Randazzo : Sala consiliare “Falcone e Borsellino” gremita per la presentazione del libro postumo di Lucia Lo Presti
“Randazzo la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale”.
Si è svolta il 23 aprile, presso la Sala consiliare “Falcone e Borsellino” del Comune di Randazzo, gremita da un folto pubblico di amici, parenti, conoscenti, giovani e non, la presentazione del libro di Lucia Lo Presti Randazzo, la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale, pubblicato da Il Convivio Editore. Una presentazione di certo insolita, per l’assenza dell’autore.
Dopo il saluto del primo cittadino, prof. Michele Mangione, ha preso la parola Gaetano Di Silvestro, in veste di moderatore, tracciando una breve biografia di Lucia Lo Presti, una ragazza di Randazzo che nel 2012 aveva conseguito la laurea all’Accademia di Belle Arti di Catania, specializzandosi in Restauro, venuta a mancare a soli 28 anni il 5 giugno 2014, dopo aver lottato contro una lunga malattia.
Il volume presentato è appunto la sua tesi di laurea, che i familiari hanno voluto pubblicare non solo per onorarne la memoria, e per rendere tutti partecipi di una ricerca rilevante per la storia della città, ma anche per devolverne il ricavato alla Fondazione IEO (Istituto Europeo Oncologico) – CCM di Milano. Si tratta di una monografia che indaga i danni subiti dalla cittadina di Randazzo durante i bombardamenti del 1943, al fine di fare un bilancio non solo delle opere distrutte, ma anche di quelle danneggiate e ancora recuperabili.
Primo relatore è stato Giuseppe Manitta, direttore editoriale de “Il Convivio”, critico letterario, autore di numerosi volumi, tra i quali apprezzati studi sul Leopardi, ma anche compagno di studi di Lucia, negli anni di frequentazione del Liceo classico “Don Cavina” di Randazzo:
“Con Lucia ci eravamo conosciuti in un’aula del Liceo – ha esordito – e quindi la mia partecipazione emozionale è superiore rispetto ad altri episodi del genere” e ha proseguito analizzando la metodologia utilizzata dall’autrice nella ricerca e nell’uso delle fonti, affermando: “Lucia ha svolto un lavoro fondamentale, quello che è avvenuto a Randazzo fa parte della storia, ma purtroppo i piccoli centri mancano di studi su tali avvenimenti, e Lucia ha colmato questo vuoto. Il metodo di ricerca e il metodo storiografico individuano la centralità di Randazzo nella 2a guerra mondiale, poiché il paese si trovava lungo una linea di difesa che interessava le forze italo-tedesche. Oltre alle fonti letterarie e alle testimonianze, ancora più importanti sono le fonti iconografiche, sia quelle antecedenti la distruzione, sia le immagini riprese nel momento della distruzione, che mostrano le deturpazioni subite dalla città”, per concludere: “Nel libro di Lucia non è vi è solo l’analisi della distruzione, ma di quello che si può recuperare del patrimonio artistico e architettonico, quindi il libro va letto anche in positivo”.
È stata poi la volta di Maristella Dilettoso, per oltre un trentennio direttrice della Biblioteca comunale, giornalista, autrice di numerosi articoli e di testi sulla storia e tradizione locale, che si è soffermata sugli aspetti devastanti dei bombardamenti del luglio-agosto 1943 per la città di Randazzo, su come quei tragici giorni furono vissuti dagli abitanti, e quanto negli anni e nelle generazioni successive sia stato importante per loro conoscere quale fosse prima il volto della città.
“La mia generazione ha avuto la sorte di non conoscere la guerra, almeno non direttamente, ma è cresciuta nell’immediato dopoguerra, quando il ricordo di quei giorni, e di quegli eventi, era ancora troppo forte, e tante ferite non si erano ancora chiuse e cicatrizzate.
La mia generazione non è cresciuta soltanto con i racconti delle fiabe, ma è venuta su anche con i racconti ancora vivi del tempo di guerra, racconti di aerei, di bombe, di sfollamento nelle campagne, di incertezza del domani, di fame, di paura.
La mia generazione ha camminato, per diversi anni, lungo le strade di un paese che portava visibili le stimmate della guerra, imbattendosi ancora in tante case e palazzi sventrati impietosamente, o ridotti in macerie.
Cosa c’era, cosa è scomparso, cosa è rimasto, cosa è stato recuperato… ecco l’importanza di questo libro”, aggiungendo: “Il libro si rivela molto interessante perché è un altro tassello che va ad aggiungersi agli scritti che costituiscono, sotto aspetti diversi, la bibliografia su Randazzo, per noi randazzesi e per quanti ne avessero la voglia, potrà essere utile a ricostruire, a immaginare com’era il nostro paese, e a non dimenticare. Inoltre il libro raccoglie, in un tutto organico, notizie che finora si trovavano in ordine sparso, e offre una vera e propria mappatura del paese, perché suddivide la materia in edilizia sacra, civ
ile, militare, toccando chiese, palazzi, edifici pubblici, vie, porte, ecc. e distinguendo tra patrimonio distrutto, danneggiato, e recuperato”.
Come puntualmente è documentato dal libro di Lucia Lo Presti, il luglio – agosto 1943 fu un mese di incessanti attacchi aerei, dove, ad onta della Convenzione dell’Aja del 1907, non si esitò a bombardare ospedali, edifici indifesi, chiese e luoghi di culto, vi persero la vita molti civili, e come se ciò non bastasse, vi furono anche gli strascichi, a causa dei tanti ordigni inesplosi di cui pullulava il territorio di Randazzo, che nell’immediato dopoguerra causarono morti e numerosi feriti, anche tra i bambini. “A morire, oltre la gente, furono anche le opere d’arte…” con questa frase lapidaria Lucia concludeva infatti la sua Tesi di laurea.
Molto indovinate le citazioni di scrittori siciliani poste in apertura dei capitoli: dalla Cronachetta siciliana di Nino Savarese, per la parte storica, e dagli autori randazzesi per la parte descrittiva, è come se questi incipit facciano da contrappunto alla descrizione dei nudi fatti, proponendo le sensazioni e riflessioni dell’uomo.
Il sindaco di Randazzo, Michele Mangione, ha concluso, nella sua qualità di docente, ravvisando l’opportunità di adottare il testo nelle scuole superiori, e la necessità di trasmettere ai ragazzi i valori della tradizione locale, educarli a conoscere la storia del proprio paese, di avviare dei progetti che incoraggino gli alunni a ricostruire, anche attraverso la conoscenza delle fonti orali, la mappatura del paese e del patrimonio scomparso, per far crescere una gioventù impegnata a raccogliere il valore della storia e della propria storia personale.
Dopo alcuni interventi del pubblico in sala, fra gli altri quello del professore Arcidiacono, dell’Accademia di Belle Arti, col quale la giovane scomparsa aveva collaborato negli ultimi tempi a un tirocinio per il restauro di una chiesa a S. Pier Niceto, e della dott.ssa Rossella Caporale, amica e collega di studi, che tra l’altro ha osservato: “Lucia sarebbe stata felicissima, perché desiderava concretizzare con la pubblicazione questo suo lavoro”, è stato il coordinatore della serata, Gaetano Di Silvestro, a concludere, dicendo:
“Penso che Lucia ci abbia voluto dare un messaggio, di riunire le nostre forze, di capire le ricchezze che possediamo e di raccoglierne il frutto, il messaggio che ci lascia Lucia è di amore verso il proprio paese”.
Maristella Dilettoso (Articolo pubblicato su Il Convivio n. 65 – 2016)
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Lucia Lo Presti – La Cassino del Sud
(Randazzo 23 aprile 2016: Aula Consiliare “Falcone e Borsellino” – contributo di Maristella Dilettoso durante la presentazione del libro)
Se mi trovo qui stasera, è perché tempo addietro i familiari di Lucia vollero affidarmi questo testo per una revisione, prima di darlo alle stampe, e voglio ringraziarli per questa fiducia.
Il testo, infatti, era nato come una tesi di laurea, e prima che diventasse un libro, questo era un primo passaggio obbligato: dei passaggi successivi, e dell’aspetto editoriale, si è occupato poi Giuseppe Manitta. Sinceramente, dopo il suo intervento, dove sono stati approfonditi gli aspetti storici e letterari, c’è poco da aggiungere.
Avevo conosciuto l’autrice, anche se superficialmente, per ragioni familiari, e inoltre quando operavo presso la biblioteca comunale, l’avevo incontrata spesso proprio mentre lavorava alla tesi, e cercava dei testi, delle fonti, e qualche suggerimento.
Tuttavia c’è un altro aspetto di questo lavoro che mi intriga, e che mi ha incuriosita da sempre, ed è la voglia di capire, di sapere come e quanto sia cambiato il volto di Randazzo nell’arco di un secolo. Tanto che mi ero occupata anni addietro dell’argomento, dei bombardamenti alleati e di ciò che ne è conseguito per Randazzo, molto più in breve, naturalmente, per un articolo pubblicato nel 2000, dove provavo a censire i danni riportati dalla città a causa dell’evento più catastrofico che l’abbia colpita fino ad ora. Questa è una ragione in più perché questo scritto mi ha profondamente colpita e interessata.
La mia generazione ha avuto la sorte di non conoscere la guerra, almeno non direttamente, ma è cresciuta, negli anni dell’immediato dopoguerra, quando il ricordo di quei giorni, e di quegli eventi, era ancora troppo vivo nei più grandi, tanti lutti erano ancora troppo recenti, tante ferite non si erano ancora chiuse e cicatrizzate.
La mia generazione non è cresciuta soltanto con i racconti delle fiabe, ma è venuta su anche con i racconti ancora vivi del tempu ri guerra, ed erano racconti di aerei, di fortezze volanti, di spezzoni incendiari, di oscuramento, di sfollati nelle campagne, di incertezza del domani, di fame, di paura.
La mia generazione ha camminato, per diversi anni, lungo le strade di un paese che portava visibili i segni della guerra, perché la ricostruzione fu lenta e faticosa, percorrendo quelle vie ci imbattevamo ancora in tante case e palazzi sventrati in modo impietoso, o ridotti in cumuli di macerie, e quelli rimasti in piedi mostravano sui muri, come delle ferite ancora aperte, i fori delle bombe.
La maggior parte dei randazzesi visse quella “lunga estate calda” del 1943 nelle case di campagna, nelle proprie o in quelle di amici e parenti, in una strana promiscuità, con poco cibo, dando fondo alle scorte alimentari che erano riusciti a portarsi dietro; qualcuno dei più giovani tentava ogni tanto delle rapide spedizioni in paese, per recuperare qualche provvista dimenticata nella fretta, mettendosi così a duro rischio e pericolo: spesso durante queste “incursioni” trovavano la loro casa già distrutta, in altri casi saccheggiata, o ancora invasa da saccheggiatori, tedeschi o inglesi che fossero.
Andando avanti negli anni, si è fatta sempre più forte e costante la voglia di conoscere quale aspetto avesse Randazzo prima di quel fatidico luglio-agosto 1943, ci sarebbe voluta la macchina del tempo, invece abbiamo dovuto accontentarci di poche immagini viste sui libri, come quello del De Roberto, e di qualche sbiadita foto d’epoca, che purtroppo non documentano tutto, perché di molti angoli del paese, chiese, palazzi, statue, quadri, ecc. non esiste più nessun documento o nessuna testimonianza.
Cosa c’era, cosa è scomparso, cosa è rimasto, cosa è stato recuperato… ecco l’importanza di questo libro.
Vero è, e dobbiamo ammetterlo, che anche prima di allora, ma soprattutto dopo, tanti altri guasti sono stati perpetrati ai danni del nostro patrimonio, e non solo con le distruzioni, ma anche con interventi quanto meno discutibili.
Ma quella che si consumò in appena un mese, un mese interminabile per chi lo visse, fu la più devastante delle catastrofi, il culmine, una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo, perché di danni Randazzo ne aveva subiti tanti nel passato, saccheggi, incendi, inondazioni, eruzioni dell’Etna, terremoti, e tanti, anche per incuria umana o ignoranza, ne avrebbe subiti dopo.
Perché dopo i danni inferti dagli Alleati e dai Tedeschi, la storia di Randazzo, è costellata di vere e proprie violenze al patrimonio, al residuo nostro patrimonio, che dal dopoguerra si sono protratte fino ai giorni nostri, penso all’euforia della ricostruzione negli anni ’60, e penso a tanti rifacimenti e restauri anche decisi dall’alto, e spesso improvvidi e di dubbio risultato.
Come già è stato detto, e come puntualmente è documentato dal libro di Lucia, fu un mese di incessanti attacchi aerei, dove in barba alla Convenzione dell’Aja del 1907 non si esitò a bombardare anche ospedali, edifici indifesi, chiese e luoghi di culto, persero la vita numerosi civili, o per mano dei soldati, o sotto le bombe, come quelli che si erano rifugiati dentro la chiesa di S. Martino, devastata dalle bombe il 7 agosto, anzi uno dei beni più danneggiati, e come se ciò non bastasse, vi furono anche gli strascichi, una lunga scia di sangue, a causa di tutti gli ordigni inesplosi di cui pullulava il territorio di Randazzo, che nell’immediato dopoguerra causarono morti e numerosi feriti, anche tra i bambini.
Abbiamo avuto molte testimonianze su quei giorni, oltre a quelle riportate sul libro, credo che ciascuno di noi ne abbia sentito parlare in gioventù, in famiglia e fuori, e purtroppo non abbiamo avuto sempre il buon senso e la preveggenza di registrarle o di trascriverle.
Però una testimonianza, una per tutte, vorrei riportare, dato il tema, quella di un uomo, un grande uomo, che a quei tempi non era ancora cittadino randazzese (lo sarebbe diventato nel 1979). Era venuto a Randazzo nel 1937, aveva trovato una splendida cittadina medievale, uno scrigno di tesori d’arte, e se ne era innamorato, ma anche lui come tutti dovette assistere, in quella estate infausta del 1943, allo scempio e alla devastazione. Parlo di don Virzì, che nella premessa al suo libro sulla chiesa di S. Maria descrive tutto questo con parole che a oltre 30 anni di distanza commuovono e danno i brividi.
“Ho perduto, come tanti altri, tutto, rimanendo con solo ciò che avevo addosso e col rimpianto della distruzione di tutto quello che era stato il sogno più bello della mia vita: la visione di bellezza di una città medievale (e qui descrive tanti particolari, finestre, portali, viuzze…). Ed io, pellegrino doloroso, mi immersi in mezzo a queste rovine, cercando il passaggio tra i mucchi di macerie, … ma ogni cosa gridava il suo dolore e il suo strazio…E il mio cuore impotente pianse davanti alla distruzione di tanto materiale artistico e storico insostituibile che aveva reso, con la sua scomparsa, impenetrabile e incomprensibile ormai alla mente umana intieri periodi storici della vita della città e della Chiesa…”
Per me, se mi concedete una considerazione personale, c’è una statua che compendia e rappresenta la guerra e la distruzione di Randazzo: avrete certamente presente la Madonna attribuita a Vincenzo Gagini, oggi a S. Martino, e un tempo a S. Maria del Gesù. È una statua bellissima, per me la più bella che ci sia a Randazzo, ho visto qualche vecchia fotografia che la ritrae ancora integra… invece adesso è una Madre dall’aria triste, che regge sulle braccia un Bambino con le gambe spezzate… ecco, questa statua è per me una metafora della guerra, una metafora di ciò che la guerra fece e lasciò a Randazzo: dolore, danni agli uomini e alle opere d’arte, la metafora di una storia spezzata.
Infatti “A morire, oltre la gente, furono anche le opere d’arte…” con questa frase lapidaria Lucia conclude la sua Tesi di laurea. È una frase che fa riflettere.
Perché, a rileggere queste pagine, dove è stato profuso impegno, ricerca, lavoro fisico e mentale, nel ricostruire con puntualità, precisione cronologica e documentaria, la sofferenza di una città, è difficile non ripensare alla sofferenza di Lucia, ma anche al fatto che una giovane donna, nell’espressione culminante del suo percorso di studio, qual è una tesi di laurea appunto, ha espresso un atto d’amore, ma anche di speranza e di volontà di recupero, verso il proprio paese.
Il libro si rivela molto interessante – oltre che per lo scopo umanitario e solidale per cui ne è stata voluta la pubblicazione – ma perché è un altro tassello che va ad aggiungersi agli altri scritti che costituiscono, sotto aspetti diversi, la bibliografia su Randazzo, è pregevole per la ricchezza delle fonti, sia locali che esterne, ma su questo si è già soffermato Giuseppe Manitta, per noi randazzesi e per quanti ne avessero la voglia, potrà essere utile a ricostruire, a immaginare com’era il nostro paese, e a non dimenticare.
Questo libro raccoglie, in un tutto organico, notizie che finora si trovavano in ordine sparso, e offre una vera e propria mappatura del paese, perché suddivide la materia in edilizia sacra, civile, militare, toccando chiese, palazzi, edifici pubblici, vie, porte, ecc. e distinguendo tra patrimonio distrutto, danneggiato, e recuperato.
Ho trovato molto indovinate le citazioni dalla Cronachetta siciliana di Nino Savarese, per la parte storica, e degli autori randazzesi per la parte descrittiva, perché è come se questi incipit messi in apertura a ogni capitolo facciano da contrappunto alla descrizione dei fatti, dei nudi fatti, proponendo le sensazioni e riflessioni dell’uomo.
E fa ancora molta impressione (personalmente almeno mi ha molto colpita) rivedere la fredda cronologia dei bombardamenti, dell’aviazione alleata, vedere come, in questo “bollettino delle incursioni” il nome di Randazzo ricorre di continuo, quasi tutti i giorni, in un elenco cosi asettico, di una freddezza chirurgica, direi, dove si elencano le località colpite, e tutto questo mentre qui, nel paese, per ciascun abitante, ogni giornata, ogni incursione, rappresentava altra sofferenza, dolore e distruzione.
Infine, ricordiamoci (non voglio dirlo a scopo consolatorio ché sarebbe riduttivo) che ciascuno continua a vivere attraverso quello che ha prodotto, nel bene come nel male, attraverso le proprie opere: oggi ancora tanta gente del passato, artisti pittori musicisti poeti continuano a parlarci attraverso i loro quadri, le loro musiche immortali, i loro scritti, consegnando all’umanità valori che sopravvivono nella memoria, nella cultura e nella storia. E conoscere il passato del proprio paese alimenta la memoria storica, perché la memoria non è un dato immobile, statico, ma un qualcosa che, passando per la conoscenza delle proprie radici e della propria identità, ci fa proiettare verso il futuro.
Randazzo, la Cassino di Sicilia. Indagine sul patrimonio storico-artistico distrutto e danneggiato negli anni della seconda guerra mondiale:
Il saggio si articola in due parti: i danni che la guerra ha causato e ciò che, dall’altro lato, ha risparmiato.
Per ognuna di esse si ritrovano riscontri e testimonianze documentarie, siano scritturali o iconografiche, così che è possibile per il lettore non solo affidarsi alla descrizione dei mutamenti, ma anche di seguirli ipso oculo.
Tra le opere danneggiate si possono individuare due categorie ben specifiche: le opere completamente distrutte dalla guerra e dalle ricostruzioni o abbattimenti successivi, quindi oramai non identificabili nel tessuto urbano, ed opere gravemente danneggiate ma ancora esistenti…
The essay is divided into two parts: the damage the war caused and what, on the other hand, has saved. For they themselves are iconographic and documentary evidence, or scriptural, so it is possible for the reader not only rely on the description of the changes, but also to follow them ipso oculus. Among the works are damaged you can identify two specific categories: works completely destroyed by war and the subsequent slaughter, then rebuilds or unidentifiable now into the urban fabric, and severely damaged but still standing.
“Beato quel popolo che non ha bisogno d’eroi” . ( Bertold Brecht)
L’armistizio firmato l’8 settembre 1943 non segnò soltanto l’inizio della Resistenza e della lunga strada che portò l’Italia alla democrazia, ma anche della tragedia di tante migliaia di soldati italiani sorpresi in terra straniera, che in quell’evento invece avevano visto l’imminenza di un ritorno alla loro patria e alle loro case.
Nel settembre 2001 l’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, forse per la prima volta, volle commemorare presso Porta San Paolo gli oltre 500, tra militari e civili, che persero la vita nella cosiddetta battaglia di Roma, nell’intento di fermare l’ingresso dei nazisti nella capitale. Il gesto del Capo dello Stato non era che il seguito di una sorta di viaggio nella storia di quegli eventi, dolorosi e controversi, che drammaticamente si susseguirono dopo l’8 settembre 1943, senza limitarsi alle sole vittime cadute durante la Resistenza, ma ricordando anche quegli 87mila appartenenti alle forze armate che caddero durante la guerra di liberazione, e particolarmente «gli eroi di Cefalonia, Corfù, delle isole dell’Egeo, i marinai della “Roma” e tanti altri che non vollero cedere le armi».
Infatti, il 1° marzo dello stesso anno il Presidente Ciampi si era recato a Cefalonia, ridente isola dello Ionio, per commemorare i soldati italiani della divisione Acqui fucilati dai tedeschi nei tragici avvenimenti che seguirono all’armistizio, una delle pagine più amare e dolorose del 2° conflitto mondiale, ancor più perché dimenticata per decenni dalla storia ufficiale, tenuta viva soltanto nel ricordo dei familiari, e dei pochi sopravvissuti.
Grazie a quel gesto del Presidente parve che finalmente qualcosa si fosse mosso, seguirono infatti una puntata della trasmissione radiofonica Radio anch’io, un reportage televisivo, una puntata di Novecento di Pippo Baudo, il tutto in concomitanza all’uscita sugli schermi di due film, I giorni dell’amore e dell’odio, per la regia dell’esordiente Clever Salizzato, che sembra però essere passato inosservato nelle sale cinematografiche, e Il mandolino del capitano Corelli, di Madden, tratto dall’omonimo romanzo di Louis de Berniéres, in cui, come spesso avviene nella cinematografia straniera, gli italiani sono rappresentati con la solita immagine stereotipata di gente intenta solo a suonare il mandolino.
Di là da tutto questo, e dei giudizi in merito, l’importante è che se ne sia cominciato a parlare, e che dopo decenni di un silenzio, non del tutto incolpevole, si sia aperto uno spiraglio su quei fatti. Purtroppo però ai fatti analoghi verificatisi sul fronte dell’Egeo non fu riservata la stessa diffusione dalla stampa e dai media.
Quando, l’8 settembre 1943, Badoglio firmò l’armistizio, pur prevedendo che avrebbe potuto conseguirne un’aggressione da parte tedesca, lo Stato Maggiore contava di avvertire i comandi periferici solo dopo qualche giorno.
Poiché gli Alleati anticiparono la proclamazione, e i tedeschi ne vennero subito a conoscenza, i più impreparati a fronteggiare gli eventi erano proprio gli italiani: nei Balcani, in Grecia e nell’Egeo le truppe italiane e tedesche erano frammischiate, e le nostre, inferiori numericamente, furono, in pratica, lasciate allo sbaraglio; gli ordini centrali furono così tardivi, confusi e contraddittori da far sì che i militari italiani cadessero nelle braccia dei tedeschi.
Essi infatti, appena avuto notizia dell’armistizio, iniziarono contro l’esercito italiano una serie di rappresaglie, occupazioni, combattimenti, deportazioni. Messi sempre più alle strette, e «traditi» dai loro alleati, dovevano punirli: nei Balcani, in Grecia, nell’Egeo, non vi furono che eccidi e deportazioni in massa. Si volle poi colpevolizzare i comandi periferici, ma, di fatto, l’esercito ricevette ordini contraddittori, quando ci furono, e si trovò abbandonato al proprio destino, in balia dell’alleato del giorno prima, ora nemico acerrimo assetato di vendetta.
Fra le cronache, fuggevoli e frammentarie, di queste vicende, spiccano, perché circostanziati, precisi, ricchi di nomi, testimonianze e densi di pathos, i memoriali di due cappellani militari, due “preti con le stellette” sopravvissuti alle stragi, quello di P. Romualdo Formato[1], cappellano presso il 33° Artiglieria della divisione Acqui, e quello di P. Edoardo Fino[2], cappellano dell’Aeronautica a Rodi.
La resistenza di Cefalonia iniziò il 13 settembre. In un primo momento fu dato l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi, che dovevano impegnarsi a rimpatriare gli italiani… Il generale Gandin, comandante della divisione Acqui, volle interpellare i suoi uomini, sottoponendo loro uno strano referendum: «contro i tedeschi – con i tedeschi – cessione delle armi»; la truppa si espresse per la resistenza, che durò fino al 22. Non giunsero i richiesti rinforzi alleati, invece dal cielo e dal mare arrivano rifornimenti ai tedeschi, il cielo si ricoprì di stukas, la lotta fu impari e feroce.
Il 24 settembre i tedeschi comunicarono al mondo che gli uomini della «ribelle» divisione Acqui avevano in parte deposto le armi, in parte erano stati «annientati in combattimento».
Era una menzogna. Lo stesso giorno gli ufficiali furono condotti presso la penisola di S. Teodoro, vicino a una villetta, la «casetta rossa», per essere interrogati; invece furono fucilati in massa.
I superstiti, disarmati, furono imbarcati per essere avviati ai campi di concentramento su due navi che affondarono appena raggiunsero il largo dopo aver urtato contro delle mine.
Le salme della «casetta rossa» furono gettate in mare. Cefalonia, l’isola della morte, era piena di cadaveri. Scrive Padre Formato nel suo racconto drammatico, terribile, eppure profondamente pervaso di spirito cristiano, proprio lui che assolse tutti, e raccolse l’ultimo saluto degli ufficiali: «Ho scritto trepidando… molte volte piangendo». E ancora: «Le vittime di Cefalonia… chiedono qualche cosa alla Patria, per il cui onore esse si immolarono. Chiedono che il loro sacrificio non venga dimenticato. Le gloriose gesta della divisione Acqui dovranno essere tramandate alle future generazioni come uno dei più puri esempi di sacrificio collettivo affrontato per un alto sentimento di obbedienza e di dovere».
Nella vicina Corfù l’ordine di resa fu respinto, i soldati si rifiutarono di consegnare le armi senza dignità e senza garanzie, si resisté con l’appoggio della popolazione, ma il 25 l’isola era in mano ai tedeschi, gli ufficiali uccisi.
Questo sul versante ionico. Dall’altro lato, sull’Egeo, la tragedia si replicò, una due, tre, tante volte quante erano Rodi e le isole del Dodecaneso, tragedia quasi ignorata, presto dimenticata, questa, rievocata dal libro parallelo di Padre Edoardo Fino.
Rodi, l’isola delle rose, fulcro di tutto il Dodecaneso, sede dell’Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni, caduta in mano turca, fu riconquistata dall’Italia nel 1912, durante la Guerra di Libia. Dal 1923, col il Trattato di Losanna, l’Italia vantava il Possedimento delle Isole Italiane nell’Egeo, 14 in tutto: Rodi, Castelrosso, Calchi, Piscopi, Scarpanto, Caso, Simi, Nisiro, Coo (patria di Ippocrate, la più importante dopo Rodi), Calino, Lero, Lisso, Patmo, Stampalia. Non colonie, ma Possedimenti, alle dirette dipendenze del Ministero Affari Esteri, con uno speciale ordinamento giuridico, rette da un Governatore e dai Podestà. Vi erano state realizzate scuole, edifici, strade, ospedali, eseguiti restauri.
A Rodi c’era una missione, e un Cappellano militare per ogni campo. Gli uomini di truppa presenti nell’Egeo prima dell’8 settembre erano oltre 30.000, della divisione Cuneo e Regina, la base navale era a Lero, per l’inadeguatezza del porto di Rodi.
II comando di Roma si preoccupava poco di Rodi e dell’Egeo; sapendo che gli italiani vi erano in maggioranza, l’ammiraglio Campioni fu autorizzato a regolarsi discrezionalmente, ma gli alleati suggerivano di contrastare i tedeschi. Questi occuparono subito gli aeroporti, fecero prigionieri all’improvviso ufficiali italiani, cominciarono a bombardare le caserme, mentre le comunicazioni venivano interrotte, e dall’Italia non arrivavano né notizie, né disposizioni, né rinforzi. Si combatté con sorti alterne, con molte perdite di uomini, fino all’11 settembre.
I soldati che resistettero furono uccisi, mentre, dopo la resa di Rodi, i tedeschi si spostavano verso le isole minori per continuarvi la guerra.
A Coo vi era un ospedale, una Missione cattolica, circa 4000 uomini e pochi tedeschi, fino all’8 settembre l’isola era stata tranquilla.
Dall’11 al 2 ottobre ci furono 30 attacchi aerei, il 3 ottobre arrivarono anche i mezzi navali tedeschi, dapprima scambiati per inglesi.
. Gli inglesi che erano sbarcati precedentemente si defilarono, gli italiani rimasero a combattere da soli, e, sopraffatti dovettero rassegnarsi alla resa.
Gli ufficiali italiani, concentrati nelle saline di Linopoti il 5 ottobre, interrogati sommariamente e avviati verso il porto – per imbarcarli, si disse – lungo il percorso furono mitragliati alle spalle.
Erano un centinaio, 103 probabilmente, ma solo 66 di loro furono riconosciuti nel marzo 1945 quando, grazie al cappellano militare padre Michelangelo Bacheca ed alla pietas e collaborazione degli abitanti dell’isola, greci e civili italiani, rinvenute in fosse comuni, le loro spoglie non furono raccolte e traslate nel cimitero cattolico di Kos, dove una lapide ricorda tuttora il loro sacrificio e i loro nomi. Solo a guerra finita, nel 1954, furono trasportate in Italia e tumulate nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.
Dopo Kos, i tedeschi si spostarono a Lero, che resistette eroicamente, ma inutilmente, fino a novembre.
Col trattato di Cassibile Rodi e le isole dell’Egeo vennero assegnate alla Grecia.
Pagina amarissima, questa, e tuttavia trascurata dalla storiografia ufficiale, dimentica che i martiri ci furono dappertutto, non soltanto alle Fosse Ardeatine e a Marzabotto, partigiani ma anche militari, italiani essi pure, che avevano lasciato la loro terra ed i loro affetti più cari, avevano indossato la divisa, avevano imbracciato le armi, ragazzi di appena vent’anni che con i loro sogni finirono in fosse comuni, o in fondo al mare, senza nome né gloria.
L’oleografia ufficiale della Resistenza, assieme del resto ai tanti governi che si sono avvicendati in quasi sessant’anni, si è resa autrice di un ingeneroso “distinguo”, quasi che, rispetto a quegli italiani che lottarono sulle montagne, questi altri fossero cittadini di serie B.
Ricordiamo anche un’intervista, alquanto sconvolgente, rilasciata dal senatore a vita P. Emilio Taviani[3] dove si dichiarava che nel 1956 non si vollero perseguire i tedeschi responsabili di quegli eccidi perché allora, in tempi di guerra fredda, mentre l’URSS stava invadendo l’Ungheria, e la Germania tentava a fatica di risollevarsi, e di riarmarsi per assumere un ruolo importante in seno alla NATO, prevalse la ragion di stato, per il timore delle eventuali ripercussioni che questi fatti avrebbero potuto avere nell’opinione pubblica. Basti pensare al gravissimo e sconcertante episodio del cosiddetto “armadio della vergogna”.
Quando nel 2001, durante la commemorazione dei morti delle Fosse Ardeatine, e per la prima volta, ad essi furono accostati, e nobilitati nel ricordo, i martiri di Cefalonia, sul fronte ionico, in molti restò ancora una punta di rammarico, un po’ d’amaro in bocca, per la dimenticanza dei caduti dell’Egeo, a Rodi, Kos, Lero, italiani e martiri anch’essi, in quell’estremo guizzo d’orgoglio che fece loro alzare la testa per difendere il nome d’una patria, seppure ridotta in ginocchio e a brandelli.
Era ora che se ne parlasse, di questi morti, ritenuti forse per troppo tempo imbarazzanti, dacché un certo modo di fare storia, manicheo e farisaico, ne aveva relegato in soffitta la memoria, ignorando come «la storia può essere maestra solo a coloro che non hanno troppa fretta di dimenticare».
Sicuramente non hanno dimenticato tanti congiunti, madri, spose, figli, discendenti, molti dei quali hanno visto questi uomini solo in fotografia, ma anche gente tenace, che si è battuta e continua a battersi, contro tante difficoltà, prima tra tutte l’oblio, e poi il disinteresse, l’imbarazzo forse, affinché queste vittime avessero il giusto riconoscimento, anche da parte delle istituzioni.
Poco alla volta, sono nate iniziative, comitati, associazioni, e, dato il forte impatto delle nuove tecnologie, sono apparsi anche dei blog e dei gruppi sui social network, gruppi dove gli interessati hanno potuto conoscersi, comunicare a distanza e prendere e condividere iniziative attraverso il web.
Sull’argomento sono stati pubblicati libri, che hanno squarciato, purtroppo ancora solo in parte, il velo della generale indifferenza, com’è stato nel 2002 per quello del giornalista Ettore Vittorini [5], sulla tragedia delle isole egee in generale, ma, in maniera più circoscritta e dettagliata riguardo ai fatti di Kos, nel 2008 è stata la volta della pubblicazione del colonnello Liuzzi[6], personaggio cardine in questa vicenda, e nel 2010 di quella della professoressa Isabella Insolvibile [7].
Pietro Giovanni Liuzzi, ex colonnello dell’Esercito Italiano, si batte da anni tenacemente, con gli scritti ma anche con le azioni concrete, perché sia riconosciuta dignità a quanti versarono il proprio sangue innocente per mantenere fede a una promessa e a un ideale di patria.
L’aveva già fatto anni prima occupandosi del massacro dei militari italiani perpetrato dai nazisti sull’isola di Cefalonia all’indomani dell’Armistizio dell’8 settembre 1943[8] e adesso, dedicandosi a Kos, da qualcuno definita “la piccola Cefalonia”, per la gravità e l’efferatezza dei crimini consumati, in qualità di Presidente del Comitato per i Caduti di Kos, ha promosso numerose iniziative, volte ad ottenere risultati tangibili, scrivendo ai comuni di provenienza dei caduti, al fine di individuare e contattare i familiari, collaborando e creando gruppi sul web, promuovendo petizioni alle massime autorità istituzionali, organizzando o presenziando a mostre e conferenze che potessero tenere desta la memoria, intervenendo, il 6 ottobre 2013, a Kos, con numerosi congiunti delle vittime, alla cerimonia per il 70° anniversario dell’eccidio degli Ufficiali del 10° Reggimento “Regina”.
Scrive Ugo Sbisà: “A quella pagina oscura della storia italiana si è appassionato in Italia Pietro Giovanni Liuzzi, un colonnello in congedo di origini tarantine, promotore di una petizione al presidente Napolitano per il riconoscimento storico e la commemorazione dell’eccidio di Kos[9] e autore di Kos. Una tragedia dimenticata (…), un volume … nel quale la vicenda viene ricostruita anche attraverso documenti ufficiali rimasti fin troppo a lungo negletti. Nelle intenzioni di Liuzzi, che ha promosso varie conferenze e iniziative e ha ottenuto che nel 2010 e nel 2011 venissero celebrate a Kos commemorazioni ufficiali in onore dei 103 caduti, c’è l’inserimento di Kos negli itinerari della memoria insieme a Cefalonia, El Alamein, Sant’Anna di Stazzena… “ .[10]
Ultimamente lo stesso Liuzzi, si è indirizzato alla ricerca delle fosse comuni mancanti, e di quelle 37, su 103 salme, non ancora recuperate: nonostante le oggettive difficoltà dovute al tempo trascorso, alla natura acquitrinosa del suolo di Linopoti, agli eventi atmosferici (alluvioni, ecc.), alle trasformazioni avvenute nel terreno, ottenuto l’interessamento del ministro Gentiloni, e delle autorità locali di Kos, grazie al contributo materiale ed economico di sostenitori, di operatori italiani e greci, è partita, nella prima settimana del luglio scorso, la cosiddetta “operazione Lisia”[11] . Gli scavi, effettuati nei luoghi dell’eccidio, hanno dato i loro frutti: sono infatti stati rinvenuti oggetti e ossa umane (ancora da identificare attraverso esami istologici e definizione del DNA) di quella che doveva essere una delle fosse comuni.
Pare che le autorità di Kos siano intenzionate a proseguire le ricerche nel tempo, e che gli oggetti ritrovati saranno esposti nel Museo di Storia della II guerra mondiale in allestimento a Kos.
Gaetano Vagliasindi era nato nel 1921, era un ragazzo che amava la famiglia, gli amici, gli scherzi, quando vestì la divisa frequentava il 3° anno di Ingegneria all’Università di Messina, la sua breve vita finì in un giorno di ottobre (il 6, forse) … fu ritrovato nel 1945, assieme a tre dei suoi infelici compagni, in una fossa comune a Linopoti (Kos), grazie alla pietà di un cappellano coraggioso e dei generosi abitanti di quell’isola ridente. Dal 1954 i suoi resti riposano nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di Bari.
Era mio zio, sì, ma non l’ho mai conosciuto se non in fotografia, e non voglio certo dire che fosse speciale o diverso dagli altri, tutti i morti sono un po’ speciali per i loro congiunti. Allora voglio dedicare questo scritto alla memoria di Gaetano e degli altri 102 ufficiali suoi compagni d’arme e di sventura, che videro prematuramente la fine troppo presto e in un luogo troppo bello.
A cura di Maristella Dilettoso
(Articolo pubblicato su Cultura e Prospettive n. 28, Supplemento a Il Convivio n. 62, Luglio – Settembre 2015)
[1] P. Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia (Mursia, 1968)
[2] P. Edoardo Fino, La tragedia di Rodi e dell’Egeo (EICA, 1957)
[3] L’Espresso (n. 45 del 9 novembre 2000)
[4] Dal libro di Franco Giustolisi,, L’Armadio della vergogna (Nutrimenti, 2004): un armadio, rinvenuto nel 1994 in un locale di palazzo Cesi-Gaddi (sede di vari organi giudiziari militari) in via dell’Acquasparta a Roma. Vi erano contenuti centinaia di fascicoli e registri, relativi a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazifascista. Tra i fascicoli, atti riguardanti le più importanti stragi naziste, fra le quali l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, l’eccidio di Monte Sole (più noto come strage di Marzabotto), di Monchio e Cervarolo, di Coriza, di Lero, di Kos, di Scarpanto, la strage del Duomo di San Miniato e altri ancora…
[5]) Ettore Vittorini, Isole dimenticate: Il Dodecaneso da Giolitti al massacro del 1943 (Le Lettere, 2002)
[6] ) Pietro Giovanni Liuzzi, KOS una tragedia dimenticata, settembre 1943 – maggio 1945 (Taranto, 2008)
[7] ) Isabella Insolvibile, Kos 1943-1948. La strage, la storia (Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2010).
Isabella Insolvibile, di Napoli, già borsista della Scuola Superiore di Storia Contemporanea dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, ricercatrice presso l’Università “Federico II” e consulente tecnico della Procura Militare di Roma per l’indagine relativa ad alcune stragi naziste, collabora alle attività didattiche e di ricerca della cattedra di Storia Contemporanea della Seconda Università di Napoli; è membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, componente del gruppo di ricerca che sta lavorando all’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia, e molto altro ancora, si occupa da tempo in maniera specialistica di storia militare, con ricerche relative alle stragi naziste contro soldati italiani e alla prigionia di guerra.
[8]) Pietro Giovanni Liuzzi , Leali ragazzi del Mediterraneo. Cefalonia Settembre 1943: viaggio nella memoria (Taranto, 2006)
[9]) Alla petizione avrebbero aderito ben 4.162 firmatari
[10]) Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 13 giugno 2015
[11] ) Ugo Sbisà, ibid. : “Un ultimo dettaglio di natura storico – letteraria: il nome dell’operazione, “Lisia” .. è stato mutuato dall’epitaffio scritto dal celebre giurista ateniese per i caduti in difesa dei Corinzi
Vi segnaliamo alcuni libri che parlano di questa tragedia.
A cura di Lucio Rubbino