RIVOLUZIONE POPOLARE: 1647
Per le vessazioni dei vari Viceré Spagnuoli, a 20 maggio 1647, scoppiarono furiose sollevazioni popolari, in Palermo ed in altri paesi della Sicilia, che durarono per sei mesi continui e ve ne furono molto fatali per le conseguenze.
Il 7 luglio scoppiò a Napoli quella celebre Rivoluzione che prese il nome di Masaniello, dal pescivendolo Tommaso Aniello che ne fu il capo e che durò sino al mese di novembre, con conseguenze non meno fatali di quelle scoppiate in Sicilia (vedi Cronologia Compendiata).
Anche la Città di Randazzo, ad esempio delle altre primarie del Regno, soffrì l’invasione dello Spirito Rivoluzionario ed, il 16 luglio, di martedì, il popolo a suon di tamburo inalberò la Bandiera della insurrezione al grido di Viva il Re e muoiano i ladri.
Il primo atto di questo doloroso dramma fu quello di appiccare il fuoco all’Archivio del Notaro Pietro Dominedò, dove si conservavano tutti i Documenti dei Contratti di Mutuo che moltissimi avevano avuto concesso dal ricco proprietario D. Giovanni Romeo che, in quel tempo occupava la carica di Sindaco della Città.
Ed attesocchè il Palazzo di costui era pieno di oggetti preziosi, di oro, argento, di molto denaro e di una grande quantità di seta, il popolo ignorante e crudele gli appiccò il fuoco col satanico desiderio che, insieme alle ricchezze perisse anche il Padrone.
Accorsero subito i Cappuccini del locale Convento per smorzare l’incendio e per trovare il modo di salvare la persona del Sindaco.
Ottennero pertanto dal popolo furente il permesso di salvare quelle balle di seta che poteano contrastare alle fiamme e portarsele al Convento come elemosine.
In uno di questi sacchi occultarono il Sig. D. Giovanni Romeo che anche lui fu calato dalla finestra.
Per il gran rispetto che i Cappuccini riscuotevano, trovarono subito alcuni volenterosi tra gli insorti che li aiutarono a trasportare quel materiale al Convento.
Ma giunta la Carovana vicino al Castello delle carceri i portatori si accorsero che in uno di questi sacchi invece di seta eravi un uomo: per chiarire il fatto trasportarono tutte le balle entro il carcere ed, avendo scoperto il Padrone del palazzo D. Giovanni Romeo, lo fecero rinchiudere nel Castello.
Così questo Signore deve all’intervento tempestivo dei Cappuccini aver avuta salva la vita ed evitata una fine così orribile.
Contemporaneamente il popolo arrestava il Capitano d’Arme della Valle accorso per impedire che l’incendio avesse distrutto tutto il Palazzo.
Tutta la Nobiltà del paese, insieme ai Giurati ed ai Magistrati della Città ripararono nel Convento dei Conventuali di San Francesco e nel contempo spedirono un espresso perché ne rendesse edotto il Regio Governo degli avvenimenti.
Riunitisi pertanto gli insorti, ad istanza di un certo Di Pino Francesco che fungeva da capo nel Piano della Chiesa di S. Nicolò elessero quali rappresentanti della Città nei quali dichiaravano di aver fiducia: n. 6 Nobili, uno del Ceto dei Civili e 5 del Ceto Artigiano i nomi dei quali, come gli altri dettagli di questa insurrezione, ci vengono tramandati dai nostri scrittori di storia Patria.
— I Nobili furono: Dott. D. Giuseppe Maria Romeo – Geronimo Prescimone – Matteo Leone – Lattanzio Giunta – D. Francesco Rugiades – D. Antonio Romeo, Regio Secreto.
— Del Ceto Civile: Diego Renda proprietario.
— Tra gli artigiani: Maestro N. O. Pietro Marotta – Mastro Angelo Lo Giudice – Mastro Francesco Castellano – Mastro Nicolò Bonanno e Mastro Giuseppe Morana.
Da principio i Primati della Città che erano rinchiusi nel Convento di S. Francesco non volevano confermare tale illegale elezione, ma poi fatto senno, l’approvarono con lo scopo di poter pacificare la Città.
E non si opposero al vero perché i sei Deputati Nobili fecero opera di persuasione presso il popolo perché si acquietasse; ciò che ottennero.
Senonché l’indomani qualcuno che voleva pescare nel torbido sparse la voce che varie compagnie di Cavalleria stavano per giungere a Randazzo.
Vi fu nuovo fermento nel popolo a stento sedato dai Deputati eletti dallo stesso i quali promisero che sarebbero usciti dalla Città e, nel caso avessero incontrato tali compagnie, le avrebbero fatte tornare indietro.
Partirono pertanto coi Deputati Nobili anche il Padre Bonaventura Fisauli figlio del fu Santoro, Religioso Paolino, il Sac. D. Tommaso Roccella ed il sopradetto Francesco Di Pino i quali non incontrarono nessuno, ma seppero che a S. Piero Patti eravi il Regio Vicario Generale del Regno, illustre D. Muzio Spatafora Messinese, Marchese di Spatafora, di S. Martino, di Venetico ecc, il quale, con gran quantità di Truppe, era in giro per quietare le Città e Terre in rivolta.
Avviatisi alla volta di S. Piero, vennero a conoscenza che il Regio Vicario Generale era già partito per Montalbano perciò cambiarono il loro itinerario e andarono a Montalbano per chiedere al rappresentante del Governo l’Amnistia per il popolo che ormai era rientrato in pace, ciò che egli promise, appena avesse avuto l’assicurazione che il buon ordine fosse tornato e per intanto sospendeva l’invio delle Compagnie.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno 17 alcuni popolani arrestavano Filippo Lanza impiegato alla Curia, Placido Palermo e Mariano Lardino Esattori delle Regie e Civili gabelle e, spogliatili, li trascinarono con vituperio per le strade fermandoli poi in luogo di frusta dinanzi al Castello.
Per questo motivo tutta la Nobiltà insorse ed insieme ai Sacerdoti e Chierici dell’uno e dell’altro Clero assieme ai Maestri Artigiani impugnarono le armi per atterrire quel pugno di facinorosi e farli desistere dagli eccessi.
Ma un altro doloroso fatto tragico venne ad aggravare la situazione.
Il giorno dopo, cioè il 18, un certo Salvatore Indelicato davanti alla Chiesa di S. Maria delle Grazie, detta anche di S. Ignazio, tirò una fucilata contro il Capitano Giustiziere della Città Ferdinando Santafè, per fortuna andata a vuoto, ma un servo del Capitano fu pronto a spianare il suo fucile contro lo sparatore ferendolo gravemente alle spalle.
Di un subito il popolo si levò e, saputo dello attentato contro il Capitano, vogliono fare giustizia sommaria dell’Indelicato, al grido di “sia appiccato per la gola questo infame ribelle di Sua Maestà”; afferrato quindi il mal capitato e trascinandolo per la Città lo fermarono dinanzi alla casa Municipale, per appiccarlo alle Forche.
Chiamato un Sacerdote lo fanno confessare e dopo lo spingono sulle scale del Patibolo.
Mentre però stanno per eseguire la sentenza, ecco arrivare a cavallo e con la Verga della Giustizia in mano, il Capitano della Città, accompagnato da altri Nobili anche a cavallo, tutti armati e seguiti dagli Artigiani anch’essi armati a tutto punto, di armi da fuoco e armi bianche, al grido di Viva il Re.
Gli improvvisati Boia si fermano ed il Capitano esorta il popolo a desistere, mentre egli prende l’impegno di denunziare il reo al Regio Governo dal quale previo il processo giudiziario, dovrà ricevere il meritato castigo.
L’Indelicato quindi non vi lasciò la testa, ma trasportato al carcere ivi dopo alcuni giorni lasciò la vita a causa della ferita mortale riportata.
Dopo ciò il popolo, preso il Ritratto del Re Filippo IV°, lo portarono in trionfo per tutta la Città al suono di tutte le Campane delle Chiese Parrocchiali, e, col concorso del Capitano con tutti i Ceti Cittadini, lo collocarono sopra la Porta Maggiore della Chiesa di S. Nicolò, sotto un baldacchino con festoni e illuminato da torce di cera accese, guardato di giorno e di notte da sentinelle.
Nell’interno della Chiesa non si lasciò di cantare dall’Arciprete del tempo Don Vito La Manna un solenne Te Deum con l’orazione Pro Rege, presenti tutte le Autorità ed un popolo immenso.
Il 19, venerdì, ritornò da Montalbano solo il Sac. D. Tommaso Roccella, latore di una Lettera del Regio Vicario Generale e diretta agli Spettabili Li Giurati, nella quale si diceva che per accordare l’Indulto richiesto dal popolo e un generale perdono era necessario fossero restituite ad pristinum tutte le Gabelle e i Regi Donativi e fossero scarcerati subito il Capitano d’Arme e Don Giovanni Romeo proprietario del palazzo bruciato e salvato da orribile morte da Cappuccini.
I popolari non erano tanto proclivi ad aderire alla richiesta per la parte tributaria ed i Giurati e Nobili della Città dovettero fare rilasciare dai rispettivi Collettori e Gabellotti le quietanze attestanti che le Gabelle, Tante e Regi Donativi erano stati pagati dal popolo il quale in verità non aveva pagato nulla, così pure si misero in libertà i prigionieri.
L’indomani, giorno 20, il Sacerdote Roccella ritornò a Montalbano per portare al Regio Vicario le testimoniali della avvenuta scarcerazione del Capitano e del Sig. Romeo e del pagamento dei tributi, ma il Regio Vicario, per eliminare ogni suo dubbio sulla scarcerazione dei sopradetti, volle che essi fossero andati alla sua presenza.
Sicchè la domenica, giorno 21, essi si portarono a Montalbano e l’Indulto e il generale perdono furono accordati, con l’esclusione di qualche capo dei Ribelli che sarebbe emerso dal processo.
Il lunedì poi tornarono tutti a Randazzo: I Nobili deputati col Padre Bonaventura Fisauli, il Sacerdote Roccella e il nominato Francesco Di Pino portando l’Indulto che, nello stesso giorno alle ore 22 dell’ora Italiana fu pubblicato dinanzi alla porta maggiore della Chiesa di S. Nicolò presenti le Autorità tutte della Città e del Popolo, come appare dalla lettura del medesimo Indulto presentato in detto giorno 22 presso l’ufficio Giuratorio di Randazzo.
Dall’Indulto erano stati esclusi il Salvarore Indelicato e i Capi dei ribelli autori primari degli incendi.
Così il popolo si acquietò e si cominciò a gustare la pubblica tranquillità.
Il giorno seguente cioè il martedì 23 luglio, i Nobili Cittadini D. Francesco Spatafora Principe di Maletto e Marchese di Roccella e D. Corrado Lanza Barone di Malvagna si recarono nel Convento di S. Francesco ove ancora si trovavano ricoverati i Nobili, per comunicare loro che il Regio Vicario Generale in una lettera significavagli che era costretto quanto prima trasferirsi a Randazzo.
Perciò si domandava l’opera loro perchè si potesse disporre il popolo ad un pacifico ricevimento.
Fattane parola con i vari popolani fu necessario superare tante difficoltà per poter stabilire finalmente l’accordo di lasciarlo entrare, ma con quella minor parte di seguito che fosse possibile.
Giovedì, 25 luglio, nella Chiesa Parrocchiale di S. Nicolò si tenne un Civico Parlamento per l’abolizione di tutte le Gabelle, Donativi e Tante e si conchiuse invece che i Cittadini dovessero pagare le decime sui propri introiti.
Nello stesso Consiglio si diede mandato a Mastro Giuseppe Marotta di recarsi a Palermo presso il Vicerè per ottenere l’approvazione di quanto si era deciso, e così la mattina del venerdì egli iniziò il suo viaggio per la Capitale.
Il sabato finalmente 27 luglio, nel tardo pomeriggio cavalcando l’Illustre D. Giovanni Spatafora e D. Corrado Lanza che erano usciti ad incontrarlo, per la Porta Orientale entrò in Città il Regio Vicario Generale D. Maurizio Spatafora Cittadino di Messina Marchese di Spatafora ecc. accompagnato da sei Compagnie di Capitan d’Arme comandate:
– la prima dal Capitano D. Giuseppe Ossario Palermitano;
– la seconda dal Capitano D. Giuseppe Banchisenese da Messina;
– la terza dal Capitano D. Cesare il Boggio Palermitano;
– la quarta dal Capitano D. Diego Spinales Spagnolo;
– la quinta dal Capitano D. Pietro Branciforte Palermitano;
– la sesta dal Capitano nostro Concittadino D. Matteo Arces elevato al Grado di Capitan d’Arme a Guerra dal Regio Vicario Generale.
Le trombe, due per ogni Compagnia di cento soldati per ognuna, suonando apportavano terrore e spavento a tutti i Cittadini.
Oltre a queste sei Compagnie erano ancora tre Reggimenti di truppa regolare di fanteria, ognuno dei quali portava inalberata la Bandiera ed alcuni cannoncini di campagna, trasportati a dorso di muli:
– il primo Reggimento era comandato da D. Pietro Ficcardo Palermitano;
– il secondo da un certo Piccoli Villano di cui non fu tramandato il nome;
– ed il terzo da uno Spagnuolo di cui non si conobbe il nome.
Veniva in ultimo un Corpo di Guardia di Cavalieri Spagnoli per scorta.
Per otto giorni il Regio Vicario fu ospite nel Palazzo del suo consanguineo Principe di Maletto, sito nel Piano della chiesa di S. Nicolò; per il resto del tempo di sua permanenza in Randazzo, fu ospite nel Palazzo dell’Illustre D. Pietro Antonio Romeo Barone del Castello di S. Alessi.
Quando il Regio Vicario Generale giungeva in Città, molti del popolo ebbero paura e se ne fuggivano in campagna.
Furono messe pertanto le sentinelle a tutte le Porte della Città mentre uno squadrone di Cavalleria Spagnola girava per le vie di giorno e di notte.
Durante questo tempo si instituì una istruttoria e quindi un processo, che portarono all’arresto fra gli altri, dei sottoindicati:
1) Vincenzo Rubino – 2) Mastro Andrea Buttà – 3) Mastro Giuseppe La Chiana – 4) Michele Basile – 5) Mastro Giovanni Antonio d’Aspero alias Barbazza – 6) Francesco chiamato Cicco Di Pino – 7) Geronimo Magnera alias Mastro Cesare.
Altre persone arrestate, dopo la loro deposizione, furono messi in libertà.
Dopo tredici giorni di istruzione e processo fu emanata la seguente sentenza:
“Cicco Di Pino e Mastro Cesare condannati a morte: il primo perchè risultò essere il capo dei ribelli e direttore del movimento; il secondo riputato anch’egli capo ribelle per avere suonato il tamburo per suscitare la rivoluzione”.
Come tali, l’indomani della condanna il 9 agosto 1647, furono messi alla forca sulla pubblica piazza:
Il Di Pino nella Piazza di S. Maria, sotto la casa di D. Filippo Romeo ed il Mastro Cesare nella Piazza di S. Martino, vicino al Palazzo incendiato di D. Giovanni Romeo, un tempo chiamato il palazzo di Angotta.
Due giorni dopo di questa esecuzione capitale, per ordine dello stesso Regio Vicario Generale, venne pubblicamente frustata e poi esiliata una donnetta chiamata la Bellina Forestiera.
Finalmente, a preghiera del Principe D. Corrado Lanza e degli altri Nobili della Città, il Regio Vicario estese l’Indulto a tutti gli altri arrestati per cui furono scarcerati.
Il giorno 28 agosto XVª Indizione 1647, il Vicario se ne partì dalla nostra Città con tutto il suo seguito, lasciando nei Cittadini una buona impressione.
Tutta questa storia circostanziata ci fu tramandata, nei loro manoscritti, dal decano D. Pietro Di Blasi e dal Notaro D. Prospero Ribizzi.
Padre Luigi Magro Cappuccino ( al secolo padre Santo Magro nato a Randazzo 29.06.1881 e morto 16.02.1951 la sua tomba si trova nel nostro cimitero) nel suo libro: “Cenni Storici della Città di Randazzo – 1946” al capitolo decimosettimo pagina 145/149 .
Lo stesso argomento é trattato da Daniele Palermo che lo trovi nel Sito. (clicca qui ).
La foto del titolo rappresenta Masaniello iniziatore della rivolta a Napoli.