Paolo Vagliasindi Polizzi, fu l’uomo cui si deve l’esistenza del Museo archeologico di Randazzo.
Nato nel 1838, e nipote dell’omonimo abate Paolo Vagliasindi, storico e confutatore delle tesi del Plumari, pur non essendo un “esperto”, era tuttavia un appassionato dell’arte e dell’antichità classica, mente aperta e uomo di grande generosità. Per merito suo infatti fu possibile il riscatto del Convento dei Cappuccini, che nel 1866 era stato incamerato dallo Stato a seguito delle legge per la soppressione delle corporazioni religiose. Quando i beni ecclesiastici furono messi all’incanto, il Vagliasindi riacquistò il Convento per restituirlo successivamente all’Ordine.
Ma Paolo Vagliasindi rifiutò fermamente ogni offerta, soprattutto per la cessione del bellissimo e raro oinochoe, vaso per la mescita del vino in terracotta, decorato in rosso su fondo nero, e raffigurante il mito dei Boreadi, perché volle fortemente che la collezione restasse a Randazzo. Anzi, destinò alla raccolta una sala del suo palazzo, rendendola fruibile ai visitatori. Nel 1904 la collezione Vagliasindi fu esaminata e catalogata dal professor Giulio Emanuele Rizzo, Ispettore del Museo nazionale di Roma, che relazionò poi in una breve pubblicazione.
Alla morte di Paolo Vagliasindi, nel 1913, la collezione rimase affidata al figlio Vincenzo, ma fu seriamente danneggiata dai bombardamenti del 1943, che squarciarono il palazzo; molti pezzi andarono distrutti o saccheggiati, altri furono recuperati dai Padri Cappuccini dei vicino Convento, per essere esposti negli anni ’60 in una sede provvisoria presso la Casa di riposo di Randazzo. Solo nel 1998, restaurati e catalogati, hanno trovato degna dimora nel Castello di S. Martino.
Ma il suo nome è rimasto legato alla storia di Randazzo a seguito di un episodio fortuito, che sembra quasi leggendario: tutto cominciò, quando una contadina, prestando il suo lavoro nel feudo di S. Anastasia, proprietà di Paolo Vagliasindi a circa 6 km da Randazzo, s’imbatté casualmente in un piccolo oggetto d’oreficeria, che corse a consegnare al proprietario del fondo. Egli intuendone l’origine, intraprese una prima serie di scavi, in concomitanza con i lavori colturali, e vide materializzarsi poco a poco una vera e propria necropoli.
Una volta sparsa la voce, la Direzione delle Antichità di Palermo prese contatti col Vagliasindi, e furono condotte delle regolari campagne di scavi nel territorio di S.Anastasia e Mischi, dirette nel 1889 dal Salinas e vent’anni dopo da Paolo Orsi: vennero alla luce altre tombe e corredi funerari, monete, vasi, anfore, utensili, gioielli, statuette, ascrivibili al IV-V sec. a.C. In base alle norme vigenti, però, la stragrande maggioranza dei reperti dovettero essere ceduti al Museo Nazionale di Palermo e a quello Archeologico di Siracusa.(M.D.)