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Tommaso Vagliasindi

Per quanti sforzi si siano fatti ben poche notizie si sono trovate di questo nostro illustre cittadino. 

 Tommaso Vagliasindi si segnala in quanto da socialista assieme ad alcuni membri della famiglia Fisauli nel 1904  si oppone all’on.le Paolo Vagliasindi 
  e nel suo più famoso libro ” Eresia “ entra in polemica epistolare con Filippo Turati.

Qui di seguito alcune sue pubblicazioni: 

 – Contro la riscossa feudale : osservazioni intorno alla politica doganale .

Editore : Niccolò Giannotta, 1903 – Catania 

 – Lavoro e capitale 

Editore: N. Giannotta, 1901 – Catania 

 – Dopo il congresso di Brescia e prima del congresso di Bologna : conferenza : Randazzo, 20 marzo 1904. 

Editore: Giannotta, 1904 – Catania 

 – Avanti! : valzer per pianoforte 
Musica a Stampa  – 
Milano : E. Nagas , [18..] 

Vagliasindi Tommaso , Turati Filippo

 – Eresia? : la bancarotta della lotta di classe ; Appendice: polemica epistolare con Filippo Turati 

Editore: N. Giannotta, 1923 – Catania

 Se avete delle informazioni per meglio conoscerlo potete inviarle all’indirizzo del sito: info@randazzo.blog oppure al numero whatsApp  3386714473 .

Federico De Roberto

 

     Federico De Roberto

Nacque a Napoli il 16 gennaio 1861, da Federico senior, ex ufficiale di stato maggiore del Regno delle Due Sicilie e dalla nobildonna di origini catanesi, ma nata a Trapani, Marianna Asmundo.[1]

Si trasferì con la famiglia a Catania nel 1870 dopo aver subito giovanissimo la dolorosa perdita del padre, travolto da un treno sui binari della stazione di Piacenza. Da allora, salvo una lunga parentesi milanese e una più breve a Roma, Federico visse all’ombra, gelosa e possessiva, di donna Marianna.[2]

A Catania si iscrisse all’Istituto tecnico “Carlo Gemmellaro”, quindi frequentò il corso di scienze fisiche, matematiche, naturali all’università: ebbe pertanto una prima formazione scientifica, alla quale affiancò presto l’interesse per gli studi classici e letterari, allargando la sua cultura al latino.

Il suo esordio letterario avvenne con il saggio Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica, pubblicato a Catania dall’editore Giannotta nel 1881. Fu presto conosciuto negli ambienti intellettuali per la sua attività di consulente editoriale, critico e giornalista sulle pagine di due settimanali che uscivano a Catania e a Roma: il “Don Chisciotte” e il “Fanfulla della domenica”. Del primo fu anche direttore dal 1881 al 1882; sul secondo scrisse dal 1882 al 1883 sotto lo pseudonimo di Hamlet.

Per l’editore Giannotta fondò la collana di narrativa dei “Semprevivi” ed ebbe modo di conoscere Luigi  Capuana e Giovanni  Verga con i quali strinse una salda amicizia. Nel 1883 raccolse in un volume dal titolo Arabeschi, tutti i suoi scritti di arte e letteratura e nel 1884 avviò la collaborazione, utilizzando il suo vero nome, con il Fanfulla della domenica, e tale collaborazione durò fino al 1900.

Un momento importante per la formazione dello scrittore fu l’incontro, durante un soggiorno in Sicilia, con Paul Bourget (1852-1935), in quei tempi molto noto per i suoi studi psicologici e per i suoi romanzi, nei quali analizzava minuziosamente le coscienze tentando di giungere ad una “anatomia morale”. Decisivo fu per De Roberto il trasferimento a Milano nel 1888 dove fu introdotto da Verga nella cerchia degli Scapigliati, e conobbe Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa e Giovanni Camerana, consolidando sempre più la sua amicizia con lo stesso Verga e Capuana. Nel periodo del suo soggiorno milanese collaborò al “Corriere della Sera” e pubblicò diverse raccolte di novelle e romanzi, fra i quali quello che è considerato il suo capolavoro, I Viceré, nel 1894.

 

Paolo Vagliasindi in Parlamento ed al Governo fu propugnatore di libertà. Immaturamente troncata l’opera sua nobilissima vivrà nella storia della sua diletta terra.

Nel 1897 ritornò a Catania, dove rimase fino alla morte, salvo brevi viaggi. A Catania ebbe un incarico come bibliotecario e visse sostanzialmente appartato e deluso per l’insuccesso della sua opera narrativa. Mentre questa tacque egli indirizzò il suo lavoro intellettuale alla pubblicistica e alla critica, tra i quali si ricordano gli studi su Giacomo Leopardi e soprattutto su Verga che giudicò sempre un suo maestro. 

Dopo la morte – 1905 – dell’onorevole Paolo Vagliasindi del Castello di cui era un grande estimatore ed amico, scrisse l’epitaffio che trovasi all’angolo del corso Umberto I con la via Regina Margherita.

Nel 1909 presso l’ Istituto Italiano D’Arti Grafiche – Editore  pubblicò ” RANDAZZO E LA VALLE DELL’ALCANTARA ” con 147 illustrazioni e I tavola ( vedi galleria delle foto).

Nel 1915, allo scoppio della prima guerra mondiale fu interventista.

Alla morte del Verga nel 1922 De Roberto riordinò in modo accurato le opere del grande scrittore ed iniziò uno studio biografico e critico che però rimase interrotto per la sua prematura morte avvenuta a Catania per un attacco di flebite il 26 luglio 1927. Perfino in punto di morte De Roberto non ebbe adeguata considerazione, poiché la sua scomparsa fu oscurata da quella immediatamente successiva (27 luglio) di Matilde Serao.

Sostenitore convinto della poetica naturalista e verista, De Roberto ne applicò rigorosamente i termini, portando alle estreme conseguenze quegli aspetti di impersonalità del narratore e di osservazione rigorosa dei fatti.

Le tecniche narrative di De Roberto sono funzionali alla narrazione impersonale ma diverse da quelle di Verga. Innanzi tutto non è presente la regressione della voce narrante nella realtà rappresentata, è presente invece, come nel Mastro-don Gesualdo, il discorso indiretto libero ma in larga misura la narrazione si fonda sul dialogo e sulla presenza di didascalie descrittive. La narrazione tende a far propria la tecnica teatrale; nella Prefazione ai Processi verbali De Roberto afferma: «L’impersonalità assoluta non può conseguirsi che nel puro dialogo, e l’ideale della rappresentazione obiettiva consiste nella scena come si scrive per il teatro».

Libri di Federico De Roberto

 


Un bel articolo di Giuseppe Giglio su Federico De Roberto.

La razza dei Viceré

«La storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono, e saranno sempre gli stessi», mormora il principe Consalvo Uzeda di Francalanza all’arcigna zia Ferdinanda (un’irredimibile usuraia), in chiusura de I Viceré, il capolavoro che Federico De Roberto licenziò nel 1894, anticipando tanta letteratura europea che avrebbe raccontato il Novecento: quel secolo inquieto e feroce che è cominciato nell’Ottocento, e che ancora non è finito.
E con I Viceré il grande scrittore siciliano continuava e rafforzava la linea (aperta dal Verga disincantato de I Malavoglia, nel 1881: laddove la Sicilia di una povera famiglia di pescatori dava corpo e sangue allo scandalo della mancata modernizzazione di uno Stato sempre latitante, salvo che per la leva e le tasse) di quella sorta di contro-storia d’Italia che, dopo De Roberto, avrebbe trovato i suoi cantori in Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, fino a Consolo e Sciascia.
Una contro-storia dalle diverse intonazioni, ma sempre più tangibile, più luminosa, più vera di tanta realtà spesso oscura, se non inconoscibile: nel segno di quelle verità del vivere (pubblico e privato) che, attraverso la letteratura, alla vita stessa ritornano.
De Roberto narra le vicende di un’antica, nobile e potentissima famiglia catanese, gli  Uzeda di Francalanza, di origini spagnole, in un arco temporale che va dal 1855 al 1882, quasi in presa diretta: dalla fine del dominio borbonico alle prime elezioni a suffragio allargato del nuovo Regno unito.
Una storia genealogica (di una genealogia aperta, che sempre trova nuova linfa, nella sua immutabilità) dentro la storia siciliana e italiana, e che si apre con la morte e i funerali della principessa Teresa, la dispotica decana di casa Uzeda.
Una che «sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti», e il cui testamento reca i segni inequivocabili di una volontà di dominio economico, di una sete di potere che si mutano in destino.
Un personaggio centrale, dominante, quello della principessa Teresa; presente proprio perché assente, paradossalmente. E la sua morte, i suoi funerali, già prima del loro apparire sulla scena, offrono un accesso immediato ad un singolare teatro di umanità: dove dal frenetico chiacchiericcio dei vari subalterni (cocchieri, famigli, affittuari…) – prima ancora che da quello dei parenti o delle autorità civili ed ecclesiastiche – prendono forma le fattezze dei vari Uzeda.
Ed eccoli, gli esemplari di quella razza padrona e capricciosa, ignorante e spregiudicata: il principe Giacomo (il primogenito della principessa Teresa), che impugna e modifica il testamento materno, ricatta gli altri eredi, si mette contro il fratello, il contino Raimondo; il quale dal canto suo dissipa il patrimonio, perseguita la moglie (impostagli dalla madre) e sposa l’amante.
E ancora, gli altri figli della principessa Teresa: Lodovico, che (obbligato al convento) si dedica cinicamente alla carriera ecclesiastica; Ferdinando, con le sue fissazioni che finiscono per scivolare nella follia; Chiara, la cui ossessione di maternità si spegne in un parto mostruoso; Lucrezia, che sposa un ricco avvocato, il quale cura le speculazioni degli Uzeda, ricevendone però solo delusioni.
E poi i fratelli della principessa Teresa: don Blasco (costretto a farsi frate, litigioso e donnaiolo), che da ferocemente borbonico fa presto a convertirsi alle idee del nuovo Regno, coniugando gli affari col potere (ridotto allo stato laicale, dopo la soppressione di tante istituzioni religiose, accumula una consistente fortuna speculando sui beni di provenienza conventuale e sui titoli di stato); come suo fratello, il duca di Oragua, che riesce a spacciarsi per liberale e a farsi eleggere deputato del Regno, a dar corso ad un suo emblematico convincimento: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri».
Per arrivare a Consalvo, il figlio del principe Giacomo: che rinnova le tradizioni di famiglia, da abilissimo stratega della finzione e del tradimento, diventando anch’egli deputato. E dando così voce ad una feroce ideologia del potere, della conservazione del potere: cristallizzata, quell’ideologia, nel famoso comizio (un distillato di micidiale retorica) che il rampollo degli Uzeda tiene davanti ad un vasto pubblico, e che gli spalanca le porte del parlamento di un’Italia oramai unita, ma tutt’altro che nuova. 
La principessa Teresa e Consalvo, dunque. Che aprono e chiudono il romanzo, rispettivamente; e che ne portano tutto il senso, l’attualità sempre viva. E sono anche, nonna e nipote, nel loro pensare e agire, spie di una feudalità antica, storica, e di una feudalità familiare. E queste feudalità finiscono per coincidere, così rinnovandosi; ma sempre mimetizzandosi, sempre rimanendo nascoste, come se ogni volta trovassero nuovi canali carsici.
E se De Roberto è lo scrittore della disperazione nella Storia (diceva Sciascia), se I Viceré è un romanzo antistorico, un processo alla storia di delusioni e nequizie (la mistificazione risorgimentale, il trasformismo, il conformismo, la demagogia, il cambiare tutto perché nulla cambi, quella mistificante retorica che avrebbe alimentato le illusioni patriottiche e coloniali, fino al fascismo, e che si sarebbe ritrovata, riscoperta nell’Italia delle mafie, delle stragi, dei misteri irrisolti); se è, la saga degli Uzeda, anche una lucida e spietata inquisizione del presente; se I Viceré è insomma tutto questo, l’abilissima invisibilità di De Roberto tra i suoi personaggi, tra le loro storie (che sono soprattutto il racconto di un modo di essere, di stare al mondo; che danno consistenza, soprattutto, ad uno strisciante utilitarismo), svela invece la felicità della scrittura del grande narratore.
Già in apertura di romanzo, laddove De Roberto illumina il lato oscuro, egolatrico, di quella sorta di religione della famiglia che Verga aveva celebrato nei Malavoglia.
Dissacrandola, alla fine, quella religione: i valori di Padron ‘Ntoni e famiglia diventano disvalori con gli Uzeda, con quella razza avida, che vive nell’ossessione del potere e del sesso.
Una razza i cui membri sono spesso in guerra tra loro, ma sempre si ritrovano uniti nel perseguire e rafforzare il potere della famiglia, a favorirne l’ascesa.
Un familismo eletto a vero e proprio sistema di vita, che De Roberto – da rigoroso anatomopatologo qual è – consegna al lettore. Insieme ad una società che dovrebbe essere nuova, e che invece nuova non è, e che non è neanche una società: dove non di rado è l’inautenticità a regolare i rapporti umani, a dettare le regole dell’esistenza.
«Un’opera pesante, che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore», aveva chiosato Benedetto Croce a proposito de I Viceré. Per nulla accorgendosi della luce di quel grande romanzo, ovvero della capacità che esso ha di illuminare l’intelletto, e di sollecitare il cuore.
Semplicemente parlando dell’uomo, del mondo. Semplicemente mostrando alcune pagine – tra le più lucidamente fosche, tra le più goyesche – di quella negatività, di quel male che della vita, del mondo, dell’uomo sono parte integrante e ineludibile.
Sempre. «No, la nostra razza non è degenere: è sempre la stessa», dice Consalvo alla zia Ferdinanda, alla fine. Ed è, la luce de I Viceré, potentemente corrosiva e demistificatoria.

 

Giuseppe Giglio

Giuseppe Giglio  vive a Randazzo (CT). È un giovane critico letterario. Si occupa soprattutto di letteratura del Novecento, nel segno di un’idea di critica letteraria come critica della vita.
Ha pubblicato articoli e saggi su periodici letterari e quotidiani come “Stilos”, “Polimnia”, “Pagine dal Sud”, “l’immaginazione”, “Il Riformista”.È tra gli autori del volume miscellaneo Leonardo Sciascia e la giovane critica, uscito nel 2009 presso Salvatore Sciascia Editore.
Con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2010, I piaceri della conversazione.
Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico. Con questo libro ha vinto il premio “Tarquinia-Cardarelli” 2010 per l’opera prima di critica letteraria.
È una delle firme de “Le Fate”, una nuova rivista siciliana di arte, musica e letteratura. Scrive su “Fuori Asse”, una rivista letteraria torinese on-line. Fa parte della redazione di “Narrazioni. Rivista quadrimestrale di autori, libri ed eterotopie”, un periodico nato nel Dipartimento di Filosofia, Letteratura, Scienze Storiche e Sociali dell’università di Bari, ma fatto da giovani critici non strutturati, e con l’ambizione di porsi come un osservatorio sul romanzo contemporaneo. Scrive anche sulle pagine della cultura del quotidiano “La Sicilia”.

 

Guar­da­re e (ri) sco­pri­re la Si­ci­lia at­tra­ver­so gli scat­ti di De Ro­ber­to

        É a Ran­daz­zo, se­con­do Leonardo Scia­scia, che lo scrit­to­re emer­ge come fo­to­gra­fo.
Qui co­glie la pro­spet­ti­va del­le vie «che de­li­nea­no que­sto pae­se nel­l’al­tu­ra», come nel­lo scat­to del­le case di via Fur­na­ri, la Vol­ta di via de­gli Uf­fi­zi o la Por­ta Ara­go­ne­se.
Tra i se­mi­na­ri or­ga­niz­za­ti per la de­ci­ma edi­zio­ne del Med Pho­to Fest 2018, Ro­sal­ba Gal­va­gno, do­cen­te di cri­ti­ca let­te­ra­ria e let­te­ra­tu­re com­pa­ra­te pres­so il Di­par­ti­men­to di Scien­ze Uma­ni­sti­che, ha ri­co­strui­to un iti­ne­ra­rio in Si­ci­lia at­tra­ver­so lo sguar­do di Fe­de­ri­co De Ro­ber­to, nel­le ve­sti non solo di scrit­to­re ma an­che di fo­to­gra­fo, come te­sti­mo­nia­no gli scat­ti pre­sen­ti nel­la gui­da del­la cit­tà di Ran­daz­zo e la Val­le del­l’Al­can­ta­ra pub­bli­ca­ta nel 1909.
Lo scrit­to­re si  av­vi­ci­na alla fo­to­gra­fia  al­l’in­cir­ca al­l’e­tà di ven­t’an­ni  con una «tec­ni­ca che tra­sfor­ma­va in con­ti­nua­zio­ne la­stre ed obiet­ti­vi».

A cau­sa del­la guer­ra e del bom­bar­da­men­to che di­strus­se il pa­laz­zo pre­sen­te tra la via Et­nea e la via San­t’Eu­plio, di­mo­ra ca­ta­ne­se del­lo scrit­to­re, nes­sun ori­gi­na­le è giun­to a noi. Quel che però emer­ge dal­le po­che im­ma­gi­ni è che «po­ne­va at­ten­zio­ne per rea­liz­za­re ser­vi­zi fo­to­gra­fi­ci per­fet­ti»

Leonardo Sciascia a Randazzo – Foto di Ferdinando Scianna 1964

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Nel­l’ar­ti­co­lo “San Sil­ve­stro da Troi­na” pub­bli­ca­to nel­l’a­go­sto del 1908 su “Let­tu­ra”, men­si­le il­lu­stra­to del Cor­rie­re del­la Sera, De Ro­ber­to «ri­vi­ve con le pa­ro­le quel­lo che si tro­va nel­le im­ma­gi­ni»: l’e­ven­to del­la pro­ces­sio­ne, un tema ama­to, pre­sen­te an­che in “Ran­daz­zo” e ne “I Vi­ce­ré”, che rien­tra nei ser­vi­zi di cro­na­ca mon­da­na di cui si era oc­cu­pa­to da fo­to­re­por­ter.
       Dal­le let­te­re in­via­te a Cor­ra­do Ric­ci emer­ge il suo in­te­res­se per la Si­ci­lia e i suoi luo­ghi, dal­le cit­tà ai ca­stel­li et­nei, alle iso­le Eo­lie che de­fi­ni­sce «iso­le di Dio».
Un’at­ti­vi­tà che uni­sce ri­pro­du­zio­ne fo­to­gra­fi­ca e re­to­ri­ca, in cui il let­to­re vie­ne gui­da­to at­tra­ver­so uno sguar­do sto­ri­co, este­ti­co e poe­ti­co. De Ro­ber­to fo­to­gra­fa pa­laz­zi, bal­co­ni, co­glie il sen­so del­la con­no­ta­zio­ne fi­si­ca dei luo­ghi, og­get­ti su cui si do­cu­men­ta ac­cu­ra­ta­men­te pri­ma de­gli scat­ti.
É a Ran­daz­zo, se­con­do Scia­scia, che De Ro­ber­to emer­ge come fo­to­gra­fo.
Qui co­glie la pro­spet­ti­va del­le vie «che de­li­nea­no que­sto pae­se nel­l’al­tu­ra», come nel­lo scat­to del­le case di via Fur­na­ri, la Vol­ta di via de­gli Uf­fi­zi o la Por­ta Ara­go­ne­se. Fo­to­gra­fa la Fe­sta del­l’As­sun­ta, il cam­pa­ni­le di San Mar­ti­no, le Bal­ze di San Do­me­ni­co, le fi­ne­stre, come quel­le di via Gra­na­ta­ra, aper­tu­re da cui si af­fac­cia­va­no i so­vra­ni che pas­sa­va­no da Ran­daz­zo, una cit­tà ric­ca di ele­men­ti sto­ri­ci, di cui De Ro­ber­to pro­va a cat­tu­ra­re l’at­mo­sfe­ra sto­ri­ca e me­die­va­le.
Ne emer­ge un iti­ne­ra­rio si­ci­lia­no che ha su­sci­ta­to nel­la mag­gior par­te dei pre­sen­ti la cu­rio­si­tà di vi­si­ta­re, o ri­vi­si­ta­re, la cit­tà di Ran­daz­zo, ma­ga­ri scat­tan­do qual­che fo­to­gra­fia.

 DA­NIE­LA MAR­SA­LA

 

Le relazioni nascoste di Federico De Roberto

    di Antonino Cangemi

La vita di Federico De Roberto non fu certamente facile; né facile fu il suo rapporto con le donne. Afflitto da frequenti stati depressivi, che lo debilitavano anche fisicamente e ne spegnevano gli entusiasmi, alternati a momenti di vitalità e di euforia, oggi De Roberto sarebbe definito un “bipolare”. Le relazioni col “gentil sesso” furono condizionate, oltre che dagli ondivaghi moti dell’umore, dalla presenza di una madre possessiva e invadente, Marianna Asmundo Ferrara. Tuttavia, nell’esistenza turbolenta e avara di felicità dell’autore de I viceré, non mancarono amori “clandestini”.

Ricerche recenti sull’epistolario di De Roberto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Catania  mettono in luce la relazione segreta tra De Roberto ed Ernesta Valle. Ne apprendiamo i particolari grazie al minuzioso lavoro di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla che hanno curato Si dubita sempre delle cose più belle. Parole d’amore e di letteratura, un libro poderoso (2144 pagine, 764 lettere, tantissime immagini a corredo) edito da Bompiani (2014) che, riscoprendo il carteggio tra i due amanti, getta squarci sulla complessa figura di De Roberto, sul suo problematico rapporto con le donne, sulle sue ambizioni letterarie e giornalistiche soffocate a Catania e proiettate su Milano.

Federico De Roberto conosce Ernesta Valle nel salotto milanese di casa Borromeo. Un salotto meta dei più acclamati scrittori, giornalisti, editori dell’epoca: lo bazzicano personalità dal rilievo di Eugenio Torelli Viollier, Luigi Albertini, Domenico Oliva, Giuseppe Giacosa, Ugo Ojetti, Arrigo Boito, Emilio e Giuseppe Treves. È il 29 maggio del 1897, De Roberto ha trentasei anni, ha già pubblicato quello che si rivelerà essere il suo capolavoro, I vicerè, e a Milano cerca di affermarsi nel mondo del giornalismo (un contratto di collaborazione lo lega ad Albertini e al suo Corriere) e di frequentare i protagonisti dell’editoria e della cultura, letteraria e artistica. Nella mondanità meneghina quel siciliano talentuoso e ambizioso, qual è Federico De Roberto, non passa inosservato: i suoi eclatanti baffi a manubrio accompagnati dall’immancabile monocolo adagiato sull’occhio destro gli hanno fatto conquistare l’appellativo scherzoso di “Lord Caramella”.
Ernesta Valle è sposata con l’avvocato messinese Guido Ribera, ha ventun anni,  un bambino di cinque anni da accudire, e allo splendore della giovinezza unisce l’eleganza di chi è avvezza alla vita mondana. Ernesta si fregia del titolo di contessa (non si sa bene quanto autentico), è nata nel 1876 a Ventimiglia, da Giuseppe Valle, un impiegato di Valle Lomellina, e da Adelaide Corradi. Avvenenza, femminilità, savoir-faire e un buon matrimonio  le hanno spianato la strada introducendola nella borghesia notabile della Milano del tempo.

L’incontro con Ernesta Valle per Federico De Roberto è un colpo di fulmine. Tanto da scrivere: ‹‹Da quel giorno, voglio dire da quella sera, cominciò la mia felicità››. Da quella sera di maggio esplode la sua passione. Che genera un profluvio di lettere:  palpitanti, focose, ardenti; ma anche rivelatrici di ambizioni e stati d’animo e con più di un richiamo alla letteratura. Come si conviene in ogni storia d’amore i due amanti si chiamano tra di loro con uno o più vezzeggiativi. Per De Roberto Ernesta Valle è Renata, a simboleggiarne la rinascita all’amore e nell’amore, ma anche Nuccia, diminutivo di “femminuccia”, perché in lei risiede la quintessenza di una femminilità prospera e procace; per Ernesta Valle De Roberto è Rico, la parte finale del suo nome di battesimo.

Nel suo spostarsi tra Milano e Catania Rico tiene sempre vivo il legame con Renata grazie a una corrispondenza fitta, accesa e meticolosa. Che talvolta trabocca di carica erotica: ‹‹Tutta nuda nell’anima come l’ho vista e tenuta e baciata e bevuta e goduta tutta nuda nel corpo adorato e divino›› (i due passeranno al tu dopo cinque mesi), in una prosa da romanzi rosa d’appendice che lo scrittore avrebbe aborrito: ‹‹Mi pare che sia tuo il sangue che mi scorre nelle vene, non ho più personalità››. Altre volte rivela abbandoni sentimentali e richiami a un amore sublimato nella sua purezza con un eccesso di enfasi che sbalordirebbe se non si pensasse che a vergare quelle frasi sia un uomo innamorato: ‹‹O Cuor dei cuori, quando tu mi dici di partire il moto della mia obbedienza è così pronto che io vorrei già essere sotto un altro cielo››. Altre volte ancora le lettere fanno da cronaca alle tappe dei loro incontri, con puntualità ossessiva, illustrando i luoghi dei furtivi appuntamenti: via Romagnosi, dove ha sede il salotto che li ha fatti conoscere, via Jacini, via Pietro Verri, Porta Volta, Crescenzago, i caffè, i teatri, soprattutto la Scala.

Le lettere di Rico e Renata, tuttavia, non danno sfogo solo a desideri carnali (vivissimi nello scrittore), a spinte erotiche e a sentimentalismi vari, ma palesano anche intese su argomenti letterari e De Roberto si prodiga a consigliare all’amante le migliori letture: ‹‹Ti ho mandato altri libri. Non so quali sono quelli che tu non conosci, tra quanti ne posseggo. Desideri leggere altre novelle di Maupassant? Io le ho tutte. Ho tutto Zola: dimmi se qualche cosa di lui ti riesce nuova. E di Daudet? E dei Goncourt? Conosci i famosi romanzi russi: La Guerra e la Pace di Tolstoj; Anna Karenina pure di Tolstoj; il Delitto e il Castigo di Dostoevskij? Vuoi qualche cosa di Giorge Sand, di Balzac? Conosci le novelle fantastiche di Poe? Aspetto, per la prossima spedizione, che tu mi dica delle tue preferenze›› (Catania, 6 gennaio 1898). Rico le fa leggere pure alcune sue opere, tra queste I vicerè la cui protagonista si chiama, guarda caso, Renata e che provoca nell’amante moti di gelosia. Ernesta Renata gli scrive: ‹‹Si può essere anche gelosi del passato››. 

Un amore segreto quello tra Rico e Renata, un uomo incapace di ribellarsi alla tirannia edipica della madre, e una donna legata al marito e agli agi della vita salottiera che le è concessa. E come nelle relazioni nascoste i due amanti conoscono mille sotterfugi per scambiarsi le lettere, a mano o in fermo posta, talvolta custodite dentro libri, altre precedute da avvertimenti in codice.

Ma tra i due amanti si avvertono le presenze delle persone a cui sono legate: la madre per Rico, il marito per Renata. Presenze forti, ingombranti, determinanti. Gli escamotage studiati e provati a garanzia della clandestinità della loro relazione hanno effetto? Nulla sanno o percepiscono di quel rapporto donna Marianna Asmundo Ferrara e Guido Ribera? Pare proprio che, malgrado tutte le strategie di occultamento messe in atto dai due amanti, l’eco della loro passione per un verso o per l’altro gli giunga. Tant’è che la madre padrona, ‹‹un bene che mi soffoca e mi strozza››, riesce a far battere in ritirata il figlio in preda all’ardore amoroso. La madre gli scrive lamentandosi della lontananza e invitandolo (anzi intimandolo) a tornare a Catania, ‹‹perché è già molto tempo che sei fuori casa, perché viene l’inverno e tu sai che d’inverno ho bisogno di compagnia››. E l’avvocato Ribera compare pure nell’epistolario con missive assai prosaiche: raccomandazioni da rivolgere all’editore Treves, richieste di prestiti.

Ubbidiente al richiamo della madre, De Roberto ritorna a Catania. La città dell’Etna, nel raffronto con la febbrile e mondana Milano, gli appare in tutta la sua angustia, pigra e sonnolenta, prigione della sua anima esacerbata e soffocata nel suo male oscuro: ‹‹È una malattia morale e non lieve – scrive all’amante riferendosi al suo spleen – Mi sento troppo vuoto, troppo contrariato, troppo sbalestrato, troppo avvilito››. Adesso la lontananza fisica di Renata accentua in Rico il desiderio di intimità con lei e l’inchiostro della scrittura cerca di suggellare e far rivivere i momenti di passione vissuti insieme.

Lettera di Federico De Roberto a Renata (19 Marzo 1899)

De Roberto (Rico) continuerà a scrivere alla Valle (Renata) confidandole i suoi progetti letterari. Renata pare assurgere in certi momenti a “musa” ispiratrice. A lei nel 1899, due anni dopo averla conosciuta, aveva dedicato la prefazione de Gli amori: in modo velato, indicando solo le sue iniziali ‹‹a R.V.››; accorgimento che però non era servito ad aggirare la gelosia del marito che in una lettera gli volle ironicamente precisare che  R.V. era la signora Ribera-Valle. A Renata si rivolgerà dopo, tra il 1900 e il 1902, per confidarle i suoi progetti di scrittura. Si era già confrontato con l’amante per il romanzo drammatico Spasimo, accogliendo i suoi suggerimenti di rendere quel testo ‹‹troppo pensato›› più ‹‹parlato››, e riconoscendole il merito di averlo spronato nello scriverlo in uno adattamento ‹‹più rapido e movimentato››. A Renata confesserà il suo proposito di chiudere la trilogia degli Uzeda, inaugurata con l’Illusione nel 1891 e proseguita con I vicerè nel 1892, con L’Imperio, che non farà in tempo a pubblicare e che uscirà postumo nel 1925. A proposito de L’Imperio Rico scriverà a Renata, il 3 giugno del 1902, una lettera piena di sconforto: ‹‹Ho preso pure il manoscritto del romanzo che doveva far seguito ai Vicerè… Faccio questo tentativo di ritorno all’arte senza fede e senza neppure altra speranza che quella di ricavare, chi sa quando, un migliaio di lire del lavoro di chi sa quanto tempo. È questa è la mia vita, propriamente degna d’essere strozzata con tutt’e due le mani, se non fosse il ricordo, la visione, il pensiero e la speranza di Nuccia››. Già, quando De Roberto scrive quella lettera, la relazione con Renata volge al declino, come testimonia il carteggio tra i due amanti che copre un arco di tempo racchiuso tra il 1897 e il 1902, con qualche appendice sino al 1916.

De Roberto è chiuso nella sua malinconica angoscia, mitigata ma non scalfita dal ricordo di un amore lontano, nello spazio e nel tempo, in una città, Catania, che non ama e che anzi definisce ‹‹l’odiato e aborrito paese››. Passeranno altri anni e il cuore dello scrittore catanese s’invaghirà di un’altra donna, anche lei sposata e legata a una grande città, questa volta Roma. L’ennesimo tentativo di evadere da una Catania per lui claustrofobica? La donna si chiama Pia Vigada, e con lei De Roberto intrattiene un carteggio amoroso che va dal 1909 al 1013. Malgrado il peso degli anni, anche in questo epistolario De Roberto, considerato per alcuni suoi scritti “misogino”, si conferma amante focoso e veemente, e non privo di tenerezze. Un gesto di tenerezza è, ad esempio, quello, in lui usuale, di inviare all’amata dolci tipici di Sicilia e agrumi. Ma De Roberto è anche un uomo geloso, sino al parossismo, in preda a una spiccata sensualità. Come dimostra questo singolare passo di una lettera a Pia Vigada: ‹‹Spiegami che il tuo corpo, le tue forme, la tua carne sono chiuse ermeticamente. E che solo un giorno le tue mani febbrili potranno dischiudere cotanto tesoro…››.
Ma torniamo alla storia di Rico e di Renata che, stando al carteggio di cui oggi si dispone, pare sia macchiata da un epilogo tutt’altro che romantico. Nel 1916, quando la corrispondenza tra i due si è da tempo interrotta e il silenzio ha ormai sepolto un amore ricco di illusioni e di speranze svanite, Renata torna a farsi viva con una lettera di inaspettata aridità e ineffabile opportunismo. In essa l’amante di un tempo implora Rico di versarle una congrua somma di denaro per sollevare il figlio da non ben precisati problemi economici. In realtà, pare che dietro quella cinica richiesta si nasconda una squallida vicenda di corruzione legata (siamo negli anni del primo conflitto bellico) al tentativo di tenere il figlio lontano dal fronte.

Si chiude così, con un finale amaro e beffardo, la storia d’amore che più coinvolse Federico De Roberto. La cui immagine ci torna alla mente nel ritratto che di lui scolpisce la penna di Vitaliano Brancati: un uomo sempre solo, a spasso per la via Etnea con la sua inguaribile angoscia, chiuso dentro la sua ‹‹pesante armatura di onestà››.

Dialoghi Mediterranei, n. 15, settembre 2015

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PAOLO VAGLIASINDI (1838-1913)

Paolo Vagliasindi Polizzi, fu l’uomo cui si deve l’esistenza del Museo archeologico di Randazzo.

Nato nel 1838, e nipote dell’omonimo abate Paolo Vagliasindi, storico e confutatore delle tesi del Plumari, pur non essendo un “esperto”, era tuttavia un appassionato dell’arte e dell’antichità classica, mente aperta e uomo di grande generosità. Per merito suo infatti fu possibile il riscatto del Convento dei Cappuccini, che nel 1866 era stato incamerato dallo Stato a seguito delle legge per la soppressione delle corporazioni religiose. Quando i beni ecclesiastici furono messi all’incanto, il Vagliasindi riacquistò il Convento per restituirlo successivamente all’Ordine.

Paolo Vagliasindi

Ma Paolo Vagliasindi rifiutò fermamente ogni offerta, soprattutto per la cessione del bellissimo e raro oinochoe, vaso per la mescita del vino in terracotta, decorato in rosso su fondo nero, e raffigurante il mito dei Boreadi, perché volle fortemente che la collezione restasse a Randazzo. Anzi, destinò alla raccolta una sala del suo palazzo, rendendola fruibile ai visitatori. Nel 1904 la collezione Vagliasindi fu esaminata e catalogata dal professor Giulio Emanuele Rizzo, Ispettore del Museo nazionale di Roma, che relazionò poi in una breve pubblicazione.

Alla morte di Paolo Vagliasindi, nel 1913, la collezione rimase affidata al figlio Vincenzo, ma fu seriamente danneggiata dai bombardamenti del 1943, che squarciarono il palazzo; molti pezzi andarono distrutti o saccheggiati, altri furono recuperati dai Padri Cappuccini dei vicino Convento, per essere esposti negli anni ’60 in una sede provvisoria presso la Casa di riposo di Randazzo. Solo nel 1998, restaurati e catalogati, hanno trovato degna dimora nel Castello di S. Martino.

 

Ma il suo nome è rimasto legato alla storia di Randazzo a seguito di un episodio fortuito, che sembra quasi leggendario: tutto cominciò, quando una contadina, prestando il suo lavoro nel feudo di S. Anastasia, proprietà di Paolo Vagliasindi a circa 6 km da Randazzo, s’imbatté casualmente in un piccolo oggetto d’oreficeria, che corse a consegnare al proprietario del fondo. Egli intuendone l’origine, intraprese una prima serie di scavi, in concomitanza con i lavori colturali, e vide materializzarsi poco a poco una vera e propria necropoli.

 

Una volta sparsa la voce, la Direzione delle Antichità di Palermo prese contatti col Vagliasindi, e furono condotte delle regolari campagne di scavi nel territorio di S.Anastasia e Mischi, dirette nel 1889 dal Salinas e vent’anni dopo da Paolo Orsi: vennero alla luce altre tombe e corredi funerari, monete, vasi, anfore, utensili, gioielli, statuette, ascrivibili al IV-V sec. a.C. In base alle norme vigenti, però, la stragrande maggioranza dei reperti dovettero essere ceduti al Museo Nazionale di Palermo e a quello Archeologico di Siracusa.(M.D.)

 Maristella Dilettoso

 

Castello Svevo

Oinochoe.

Castello Svevo e Campanile di San Martino – Randazzo

MUSEO ARCHEOLOGICO PAOLO VAGLIASINDI – LA STORIA 

ON.LE PAOLO VAGLIASINDI

      Maristella Dilettoso 

Paolo Vagliasindi era nato il 16 settembre 1858, terzo di 13 figli, da Francesco Vagliasindi, barone del Castello, e Benedetta Piccolo di Calanovela.
Nel 1882 si laureò in giurisprudenza a pieni voti presso l’Università di Roma.
Dopo aver esercitato la professione per qualche tempo, intraprese la strada della politica, che sentiva più congeniale: veniva eletto sindaco di Randazzo nel 1885, a soli 27 anni, e una seconda una volta nel 1887.
Erano tempi difficili: si cominciava ad agitare la vertenza per l’Opera De Quatris, che si trascinò per oltre 50 anni, e vide le opposte fazioni schierate su posizioni contrastanti, e per di più nel 1887 si diffuse un’epidemia di colera, che il giovane sindaco affrontò in maniera “disinteressata, fattiva, responsabile” (Virzì), organizzando lazzaretti, soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo i propri collaboratori, tanto da meritare più tardi l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo. Dimostrò il suo impegno alla guida del paese nel curare le strade, e nell’imprimere un nuovo impulso all’agricoltura, in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava l’economia di Randazzo.

Pensando di compiere un “salto di qualità” e di candidarsi al Parlamento, consapevole dell’importanza tanto di una base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostò il suo centro d’interessi verso il capoluogo, riorganizzando a Catania l’Associazione Monarchica, poi “Associazione Costituzionale”, di cui fu presidente fino all’anno della morte, e rilanciando il foglio La Sicilia, trasformandolo in un giornale rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”.
Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli, il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale, senza alcun rapporto di continuità.

Paolo Vagliasindi si candidò per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, schierandosi con i “Conservatori liberali”, per il Collegio Catania II (Acireale), ottenendo un brillante risultato.
Fu eletto deputato una seconda ed una terza volta nel 1894 e nel 1897 per il Collegio di Bronte, una quarta volta sarà eletto nel 1900 (XXI legislatura) per i Collegi di Bronte e Giarre, optando per Bronte. L’anno 1899, durante il secondo gabinetto Pelloux, data anche la particolare competenza dimostrata nel trattare i problemi connessi all’agricoltura, fu chiamato a ricoprire l’incarico di Sottosegretario del Ministero all’Agricoltura, Industria e Commercio, dicastero allora retto da Antonio Salandra. Manterrà l’incarico dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo.
Nel 1897 si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale avrà cinque figli: Laura, Benedetta, Emilio (l’unico maschio, che morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903), Maria ed Ersilia.

Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
L’anno seguente con R.D. 4.3.1900 otteneva il rinnovamento del titolo di barone, che diversamente sarebbe spettato solo al fratello primogenito Giuseppe, barone del Castello.

Nel 1903 il partito monarchico, rappresentato a Catania da Gabriello Carnazza, Guglielmo Carcaci, il principe Manganelli, dopo la sconfitta elettorale, decise di riorganizzarsi, e ne assunse la guida Paolo Vagliasindi.
Fra i tanti che vi aderirono, vi fu anche Giovanni Verga, alieno per temperamento ed educazione dalle lotte politiche.
L’organo del partito fino allora era stato il settimanale Le Marionette, ritenuto da molti troppo frivolo e polemico, cosicché il Vagliasindi disciplinò la stampa del partito, concentrando nelle sue mani, di fatto anche se non di nome, la direzione del quotidiano La Sicilia. Divenne in breve tempo il capo indiscusso del partito costituzionale a Catania.
L’esponente di spicco della parte avversaria era Giuseppe De Felice, leader della sinistra catanese.
L’antagonismo fra i due personaggi si esasperò in occasione della municipalizzazione del pane, voluta proprio da De Felice, cui seguirono lotte e disordini, e conobbe, in seguito, momenti di aspra rivalità, che culminarono in una sfida a duello, ma vi furono anche momenti di sana e leale competizione.

Paolo Vagliasindi si ricandidò per le elezioni del 6 novembre 1904 nel Collegio di Bronte, ma non fu rieletto.
Dai numerosi carteggi emerge come la sua rielezione fosse stata fortemente osteggiata in tutti i comuni del Collegio dall’azione del Prefetto Bedendo, longa manus di Giolitti nella provincia etnea, che favoriva invece l’elezione a deputato di Francesco Saverio Giardina, di Bronte, uomo di Giolitti.
Il Vagliasindi avrebbe poi sostenuto con prove documentarie e testimonianze, davanti alla Giunta delle Elezioni, come quelle votazioni si fossero svolte in un clima di intimidazioni e minacce ai suoi sostenitori, in tutto il Collegio di Bronte, messe in atto ad opera dell’opposta fazione e del prefetto stesso, ricorrendo anche alla violenza ed alla corruzione.
Caduto il governo Giolitti, Bedendo fu deposto, allontanato da Catania e sostituito a Palazzo Minoriti dal comm. Trinchieri.
Paolo Vagliasindi presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si attendeva che la Giunta delle Elezioni emettesse le deliberazioni definitive, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, finiva di vivere a Catania il 23 dicembre 1905, a soli 47 anni.

Monte Colla foto di Paolo Vagliasindi

La sua prematura scomparsa suscitò grande cordoglio, giunsero telegrammi da Ministri e Deputati, visite dalle maggiori autorità civili e religiose di Catania, la città si vestì a lutto, innalzando bandiere a mezz’asta, come la natia Randazzo, il giornale La Sicilia di cui era collaboratore pubblicò un necrologio a tutta pagina, oltre 5000 firme furono apposte sul registro delle visite. Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”.
Solenni e partecipati i funerali, cui presero parte, tra gli altri, molti tra i maggiorenti randazzesi.
L’ultimo saluto fu dato proprio dall’avversario di sempre, Giuseppe De Felice e dall’avv. Gabriello Carnazza. che di lì a poco avrebbe preso il posto dell’estinto nella politica.

Paolo Vagliasindi, politico e giornalista, visse in una città piena di fermenti politici e culturali qual era la Catania di fine ‘800 e inizio ‘900, fu amico di De Roberto, Capuana e Verga, conobbe anche Martoglio, che in “Cose di Catania” gli dedicò un sonetto satirico.
Tra le tante testimonianze, contemporanee e postume, vogliamo citare quella dello storico don Virzì:
“Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelava le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici…”.
Nella politica ebbe un ruolo notevole, sempre in prima fila, sia che si trovasse nella maggioranza, sia che si trovasse all’opposizione, da sottosegretario fece numerosi interventi, propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia.
Tra i tanti scritti, a carattere personale e pubblico, va ricordata la proposta per combattere la fillossera della vite, intervento molto documentato, dove il Sottosegretario di Stato per l’Agricoltura, Industria e Commercio il 04.12.1899, esponeva la sua proposta per combattere la malattia della vite, con competenza e scioltezza di linguaggio.

Nel 1° anniversario dalla morte, lo scrittore Federico De Roberto (La Sicilia n.335 del 23.XII.1906), rese una toccante commemorazione dell’amico fraterno.
L’autore de I Viceré, volle ricordare Paolo Vagliasindi nel suo “nido d’aquila”, la tenuta di Monte Colla dove era stato spesso ospite, e, così concludeva: “Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi”.

Il 19 aprile 1914, a Randazzo, nel corso di una cerimonia cui parteciparono numerosi cittadini, e le varie associazioni del tempo, dietro iniziativa del sindaco Alberto Capparelli, veniva inaugurata una lapide, scolpita da Antonino Corallo, e posta sul cantonale del Palazzo Vagliasindi in via Umberto I, il cui testo, dettato proprio da Federico De Roberto, recita:

“Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.” 

Maristella Dilettoso 
 

                                                              ————————————————————————————————————————————

 

BARONE ON. PAOLO VAGLIASINDI (1858-1905)  di Salvatore Calogero Virzì.

 

      Federico De Roberto

Sac. Calogero Virzì

Un proclama del Sindaco del tempo (1914), l’avv. Alberto Capparelli invitava i cittadini randazzesi ad una cerimonia inusitata per la domenica 19 Aprile 1914: lo scoprimento di una lapide commemorativa in onore di uno dei più degni figli della nostra cittadina l’on. Paolo Vagliasindi deceduto, tra il rimpianto di tutti i buoni e degli amici, il 23 dicembre 1905.
Accorsero in folla i cittadini, come ci testimoniano le fotografie del tempo; onorarono il raduno, con la loro attiva partecipazione, tutte le associazioni del luogo con le loro bandiere: partecipò il Collegio Municipale salesiano con la sua associazione  sportiva “La Vigor”, macchia vivace di colore tra la folla amorfa dei partecipanti; allietò la cerimonia la banda musicale coi suoi squilli argentini e riscaldò i petti con la sua parola vivace e cordiale il buon Sindaco Capparelli che inneggiò a quest’uomo, onore della famiglia e gloria cittadina.
Ma chi era questo Paolo Vagliasindi che ebbe l’onore di una epigrafe dettata dal grande Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita con amore dal più abile scultore della città, Antonino Corallo?
Paolo Vagliasindi, nato il 16 Sett. 1858, era figlio del Barone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo, uno dei tanti figli che allietarono la famiglia più eminente della cittadina.
La sua giovinezza fu guidata dall’assistenza del padre e dall’esempio cristiano della madre che infusero nel cuore del futuro onorevole il più sentito ideale della patria e della religione.
Giovane ancora fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi per quella via, la politica, che lo avrebbe portato al Parlamento ed al Governo.
Fu Sindaco di Randazzo nel 1885 e 1887 “portando nell’amministrazione della cosa pubblica quella fierezza, integrità e correttezza che furono le doti non comuni del suo carattere”.

                    Il Palazzo Vagliasindi nel corso Umberto – Randazzo


Tempi difficili in verità, sia per la nazione sia per la comunità randazzese, furono quelli in cui visse il nostro personaggio.
Ho qui davanti una memoria del fratello Diego, uomo singolare del paese, estroso, intelligente, entusiasta, buon parlatore e forbito scrittore che, con stile aggressivo e realistico ci fa un ritratto della vita pubblica politica del paese in questi tempi a cavallo dei due secoli: corpo elettorale inadeguato, Consiglio Comunale imbelle e diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare con onestà gli eterni problemi del paese, vita pubblica dominata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, pensando di essere gli unici investiti del diritto al comando, e in questo marasma di contraddizioni, di risentimenti e di bramosia del potere, ecco inserirsi, con una violenza inaudita, la vertenza “de Quatris” che agitò la vita del paese per anni con le azioni più irriverenti contro la Chiesa si S. Maria che, colpevole di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella de Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vede, dalla violenza settaria dei nobilucci del paese, seguiti, violenti o nolenti, dalla massa del popolo ignorante ed illuso, spogliare del suo patrimonio con mistificazioni ed orpelli avanzati da legali senza coscienza che imbrogliarono talmente le cose nei cinquanta e più anni che durò la vertenza, da fare desiderare dai cuori onesti la pace anche a costo di subire ingiustizie e danno.
In questo clima operò Paolo Vagliasindi come Sindaco che, seguendo il programma, fatto poi suo, esposto nel citato articolo del fratello Diego, si occupò delle strade del paese, delle campagne circostanti; diede un impulso efficace alla agricoltura; si industriò ad aprire nuove vie al commercio del vino, cespite primo del paese.
Ma quello che rivelò agli amici ed ai nemici le alte qualità di buono e responsabile amministratore, fu la sua azione disinteressata, fattiva, organizzativa, responsabile, in occasione del colera che imperversò nel paese nel 1887.
Si vide il giovane Sindaco ad organizzare i lazzaretti, a soccorrere i colerosi, personalmente, senza alcun timore e ritrosia; infuse in tutti i responsabili suoi collaboratori tale carica di impegno da fargli meritare gli elogi più alti dalle autorità governative che si sentirono in dovere di ricompensare tanta abnegazione con la medaglia d’argento al valore civile perché con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità.
Purtroppo ben poco sappiamo e possiamo aggiungere e specificare di quanto egli fece come Sindaco, dato l’ormai inesistente Archivio Comunale, ma l’esperienza di pubblico amministratore di un paese così contrastato lo aprì verso nuovi ideali più complessi, più responsabili, più vasti in cui avrebbero potuto esplicare gli ideali che formavano la sua personalità.
In verità anche la politica italiana di questo ultimo scorcio del sec. XIX, fu un garbuglio tale da dovere assistere ad una successione continua di Ministeri purtroppo effimeri ed inattivi.
Per cui dobbiamo dire con lo storico che non furono anni molto lieti per l’Italia questi che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo.
Anni tra i più oscuri e depressi della vita nazionale “senza grandi ideali e senza speranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta”: grandi dissesti finanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali specie con la Francia e con il Vaticano e, “dulcis in fundo”, sotto il Ministero del Marchese di Rudinì, il 22 Aprile 1897, il primo attentato al Re ad opera opera dell’anarchico P. Acciarito, la morte in duello di Felice Cavallotti “bardo della democrazia” (6/III/1898) ed i moti sovversivi in Piemonte, Sardegna, Milano sottoposta ad uno “stato d’assedio”, seguito dalla chiusura dei circoli socialisti, dalla soppressione di giornali di personaggi di sinistra, e dal conflitto con lo Arcivescovo di Milano.


Non valsero le azioni decise del Di Rudinì, dei due ministeri del Pelloux, dello Zanardelli e dell’avvento del nuovo astro della politica italiana della sinistra moderna, on. Giolitti, perché il triste e travagliato periodo politico si concluse con l’atto più orrendo per una nazione, il regicidio di Monza (29-VII-1900).
In questo tremendo periodo politico si innesta l’attività del nostro onorevole Paolo Vagliasindi.
Preparatosi alla lotta elettorale e politica riorganizzando l’Associazione Monarchica di Catania, andata in sfacelo per lotte interne e per difficoltà di organizzazione, si lanciò con entusiasmo nel giornalismo, facendo rivivere a nuova vita il foglio che sarà la palestra della sua battaglia “La Sicilia” operando, in modo che esso, da foglio per un pubblico esclusivo, diventasse un giornale rivolto ad una folla sempre più vasta.
Polemista di valore, alieno, però, da ogni trivialità, seppe combattere con dignità, con uno stile fluido, sereno, improntato ad una signorilità che ne rivelano le origini; fu aperto ad ogni novità, lontano, però, da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere e fedele ai suoi principi si conquistò la stima e il rispetto perfino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per es., il famoso De Felice, dominatore della sinistra catanese che, violento e intransigente, pur avendolo provocato ad un duello, come era stile del tempo, seppe apprezzare la nobiltà del suo nemico quando, prigioniero delle patrie galere a Volterra, ebbe, commosso, la visita consolatrice di chi meno si aspettava,  il Barone Paolo Vagliasindi.
Atto questo che si innesta e lumeggia la personalità di quest’uomo, signore nei modi, nel sentimento, cavaliere di stampo antico che seppe perdonare con nobiltà e con nobiltà vivere, agire con correttezza anche in quella vita pubblica piena di scontri, di amarezze, di opposizioni e tradimenti che avrebbe dovuto affrontare nella sua breve vita politica durata appena soltanto per 4 anni.
Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, fu eletto con una bellissima votazione, facendo parte dei “Conservatori liberali” del partito di Destra.
Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così potè essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, 1897, 1900 nei due Collegi di Bronte e di Giarre.
Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua perizia mostrata nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Ministero Pelloux ad affiancare il Ministero Sonnino come sottosegretario all’Agricoltura, Industria e Commercio, distinguendosi per zelo, per appropriati interventi portando in quel dicastero “un soffio di vitalità e di energia”, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguardavano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo constatare dal volume delle “Cronache Parlamentari” del tempo, religiosamente conservati fino a qualche tempo fa dalla famiglia e da me attentamente sfogliati nelle copie fornitemi gentilmente dal nipote Ing. Edmondo SCHIMIDT di FRIEDBERG di Roma che volle venire a Randazzo a rivedere i luoghi originari della sua stirpe.
“Gli interventi suoi furono particolarmente numerosi – mi scrive il sopraddetto nipote da me interpellato, cultore appassionato delle memorie familiari – nell’anno in cui fu Sottosegretario, e spaziavano su un orizzonte nazionale ed internazionale… buon oratore, con qualche punto di felice ironia e competenza degli argomenti trattati.
Ma soprattutto uomo di onore nel senso migliore della parola” a lui si deve la proposta di provvedimenti che riguardavano la Sicilia come risulta dalle sopracitate “Cronache Parlamentari” del tempo, e dai numerosi documenti che giacciono a Torino e dal numeroso epistolario (oltre 2000 lettere) che egli scambiò con i più rappresentativi uomini politici del suo tempo, “Salandra, Sonnino, Sangiuliano… Giustino Fortunato”.
Ma purtroppo, nonostante questa sua intensa e costruttiva politica come membro del Governo, nelle susseguenti elezioni, inaspettatamente, fu sopraffatto dai brogli e dalle violenze di un Prefetto venduto (tale Bedendo) che incitò la plebaglia contro di lui, liberò perfino i delinquenti carcerati che scatenarono l’inferno tra gli elettori, con la tacita e consapevole accondiscendenza e il segreto verdetto dell’allora dominatore della politica italiana, on. Giolitti, che nella ultima composizione del precedente Ministero Zanardelli, aveva potuto valutare la forza e il valore di un tanto avversario.

                                              Campanile San Martino – Randazzo


Si ribellarono gli elettori, si pretese la nomina di un Comitato ispettivo delle votazioni, ma il verdetto non arrivò più giacchè la tragedia si era inaspettatamente abbattuta sulla Famiglia Vagliasindi: il 23 Dicembre alle ore 14,30 1905 il Barone Paolo Vagliasindi, curato invano dai medici di famiglia, assistito da parenti ed amici, visitato affettuosamente dal Cardinale Nava, Arcivescovo di Catania, salutato ed affettuosamente abbracciato dall’amico-avversario De Felice, tra lo sbalordimento delle piccole figlie innocenti e della moglie (aveva sposato a Torino una dolce e nobile fanciulla, Ottavia Caissotti di Chiusano nel 1897), portando nel cuore la tragedia della morte immatura dell’unico figlio, moriva questo impareggiabile e nobile lottatore, come “un gladiatore romano”.
Sbalordì la città che in tre giorni appena si era potuto concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato e ammirato che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata dagli avversari, il vanto dei parenti e della città natia.
Questo spiega il fatto che i funerali furono un trionfo: accorse tutta la città, memore delle battaglie sostenute da lui per la difesa dei suoi diritti: accorsero folti gruppi da Bronte, Adrano, Biancavilla, S. Maria di Licodia, Acireale, Randazzo.
Il lungo corteo che si svolse per la via Vittorio Emmanuele alla fioca luce di tutti i fanali abbrunati e sotto la nuvola di petali di fiori gettati a piene mani dai balconi sulla bara portata a spalla dagli amici più cari e sostenuta coi cordoni in mano alle Autorità più alte: Prefetto, proSindaco De Felice, Presidente del Tribunale, Sindaco di Randazzo, vari Senatori.
Una folla di bandiere di tutte le Associazioni catanesi e della provincia chiudevano il corteo lungo la interminabile via facendo una breve sosta alla Chiesa di S. Agostino dove un gruppo degli amici Salesiani impartì la benedizione alla salma.
Alla Porta Garibaldi l’estremo saluto ad un personaggio che tante simpatie aveva suscitato nel popolo tutto appartenente ad ogni ceto che affettuosamente lo accompagnava portando ben 46 corone di fiori, fu detto, tra le lacrime dei più cari amici dall’on. De Felice e dal senatore prof. Carnazza Amari.
Né qui si chiuse il ricordo della giornata terrena del nobile uomo. Manifestazioni imponenti si svolsero nella ricorrenza di trigesima e per vari anni nel giorno anniversario.
Si fecero presenti con lettere e lunghi telegrammi una colluvie di alti personaggi della politica e del Governo sia della Sicilia che del resto della Nazione.
Solenne fu la commemorazione all’Associazione Costituente che volle nella sua sede un suo mezzobusto, alla Federazione Operaia Monarchica che depose sulla tomba una corona floreale di bronzo, alla Camera dei Deputati dove presero la parola nella vasta assemblea dai seggi stipati, gli onorevoli Riccio di Scalea, e Fortis i cui discorsi si conclusero con l’invio di un telegramma di circostanza alla moglie Baronessa Ottavia da parte del Presidente on. Marcora.
Vasta fu l’eco della stampa, i cui stralci ho qui davanti a me assieme ai tre opuscoli che ripetono discorsi e testimonianze: si commossero i poeti che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse l’amico del cuore, il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto con l’articolo pervaso di poesia e delicato sentimento che segue questo breve profilo e col dettare il testo della lapide che, come abbiamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palazzo di Famiglia che ancora possiamo leggere sul niveo marmo:
PAOLO VAGLIASINDI – nelle lotte della vita pubblica – portò la forza e la gentilezza – di un cavaliere antico – in Parlamento e al Governo – fu propugnatore immutabile – di libertà con ordine – crudelmente troncata – prima di dare tutti i suoi frutti – l’opera nobilissima – del Cittadino esemplare – vive nella memoria dei contemporanei – rivivrà nella storia – di questa diletta sua terra.

Sac. Salvatore Calogero Virzì

Randazzo, 6 Settembre 1984

                                                                   IL RICORDO DELLA FIGLIA LAURA

Torino 27 Giugno 1984 

                   Gent.mo e Reverendo don Salvatore Virzì 

    Con profonda gratitudine e commozione ho ricevuto la sua richiesta, e molto mi rallegro per l’amorevole iniziativa verso la memoria di mio padre, che veramente ritengo sia stata una figura esemplare come lealtà e rettitudine, carità di Patria, chiaroveggenza politica, passione di lotta per il trionfo del bene.

           on.le Paolo Vagliasindi

Lo attestano antiche opinioni di amici e collaboratori ormai trapassati, ma in modo speciale il culto devoto e la non mai affievolita affezione di mia madre che, per tutta la vita, serbò nel cuore il suo luminoso ricordo.
Nel 1897, mio Padre aveva infatti sposato Ottavia Caissotti di Chiusano, torinese come tutta la famiglia di lei. Matrimonio sotto ogni aspetto felice, non mai offuscato dalla benché minima nube.
Purtroppo le nozioni che potrò fornire personalmente saranno scarse e un po’ vaghe, sia perché alla morte di mio Padre eravamo 4 sorelle ancora proprio bambine, sia perché la tardissima età, nonché un incidente stradale quasi mortale, mi hanno ridotta allo stato di rudere.
Sappiamo comunque che mio Padre è stato direttore del giornale “La Sicilia” che, se ancora esiste, avrà certamente in archivio tutti gli articoli scritti da lui e su di lui.
Sappiamo che fu eletto deputato per ben 4 volte e che la 5^ legislatura gli venne bocciata dai delinquenti appositamente usciti di carcere e liberati per opera dei suoi detrattori.
Tutte queste angherie, e in modo speciale la morte dell’unico figlio maschio – dolore straziante sopportato con cristiana fermezza e rassegnazione – hanno certamente contribuito a debilitare l’organismo di mio Padre, e a provocare la prematura scomparsa.
Ricordo in modo confuso il clima di appassionato conflitto nei riguardi di un certo “De Felice” che io mi figuravo come una specie di mostro.
Ricordo che mio Padre ebbe un duello in proposito.
Ricordo la sua devozione all’ideale monarchico e conservatore.
Come  Sindaco di Randazzo sappiamo che si adoperò con piena dedizione alla cura del colpiti durante l’epidemia di colera.
Ricordo… una frase scritta da lui in cima ad un mio quaderno:
“Chi impara a conoscere se stesso, impara anche a migliorarsi”.
Qualche anno fa ho avuta la sconvolgente sorpresa di vedere mio Padre ritratto in televisione, a grandezza naturale, mentre in Parlamento citava versi di Dante!
Ulteriori dettagli potranno forse esserle forniti da mio nipote Edmondo Schimidt di Friedberg, figlio di mia sorella Benedetta, il quale è un competente di tradizioni familiari, e sempre ha nutrito grande ammirazione per il Nonno mai conosciuto.
Voglia accogliere i più devoti omaggi e commossi ringraziamenti da una superstite di altri tempi. 
Laura Vagliasindi                                                                                                                      

 

 

NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DELL’AMICO BARONE  PAOLO VAGLIASINDI

Lo vidi disteso sul letto di morte, lo seguii verso la fossa e credetti di non poterlo più ritrovare altrove fuorchè nell’intimo mondo delle memorie.

M’ingannavo: lo rividi!

Il suo spirito aleggia ancora sulla vetta di un monte.(nota: m. Colla presso Randazzo, che era di sua proprietà).

       Palazzo Vagliasindi – Randazzo

E’ una delle più alte cime dei Nebrodi orientali: nessun’altra la sovrasta fin dove arriva lo sguardo, tranne quella dell’Etna; ma il vulcano, troneggiando da lungi, oltre l’immenso solco del fiume, non la schiaccia, le dà anzi più spicco. E dal fumante culmine della montagna del fuoco, l’occhio corre, di là dai vaporosi abissi del mare, alle isole del vento (Eolie), emergenti come per incanto dall’incerto orizzonte.
In quel nido d’aquila, tra il candore delle nubi e delle nevi, fuori delle vie del mondo, in mezzo e dinanzi ai primigenii elementi, egli edificò la sua casa: una casa vasta e forte come un castello, ma tutta illeggiadrita dall’edera che la veste come di un verde merletto, ma tutta profumata dal parco che le è cresciuto d’intorno.
La volontà pertinace e l’intelletto d’amore trasformarono quella cima nuda e deserta  in un soggiorno delizioso ed in un campo fecondo. Dove mani imprudenti divelsero e distrussero la secolare foresta, una mano accorta e paziente piantò e difese i nuovi rami che già proteggono l’erta pendice.Quella mano industre prodigò l’alimento al suolo per accrescerne le energie, e tracciò gli argini per infrenare le acque, ed eresse i ricoveri agli armenti che dovevono popolare i pascoli pingui e dissetarsi alle cristalline sorgenti.  

A quel suo piccolo regno dove, pieno di vita, egli mi aspettò nei giorni che le fonti della erano esauste in me, io salii troppo tardi, quando la terra aveva ricoperto da tempo la sua fredda salma.
Ma sotto l’antico bosco e la tenera pineta, nei viali del parco, nelle sale del castello, dinanzi all’altare della cappella, nel cospetto del vulcano formidabile, del mare immenso e del cielo infinito, nella canzone delle fontane, nei fragori del vento, nell’ultima cima come in ogni recesso del monte Colla io rividi e riudii lo spirito gagliardo, nobilmente audace, tenacemente operoso di Paolo Vagliasindi.

            Catania, 23 Dicembre 1906                                                                                           Federico De Roberto

 

Sac. Salvatore Calogero Virzì  da Randazzo Notizie n. 11 – Novembre 1984

 

                                                                     —————————————————————————————————- 

                                                          

        Discorso tenuto dal Sindaco di Randazzo Ernesto Del Campo il 5 settembre 2009, in occasione della posa del Busto in bronzo e dell’Intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo Vagliasindi del Castello.

    E’ con sommo piacere che oggi, sabato 5 settembre 2009, accogliamo, in questa nostra Città di Randazzo, i rappresentanti della Famiglia Vagliasindi, una delle più antiche e più nobili di Randazzo, in occasione dell’inaugurazione del Busto in bronzo e dell’intitolazione della Sala Giunta al Barone Paolo, che, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò alla nostra città ed alla Sicilia tutta.
Riteniamo che occasioni come questa siano utili per conoscere, capire, approfondire il nostro passato, la nostra storia, la nostra cultura.
Ho detto in occasione della recente intitolazione della Piazza di Montelaguardia all’Avv. Gualtiero Fisauli e mi piace qui ricordarlo Una società che dimentica le proprie origini, la propria storia, indipendentemente dal ceto sociale, dal ruolo o dall’appartenenza politica dei relativi protagonisti, è una società senza memoria.
Un popolo senza ricordi, senza capacità critica, senza dialogo e senza riflessione non ha futuro, anzi ha difficoltà a comprendere persino il presente”.
Ma chi era questo nobile uomo della nostra terra?
Riteniamo opportuno tracciarne un breve profilo biografico che, certamente, non pretende di essere completo ed esaustivo tenuto conto dell’intensa attività svolta in ogni campo dall’uomo, dal politico, dallo statista, sia qui a Randazzo, dove fu Sindaco, sia al Parlamento Nazionale, dove fu Deputato, sia ancora al Governo, dove fu Sottosegretario di Stato, apprezzato tanto che ebbe l’onore di una epigrafe dettata da Federico De Roberto ed eternata su una bianca lapide marmorea apposta al cantonale della sua casa avita e scolpita dal più abile sculto­re della città, Antonino Corallo.
Paolo Vagliasindi, nato il 16 settembre 1858, era il terzo di 13 figli del Ba­rone Francesco del Castello e di Benedetta Piccolo di Calanovella.
Casato illustre, quello del Vagliasindi, presente a Randazzo già alla fine del XVI secolo, ripartitosi successivamente, dal ceppo principale, in numerosi altri rami, così come altrettanto illustre era, ed è, quello dei Piccolo che, tra i suoi, annovera personaggi di spicco illustri come il grande scrittore Lucio, discendenti da antica nobiltà siciliana, imparentati con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, altro celebre scrittore, noto per il suo romanzo “Il Gattopardo”.
La famiglia Vagliasindi aveva avuto sempre un ruolo di primo piano nella vita cittadina, protagonista in ogni attività socio- economico-culturale di Randazzo.

Busto di Paolo Vagliasindi nella sala della Giunta – Palazzo Municipale Randazzo


Ancora giovane, fu inviato a Roma dove, col massimo dei voti, conseguì la laurea in giurisprudenza che gli diede la possibilità di esercitare, per qualche anno, la professione di legale e di avviarsi verso la politica, che lo avrebbe successivamente portato al Parlamento ed al Governo.
Nel 1885, a soli 27 anni, veniva eletto Sindaco di Randazzo, carica alla quale venne riconfermato nel 1887, portando nell’amministrazione della cosa pubblica la fierezza e correttezza che furono le doti principali del suo carattere.
Non erano anni facili, né a livello locale, né ancor meno a livello nazionale.
Leggiamo, infatti, in un ritratto della vita pubblica politica del paese in quegli anni a cavallo tra il XIX ed il XX secolo fatto dal fratello Diego, uomo singolare, estroso, intelligente:
corpo elettorale non sempre all’altezza della situazione, Consiglio Comunale il più delle volte diretto dalle fazioni in eterna lotta fra di loro, impreparato nel sapere affrontare gli eterni problemi della Città, vita pubblica domi­nata dal contrasto insanabile delle famiglie più abbienti pronte, ad ogni momento, ai dispettucci, alle astiosità, alla violenza, e – nel marasma di contraddizioni, di risenti­menti e di bramosia del potere – , ecco inserirsi, con una vio­lenza inaudita, la vertenza De Quatris che doveva trascinarsi per oltre 50 anni, fino al secolo successivo, schierando su posizioni diverse le opposte fazioni.
Vertenza che agitò la vita della nostra Città per tanti anni, con le azioni più irriverenti contro la Chiesa di Santa Maria che, “colpevole” solo di avere ricevuto in eredità dalla Baronessa Giovannella De Quatris i suoi due feudi di Flascio e Brieni, si vide spogliare, alla fine, del suo ingente patrimonio”

Per di più, nel 1887 si diffuse una tremenda epidemia di colera, che il Nostro giovane sindaco affrontò in maniera responsabile, organizzando i lazzaretti e soccorrendo in prima persona gli ammalati, coinvolgendo pure i suoi collaboratori, tanto da meritare, più tardi, l’attribuzione della medaglia d’argento al valore civile da parte del Governo proprio perché, con tanto ardimento aveva saputo affrontare le sue responsabilità di uomo al servizio della comunità.
Dimostrò, inoltre, il suo impegno alla guida della Città nel curare le strade, ma soprattutto imprimendo un nuovo impulso all’agricoltura, ed in particolar modo aprendo nuove vie al commercio del vino, il principale prodotto su cui si basava, allora, la nostra economia.
Coincide, infatti, con quest’epoca l’importanza del porto di Riposto da cui partivano navi e bastimenti carichi di vino diretti in tutto il mondo, Russia compresa. E ciò a dimostrazione del significativo rilancio in quel tempo della viticoltura etnea.

…la scienza ha nell arte la funzione di metodo, fornisce gli strumenti per l osservazione oggettiva del fatto umano e cerca di ricostruirlo in totale aderenza al vero nell arte quel che più ci attrae è sempre la vita Romanzi importanti: Giacinta e Il marchese di Roccaverdina A list of procedures and steps, or a lecture slide with media. Luigi Capuana. 23.


Da rilevare, ancora, che fu proprio durante la sua sindacatura che vennero iniziati, e successivamente portati a termine gli scavi archeologici in Contrada S. Anastasia, i cui reperti sono stati catalogati e resi fruibili nel nostro Museo Archeologico dedicato all’altro cugino Paolo Vagliasindi, oggi vero punto di forza dell’offerta culturale della nostra città.
L’esperienza di pubblico amministratore di una cittadina così contrastata lo aprì verso nuovi interessi, più complessi e più vasti, in cui avrebbe potuto esplicare gli ideali che formavano la sua per­sonalità.
Paolo Vagliasindi meditava di compiere quel “salto di qualità” che da una cittadina di provincia del “profondo sud” lo avrebbe portato ai palazzi della Capitale. Iniziava, così, a preparare il terreno per il momento in cui avrebbe presentato la sua candidatura al Parlamento Nazionale.
Consapevole dell’importanza tanto di una solida base politica, quanto del peso determinante della stampa, spostando il suo centro d’interessi verso il capoluogo etneo riorganizzò a Catania l’Associazione Monarchica che diventerà, poi “Associazione Costituzionale”, di cui Paolo sarà presidente fino all’anno della morte –, e rilanciò il foglio La Sicilia, trasformandolo in un vero e proprio giornale, rivolto ad un più vasto pubblico, che sarebbe diventato “la palestra della sua battaglia”.
Diretto da Giuseppe Simili, e finanziato dal principe Manganelli, il periodico resterà in vita fino al 1923. L’attuale testata omonima nascerà, poi, nel 1945 ad opera di un diverso gruppo editoriale.
Polemista di valore ed alieno però da ogni forma di sterile polemica fine a se stessa, Paolo Vagliasindi, sia come giornalista, sia come politico, seppe esprimersi con dignità, aperto ad ogni novità, lontano da compromessi; ribelle ad ogni imposizione, con decisa fermezza di carattere, si conquistò la stima e il rispetto persino dei suoi più acerrimi nemici politici quali, per esempio, il famoso De Feli­ce, dominatore della sinistra catanese.
Gli anni che scorsero tra la fine dell’800 e l’inizio del nuovo secolo furono tra i più oscuri e depressi della vita nazionale senza grandi ideali e senza grandi spe­ranze, fra miserie e avversità d’ogni sorta: grandi dissesti fi­nanziari, scandali di ogni sorta privati e pubblici, processi, indegnità morali, difficoltà internazionali. In questo tremendo periodo politico si innestava l’attività del nuovo Onorevole, Paolo Vagliasindi.
Presentatosi alle elezioni per la prima volta nel 1892, per la XVII legislatura, nel Collegio elettorale di Catania II (Acireale), fu eletto con un larghissimo consenso popolare, facendo parte dei “Con­servatori liberali” del partito di Destra.
Grande fu il numero delle simpatie che egli godette e così poté essere rieletto come rappresentante della sua terra natia nel 1894, e poi nel 1897, per il Collegio di Bronte, e poi ancora una quarta volta nel 1900, nei due Collegi di Bronte e di Giarre, optando per Bronte.
Nel 1899, per i suoi meriti e soprattutto per la sua competenza nei problemi agricoli, fu chiamato nel secondo Gabinetto Pelloux come Sotto­segretario all’Agricoltura, Industria e Commercio.
Incarico che mantenne dal 14 maggio 1899 al 21 giugno 1900, per tutta la durata del governo, avendo una parte non indifferente in moltissimi progetti che riguar­davano l’agricoltura nazionale, come ancora possiamo co­nstatare dal volume delle «Cronache Parlamentari» del tem­po e, soprattutto, fece numerosi interventi e propose numerosi provvedimenti che riguardavano la Sicilia.
Nel frattempo, il 19 luglio del 1897, si era sposato a Torino con la giovane Ottavia Caisotti dei conti di Chiusano, dalla quale ebbe cinque figli: Laura, Benedetta, il terzogenito Emilio – l’unico maschio che purtroppo morirà in tenerissima età, a soli 3 anni, nel 1903 –, e poi ancora le altre due figlie: Maria ed Ersilia.
Il 31 dicembre 1899 gli veniva conferito il titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
Nel mese di novembre del 1904 Paolo Vagliasindi si ricandidò nel Collegio di Bronte, ma stavolta non veniva rieletto a seguito di pressioni ed intimidazioni ad opera dei suoi avversari.
Il barone Paolo Vagliasindi, raccolto il materiale ed acquisite le testimonianze necessarie, presentò ricorso, chiedendo l’annullamento della votazione, ma, mentre si era in attesa che la Giunta delle Elezioni emettesse i provvedimenti definitivi, colpito all’improvviso da una pleurite, nel giro di pochi giorni, alle ore 14.30 del 23 dicembre 1905, ad appena 47 anni, cessava la sua vita terrena.
Sbalordì l’intera città che in tre giorni appena si era potuta concludere la carriera e la vita di un uomo tanto stimato ed ammirato, che aveva polarizzato sopra di sé le speranze del partito, l’ammirazione incondizionata degli avversari, il vanto dei parenti e della città natia.Il giornale “La Sicilia” di cui era collaboratore ne pubblicò un necrologio a tutta pagina.
Tra i cittadini più autorevoli che si recarono in visita fu notato “il prof. Luigi Capuana”. Come riportato da La Sicilia del 24-25 dicembre 1905, ai funerali di Paolo Vagliasindi la città di Catania fu rappresentata da tutte le classi sociali.
Vasta fu l’eco della sua dipartita: si commossero i poeti, che vollero innalzare il loro canto all’uomo insigne scomparso immaturamente; pianse il famoso scrittore Federico De Roberto, che volle rendere omaggio all’amico estinto col dettare il testo della lapide che, come ab­biamo detto, fu apposta a Randazzo sul cantonale del Palaz­zo di Famiglia che ancora oggi possiamo leggere sul niveo mar­mo:

   Paolo Vagliasindi / nelle lotte della vita pubblica / portò la forza e la gentilezza / di un cavaliere antico / in Parlamento e al Governo / fu propugnatore immutabile / di libertà con ordine / crudelmente troncata / prima di dare tutti i suoi frutti / l’opera nobilissima / del Cittadino esemplare / vive nella memoria dei contemporanei / rivivrà nella storia / di questa diletta sua terra.

Come ebbe a scrivere L’Ora del 23.12.1905, giorno della sua dipartita terrena, Paolo Vagliasindi godeva “le simpatie della cittadinanza, per le alte qualità morali e intellettuali, che lo distinguevano tanto da meritarsi anche la stima degli avversari”.

Ed è proprio per ricordare – ancora una volta – questo nobile figlio della nostra terra, il quale, pur nella sua breve vita, tanto lustro portò a Randazzo e alla Sicilia, che oggi siamo qui a farne memoria, inaugurandone il Busto in bronzo, gentilmente donato dalla famiglia ed accettato dall’Amministrazione Comunale con Atto deliberativo n. 38 del 30 marzo 2006, assunto dall’Amministrazione guidata dal Prof. Salvatore Agati e integrato con Delibera n. 76 del 15 maggio 2009, ed intitolandogli la Sala Giunta, ben consapevoli come siamo che una città, o un popolo, che non ha memoria storica del proprio passato, non ha certamente neanche le basi giuste e solide per il suo futuro.

 

Lettera al Sindaco Francesco Sgroi per acquisire dall’Archivio di Stato di Catania l’archivio privato dell’on.le Paolo Vagliasindi.

 

La relazione che accompagna l’Archivio puoi leggerla di seguito.

 

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