Pietro Silvio Rivetta di Solonghello, noto anche con lo pseudonimo di Toddi (Roma, 8 luglio 1886 – Roma, 1º luglio 1952), è stato un giornalista, scrittore, illustratore e cineasta italiano.
Membro di una famiglia aristocratica di conti originari di Solonghello, nel Basso Monferrato[1], nacque da Vittorio e Chiara De Blasio. Compagno di classe del critico teatrale Silvio D’Amico[2] il conte Rivetta si laureò in giurisprudenza ed esordì come giornalista al quotidiano romano La Tribuna nel 1906.
Nel 1910 trovò impiego all’ambasciata italiana a Tokyo. Tornato in Italia, nel 1913 collaborò a L’Epoca, e successivamente collaborò a Noi e il mondo e a La Tribuna illustrata. Poliglotta, il Rivetta conosceva ben 14 lingue, tra cui il cinese e il giapponese. Appassionato della cultura orientale, ottenne la cattedra di docente di lingua e cultura giapponese e cinese presso il Regio Istituto Universitario Orientale di Napoli.
GIOVANNI GENTILE E IL PROFESSOR PIETRO SILVIO RIVETTA TODDI ACCOLGONO L’AMBASCIATORE GIAPPONESE TOSHIO SHIRATOR
Pubblicò inoltre numerosi volumi riguardanti la cultura, la grammatica e la storia del paese nipponico.
Personalità poliedrica, Rivetta si cimentò nel cinema, con la direzione del film Il castello dalle cinquantasette lampade (1920) e in seguito con la creazione a Roma della casa di produzione Selecta-Toddi nel 1922, dove fu principale regista e soggettista con lo pseudonimo Toddi, affiancato da sua moglie, la vignettista russa Vera D’Angara, «prima attrice» e anch’ella soggettista della casa.
Attiva per poco più di un anno, la Selecta-Toddi produsse complessivamente 12 pellicole, come “L’amore e il codicillo”, “Fu così che…” e “Italia, paese di briganti?”. Tra gli attori che lavorarono nella casa vi furono Diomira Jacobini, Giuseppe Pierozzi, Mario Parpagnoli, Renato Malavasi e altri.
Nel 1926 fu nominato reggente consolare in Giappone. Nel 1927 passò a Il Tevere, nel 1929 fu direttore della rivista satirica Il travaso delle idee e in seguitò collaborò con Il Popolo di Roma.
Nel corso degli anni trenta collaborò all’EIAR, e alla radio Rivetta ideò e condusse un programma radiofonico, L’ora del dilettante le cui trasmissioni partirono nel 1939 e che fu uno dei più popolari del periodo antecedente alla seconda guerra mondiale.
In precedenza Rivetta aveva ideato e condotto, insieme ad Achille Campanile, un altro programma radiofonico dal titolo Il mondo per traverso, ove narrava al pubblico le curiosità incontrate durante i suoi numerosi viaggi all’estero.
Nel 1940 il film Validità giorni dieci diretto da Camillo Mastrocinque, il cui soggetto era tratto dall’omonimo romanzo di Rivetta, ottenne un discreto successo di pubblico e di critica.
Nel 1941 fu direttore della rivista mensile italo-giapponese Yamato, organo della Società degli amici del Giappone fondata nel medesimo anno[4].
Sempre agli inizi degli anni quaranta, istituì a Roma la “Scuola del Benessere Integrale”, fondata sul principio del minimo sforzo e del massimo rendimento. Rivetta infatti fu tra i padri della demodoxalogia. Al termine della guerra fu docente alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma.
Scrittore molto fecondo e attivo fino ai primi anni del dopoguerra, Rivetta pubblicò numerosi volumi, inerenti per la maggior parte alla storia e cultura giapponese, ma anche manuali linguistici e divertenti libri in cui “giocava” con le regole grammaticali della lingua italiana, e altri scritti in varie lingue.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
I viaggi del Conte Pietro Silvio Rivetta, in arte Toddi
Nel 1921 in un albergo di via Basilicata a Roma, l’Hotel Elite et des Etrangers, il poeta Gino Gori aveva messo in piedi una sala di Cabaret, facendola decorare da Depero e dandole per nome La Bottega del Diavolo.
Il cabaret era composto da tre sale: Paradiso, in alto, Purgatorio, in mezzo, Inferno, sottoterra. Vi si esibivano in originali sketch e curiosi giochi, fatti con immaginifiche invenzioni (come il vatefonelettronico, una misteriosa ‘macchina calcolatrice di poesia’), ma anche in recital di poesie e messinscene, scrittori e artisti del futurismo italiano: il patron Gori, Luciano Folgore, Massimo Bontempelli, Massimo Prampolini, Filippo Marinetti e il Conte Pietro Silvio Rivetta, in arte Toddi.
Quest’ultimo, amante più degli altri delle stranezze e delle possibilità combinatorie della lingua italiana (suo è uno dei primi libri di Enigmistica scritti in Italia), nonché delle originali proprietà paesaggistiche e monumentali delle città italiane, lasciando ogni tanto il teatrino romano con i suoi giochi dinamici e avveniristici, si dedicava a giri per la penisola alla ricerca dei luoghi dalle caratteristiche curiose e strane.
Dai racconti di una serie di viaggi in Italia effettuati da Toddi dalla fine degli anni 20 ai primi anni 30, venne fuori un libro dal titolo Itinerari bizzarri, pubblicato da Ceschina, nel 1934.
Tra i luoghi visitate da Toddi per la compilazione della sua geografia dell’Italia insolita e curiosa parecchi sono quelli siciliani e ad aprire il libro è la descrizione di Isola delle Femmine.
Toddi ne fa un simpatico bozzetto: ‘Isola delle femmine non è un’isola e non vi sono femmine più che altrove. Ma che importa? Se si inviano cartoline illustrate, di qui, ciascuna di esse dà al destinatario l’impressione che il mittente abbia compiuto una avventurissima gita nel paese delle Amazzoni. Invece, a Isola delle Femmine si arriva comodissimamente in treno o in auto, da Palermo, costeggiando per venti minuti soltanto la sponda meravigliosa.
Non lontano dal piccolo centro palermitano, Toddi, freneticamente impegnato sia come giornalista e direttore del Travaso delle Idee, sia come saggista e autore di manuali scolastici, sperimenta quale pace può dare Monte san Giuliano, piccolo paesino in provincia di Trapani, che nella sua tanto alta quanto isolata postazione sembra ‘volersi difendere dal contagio della modernità’: attraversato da uomini con mantelli che finiscono in un cappuccio a forma di elmo e da donne avvolte in manti di seta nera, sembra di stare, annota Toddi, ‘tra ombre del passato che scivolano senza rumore nel silenzioso paese del mistero.
Ma la scoperta più curiosa Toddi la fa a Randazzo, grosso centro alle pendici dell’Etna, che per una sua specifica particolarità gli sembra ‘la città della perfezione.
Infatti, osserva Toddi, a Randazzo ovunque domina ed emerge il numero tre, che è appunto il simbolo classico della perfezione:
tre sono le cattedrali, ognuna delle quali esercita la funzione di Chiesa Madre a turno per tre anni; in tre copie sono gli oggetti sacri posseduti dalle tre chiese; addirittura capitò, scrive Toddi che nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la Chiesa di San Nicola – che funzionava da Cattedrale del triennio – celebrò solenne funerale; ma, dato il caso specialissimo, anche le altre due chiese vollero celebrare il suo: e i funerali furon tre.
Spiega Toddi: ‘Questa tripartizione, corrispondente a tre rioni, si connette con l’origine di Randazzo, città composta da tre diverse popolazioni che, sino al XVI secolo, parlavano ancora tre dialetti diversi’.
E se a Randazzo dedica un ampio capitolo del suo libro, ricostruendone storia, costumi e feste, non meno intrigante e strana gli appare l’area dello Stretto di Messina, carica di racconti mitici come quello di Scilla e Cariddi ( ‘Scilla è calabrese, Cariddi siciliana: forse perciò più turbolenta, ché più prossima a terra vulcanica: può mettere davvero in pericolo le imbarcazioni’), e leggendari come le vicende di Cola Pesce.
Ma al di là di questi e altri aspetti bizzarri che simpaticamente Toddi poteva cogliere vagando per la Sicilia (magari rivelando che Caltanisetta detiene il record della lunghezza onomastica provinciale essendo composta da cinque sillabe) e che tanto interessavano la gran parte dei suoi lettori (appassionati di rebus ed enigmi), agli stessi, e a un vasto pubblico nazionale, lo scrittore romano elencava i tanti aspetti di pregio di luoghi ancora poco noti, della Sicilia del primo novecento: la torre dell’isolotto di Isola delle Femmine, gli stupendi panorami di Monte San Giuliano da dove si può avvistare il Capo Bon della Tunisia, il magnifico e raffinato Museo Vagliasindi di Randazzo, pieno di rari e prestigiosi manufatti dell’antichità greco-romana.
Nel Libro ” Itinerari bizzarri – Curiosità italiche ” il Toddi scrive un intero capitolo ( XVI , pag 175/185) sulla nostra città intitolandolo: ” LA CITTA’ DEL 3 ” che qui riportiamo integralmente, ringraziando Salvatore Grasso per avercelo prestato.
LA CITTA’ DEL 3
Un laghetto periodico – La prediletta dell’Etna – Un parente di Ernani Involami – Le viventi statue digiune – il tempo è relativo .
Se – come afferma un detto latino non aureo ma secolare – omne trinum est perfectum – la città della perfezione è sulle pendici settentrionali dell’Etna: Randazzo.
Una locale tradizione vuole che Randazzo sia << città >> a causa di una illusione ottica di Carlo V: l’Imperatore, vedendo da lontano tre merlati campanili, li prese per importanti castelli e domandò: ” Come si chiama questa città che ha tre si dei castelli ? “
I notabili randazzesi, gongolanti per l’abbiglio preso dall’Imperatore, acciuffarono la bella occasione e ringraziarono Sua Maestà Cesarea per il titolo di << città >> che egli si era compiaciuto di conferire a Randazzo.
Ciò sarebbe avvenuto, secondo la tradizione, presso quel bizzarro lago di Gurrida il quale esiste solamente una parte dell’anno: in estate si asciuga e diventa pascolo.
Per trovare un altro lago periodico dobbiamo recarci all’estrema frontiera orientale d’Italia, nella Venezia Giulia, oltre Postumia, ove il lago Circonio è periodico anch’esso: il grande lago – che sol per un piccolo lembo è in territorio italiano, e gran parete in Jugoslavia – d’estate è coltivato a grano, chè le acque sono scomparse, inghiottite da caverne e pozzi.
Ma l’episodio di Carlo V sulle periodiche sponde del laghetto di Gurrida è pura leggenda: una delle tantissime che fioriscono qui: sgorgano e si solidificano come i getti di lava i quali nereggiano, a larghe strisce paurose.
Randazzo è la città più vicina al cratere dell’Etna: ne dista appena 15 chilometri. L’audacia di queste case medievali, ricamate di bifore e solide nelle mura massicce, non ha irritato il vulcano, il quale ha sempre risparmiato Randazzo, inerpicata a mezza costa da epoca remotissima.
Era certamente già << città >> – con onori ed oneri – nell’epoca in cui sarebbe avvenuto l’episodio di Carlo V. Negandolo, sicchè, non le si toglie nulla: anzi !
Che Randazzo sia di origine assai antica è fuori dubbio: che tutto il vicinato sia regione ricchissima di cimeli attici, sicelioti, italioti, è documentato dalla mirabile collezione del Museo Vagliasindi: ma la bella fantasia linguistica si è sbizzarita nelle più stravaganti filiazioni per stabilire la paternità del nome di Randazzo.
E’ vero che la temerità etimologica non ha confini: e non si basa su una calunnia l’epigramma del cavalier Jacques de Cailly contro Gilles Mènage:
Alfana vient d’equus san doute:
mais il faut avouer aussi
qu’en venant de là jusqu’ici
il a bien changè sur la route!
Se il pedante maestro di Madame de Sèvignè riusci a far discendere alfana da equus, non c’è da stupirsi che si sia voluto far derivare Randazzo del Tiracium di cui parla Plinio (III, 91).
La foto dell’oinochoe presente nel libro di Toddi
Tra questa e altre etimologie – elleniche, latine o bizantine, collegate a nomi geografici o personaggi – assai sensata ci sembra l’opinione popolare: randazzu, in dialetto locale, non significa forse << grande, grandioso >>?
Ebbene: Randazzo è randazzu.
La grandiosità, Randazzo la conserva ancor oggi, pur semidiruta com’è, mentre si avvia a risurrezione per un intelligente piano regolatore, una bella strada che abborderà l’Etna per congiungersi a quella che ascende da Catania.
Saran messi in valore tutti quei gioielli d’arte che qui si incontrano ad ogni angolo: bifore, colonnine agili, rosoni, palazzi maestosi che han l’aspetto di maniero, portali ingenui di botteghe medievali.
La V òlta di S. Nicolò, o via degli Archi degli Uffizi, è – pur cosi com’è ora – un idillio storico-pittoresco: quattro archi allineati su la viuzza stretta, in pietra cupa allineata da ciuffi vegetali: a sommo di una bifora ad esile colonnina tòrtile, forma giocondo irsuto pennacchio pallido un’acrobatica agave in cerca di sole.
Randazzo è << la città del tre >>. Cosi può chiamarsi questa bizzara cittadina in cui, ancor oggi, prosperano tre cattedrali.
Tutta la storia di Randazzo è, fondamentalmente, la storia della rivalità tra chiese: Santa Maria, S, Nicola, S. Martino.
Aspetto austero, esternamente, conserva la trecentesca Santa Maria, dalla poderosa struttura in lava: una lapide nella sacrestia che la costruzione cominciò nel 1215:
mille duecento decem quinque septena fluebant
tempora post Genitum Sanctae deVirgine…
Il resto della lapide è enigmatico o addirittura enigmistico e menziona, come artefice, un Leo Cumier del quale non si ha notizia.
Probabilmente questo Leo Cumier non è mai esistito: fu un Leo non meglio identificabile, chè, in vece Cumier, va letto culmine….
Il Leo Culmier menzionato autorevolmente da alcuni storici sarebbe sicchè un personaggio simile al Re Tappella o ad Ernani Involami.
All’altro estremo della città, presso il palazzo Ducale, è la chiesa di S. Martino, troppo rimaneggiata in varie epoche, ma che ha, salvo, un meraviglioso merlato campanile trecentesco in lava, con bifore e trifore che la lava e la pietra calcare pallida zèbrano graziosamente.
Fra le due chiese, nel centro della città, è la << statua di Randazzo vecchia >>, bizzarra figura umana che la compagnia di un’aquila, un serpente e un leone rendono sibillina.
Sono ancora tre curiosi simboli, in questa strana città ove domina il numero 3.
Scrive Toddi: ….giocondo irsuto pennacchio pallido, un’agave in cerca di sole”. Randazzo Via Archi degli Uffizi.
Chi sa con quali argomenti reconditi, si vuole che la statua sia la veridica effigie del ciclope Pyracmon. Del resto anche Virgilio ci fornisce pochi connotati di lui: ci dice (Eneide, VIII, 425) che fosse nudus: e questo Pirammone è nudo.
Il pudore delle autorità randazzesi gli ha donato una metallica foglia.
Non ci fu modo, attraverso secoli, di conciliare con un compromesso qualsiasi le tre chiese, si che una sola- come ovunque altrove . fosse la cattedrale.
Perciò anche oggi le cattedrali sono tre: ognuna per un triennio, a turno.
E nessuna delle tre cede all’altra, nemmeno come primato artistico: ognuna possiede una ricca mazza pastorale, tre copie dello stesso lavoro. E cosi per i calici ed altri oggetti dei tre tesori.
Poco più che un secolo fa, nel 1824, alla morte di Ferdinando I, la chiesa di S. Nicola – che funzionava da cattedrale del triennio – celebrò solenne funerale: ma, dato il caso specialissimo, anche le altre due chiese vollero celebrare ciascuno il suo: e i funerali furono tre.
Questa tripartizione, corrispondente a tre rioni, si connette con l’origine di Randazzo, città composta da tre diverse popolazioni che, siano al XVI secolo, parlavano ancora tre dialetti diversi.
Non c’è da stupirsi che avessero tre cattedrali, tre vescovi…
Unica, però, è la bara, strano appellativo – che nulla ha di funebre – di un singolare altissimo trofeo recato in processione nella festa dell’Assunzione: l’armatura, di legno e ferro, alta 20 metri e rivestita di cartone variopinto, sorregge figure simboliche viventi: sono fanciulli vestiti da pretoriani, martiri o angeli, legati a un grosso tamburo rotante.
I ragazzi – martiri tutti, anche se vestiti da pretoriani – dovrebbero soffrire di mal di mare, per il rotar del tamburo cui son legati: ma non c’è pericolo: per un paio di giorni sono stati tenuti prudentemente a digiuno.
Se la Randazzo medievale lascia un ricordo indimenticabile, una impressionabile non meno forte, diversa.
L’archeologo, con occhi cùpidi, ammira quella ricca collezione di vasi, tra i quali la celebre oenochoe raffigura il mito dei Boreadi che liberano Fineo, re di Salmidesso, dalle Arpie.
Intatto e perfettamente conversato, nella vernice neppur screpolata, è questo recipiente con cui si attingeva il vino dal kratèr per versarlo nel bicchiere, ventiquattro secoli or sono.
Nel mondo d’oggi non ne son rimasti che tre, raffiguranti questo mito finèide: ma la pittura della oenochoe Vagliasindi supera le altre per bellezza.
Superano anche, in finezza di fattura i gioielli di qualunque museo di Europa quelli che son racchinosi nelle vetrine, qui, presso la finestra che si apre sulla valle dell’Alcàntara, la quale custodisce ancora chi sa quanti altri tesori.
Il proprietario del Museo, podestà di Randazzo, ti mostra con legittimo orgoglio pithi e olpe, aryballi e trulle, helike e anelli: grossi recipienti di argilla, con coperchi a chiusura perfetta quanto quelli dei modernissimi thermos.
Ma soprattutto ti commuovono i piccoli vasi che ornarono la tavola di toletta delle belle dame, più che duemilaquattrocento anni or sono.
Insinuando le dita nell’ansa graziosa, questa ti sembra ancor tepida, per il calore della mano giovane e bella che la teneva.
Le teorie einsteiniane affermano che il tempo è una nozione << relativa >>. Oltre Einstein lo dice, con più efficacia, anche la storia, quando la storia diventa bellezza e poesia.
Randazzo, febbraio 1934, XII.
Alcune pubblicazioni di questo strano, ma interessante personaggio.
PIETRO SILVIO RIVETTA
” Non tutto il male viene per nuocere ? Bugia !
Ogni male viene per nuocere. Se produce qualche beneficio , è un male fatto male “.
A cura di Francesco Rubbino