwak, ovviamente, vanno interpretate) non c’è stato (sempre apparentemente) alcun riscontro, nessuno (sempre apparentemente) ha mostrato un interesse. Eppure un personaggio come Edward Luttwak non parla mai a caso, né mai si esprime a caso: una ragione, alla radice di questa intervista (notando anche chi è l’intervistatore) deve pur esserci.
La Sicilia non è la Catalogna. Anche se il “sentimento” dell’indipendenza non si è mai spento, nei Siciliani la spinta verso la propria “sovranità” si è addormentata settant’anni addietro, quando venne concessa alla regione un’Autonomia Speciale che nessun governante siciliano ha mai applicato (forse per un “patto occulto” con lo Stato Italia). L’idea dell’indipendenza oggi sopravvive in decine di gruppuscoli sicilianisti, l’uno in contrasto con l’altro per mancanza di una leadership unica, credibile e affidabile. Oggi non c’è in Sicilia un nuovo Federico II. In Catalogna il movimento indipendentista è stato costantemente in grado di far sentire la propria voce tanto da incutere paura. In Sicilia oggi non incute più paura neanche la mafia, continuamente mitizzata perché torna utile tenerla come paravento quando si presentano fatti di corruzione e malaffare criminale che possono essere collegati alla politica. Se qualche entità estranea ritenesse altrettanto utile rispolverare il mito dell’indipendenza siciliana quale comodo spauracchio (contro chi?), allora (statene certi) l’argomento “indipendenza siciliana” tornerà a rivivere. Ma questo è un rischio che difficilmente si può correre: in fondo, i Siciliani, potrebbero (finalmente e magari) prendere coscienza della loro condizione di sudditanza e del loro degrado. E, chissà, potrebbero approfittarne…
Salvo Barbagallo
LA SICILIA AI SICILIANI – ALLA SCOPERTA DI EROI DIMENTICATI, ANTONIO CANEPA
Domenica 19 giugno, come avviene da diversi anni, l’Associazione Culturale “La Sicilia ai Siciliani” di Messina ha deposto una corona di fiori sul cippo eretto in contrada Murazzu Ruttu (Randazzo) in ricordo di Antonio Canepa, Carmelo Rosano, Giuseppe Lo Giudice martiri siciliani facenti parte dell’E.V.I.S. (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia) di cui Canepa era comandante.
Il monumento e le lapidi ricordano anche Francesco Ilardi, morto in uno scontro a fuoco qualche giorno dopo l’eccidio di Murazzu Ruttu.
Molti, forse, non sapranno chi era Canepa e cos’era l’E.V.I.S. in quanto la storia racconta solo certe verità.
Verità che tendono a inneggiare personaggi ai quali si sono dedicate vie come eroi ma che oggi mostrano sempre piu un lato oscuro, tanto da somigliare sempre più a carnefici per la nostra Sicilia.
Ma chi era Canepa?
Laureato in legge si recò a San Marino dove tentò insieme agli abitanti di organizzare un colpo di stato contro il potere fascista. Arrestato fu poi rilasciato. Nel 1937 ottenne la cattedra di “Storia delle dottrine politiche” all’Università degli Studi di Catania. Dopo l’inizio della seconda guerra mondiale entrò in contatto i servizi segreti britannici e la notte del 10 giugno 1943 attuò con successo un attentato all’aeroporto di Gerbini in cui neutralizzò caccia tedeschi, distrusse bombe, armi e munizioni e dando così la possibilità agli anglo-americani di non trovare resistenza in quella zona dopo lo sbarco.
Successivamente si recò nelle zone tra Abruzzo e Toscana per aiutare i partigiani. Dopo aver conseguito la liberazione dai nazi-fascisti rientrò in Sicilia per continuare la sua lotta per l’indipendenza della Sicilia. Lotta iniziata anche culturalmente nel dicembre del 1942 con la pubblicazione, con lo pseudonimo di Mario Turri, dell’opuscolo “La Sicilia ai Siciliani” (nome al quale si ispira la nostra associazione) che fu il manifesto della sua idea: egli riteneva che l’ìndipendenza della Sicilia fosse il mezzo per l’emancipazione delle classi popolari.
Nel 1945 costituì l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia che si contrapponeva alle forze militari che occupavano l’isola e che avrebbe dovuto condurre la Sicilia insieme al M.I.S. (Movimento per l’indipendenza della Sicilia) all’indipendenza.
Non riuscì a portare a compimento il suo ideale politico di liberazione perché la mattina del 17 Giugno 1945 fu ucciso insieme ad alcuni militanti dell’E.V.I.S. in un agguato teso dai carabinieri in contrada Murazzu Ruttu a Randazzo,dove oggi sorge un monumento commemorativo a loro dedicato.
Antonio Canepa oggi è sepolto, insieme a Carmelo Rosano, Giuseppe Lo Giudice e Francesco Ilardi, nel cimitero di Catania nel viale degli Uomini Illustri.
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