Notizie biografiche del Prof. Enzo Maganuco: nato ad Acate. Ragusa, il 10 novembre 1896, si è spento a Catania il 4 febbraio 1968. Professore di Storia dell’Arte, storico e critico, studioso di tradizioni popolari, conferenziere e pittore, è stato Direttore del Museo Civico del Castello Ursino di Catania.
OPERE:
– Lineamenti e motivi di storia dell’arte siciliana, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, 1932
– Architettura plateresca e del tardo cinquecento in Sicilia, Catania 1939
– Problemi di datazione nell’Architettura Siciliana del Medioevo, Catania 1940
– Icòne di Antonello Gagini in Roccella Valdemone, Catania 1939
– Cicli di affreschi medioevali a Randazzo e a Nunziata di Giarre, Catania 1939
– Opere d’Arte catanesi inedite o malnote in Catania, Catania aprile 1933
– La pittura a Piazza Armerina, Siciliana, agosto 1923
– Artigianato e piccole industrie, 1932
– Le decorazioni dei carri e delle barche, 1945
– Motivi d’Arte Siciliana, 1957
– Bibliografia: Salvatore Nicolosi, Enzo Maganuco, in “La Sicilia”, 6 febbraio 1968, p. 3.
PANORAMI DI PROVINCIA
RANDAZZO
Nelle serie dei panorami di provincia la “regione della Valle dell’Alcantara” deve necessariamente avere uno dei posti più cospicui. Interessantissima così per la storia, come per l’arte ed il paesaggio, Randazzo non si presta ad uno dei soliti brevi profili, che si ridurrebbe ad una arida e banale enumerazione di tutte le gemme delle quali la cittadina etnea va superba.
Preferiamo quindi trattare a puntate i diversi aspetti e le principali caratteristiche dei suoi monumenti e cominciando con lo studio dell’architettura che dà il volto alla città e che non può non colpire persino il più superficiale visitatore, mentre scuote profondamente chi è dotato di una maggiore sensibilità estetica e impone problemi importantissimi a chi particolarmente studia le forme dell’architettura siciliana.
1) L ‘ A R C H I T E T T U R A
“La Sicilia è la chiave dell’Italia” dice Goethe. Ma se la Sicilia è la chiave dell’Italia, Randazzo è la chiave della Sicilia.
Randazzo con Nicosia, Piazza Armerina ed Enna forma un quadrinomio glorioso che racchiude da solo – se si eccettui l’arte arabo-bizantino – tutta la scala delle manifestazioni artistiche del nostro medioevo.
Mentre però Nicosia ha in prevalenza forme architettoniche castigliane dai portali a merletti lapidei lineari e stilizzati, e Piazza Armerina forme aragonesi dagli archi con cuspide gigliata a fiore di magnolia o di canna indica, ed Enna archi severi e secchi di purissimo stile romanico-normanno e di gotico-svevo, Randazzo accoglie tutte le forme più svariate che ebbero risonanza in Sicilia; essa tutte le contiene, associate o isolate, e le armonizza in rigogliosa mostra che va dai reliquari d’argento ai fonti battesimali gotici, dalle cupe fortezze ai sinfonici torrioni campanari, dalle severe bifore romaniche a quelle gigliate aragonesi che portano l’eleganza della loro inflorescenza anche sugli archi e sui portali della modesta architettura rustica del quattrocento perietnèo.
Randazzo poi, fiera della sua tradizionale architettura dugentesca e trecentesca, ha rigettato ogni forma tardiva o barocca , quasi che le sue fosche e possenti mura perimetrali che affiorano or qua or là dalla massa basilare di cupa lava a riflessi metallici, si siano innalzate a impedire ogni influenza di quel tardo baroccaccio spagnolo che, coi suoi aggetti violenti e con le sue convulsioni di linee curve e spezzate, avrebbe per certo ucciso l’armonia sana discendente dalle masse architettoniche sveve, ad archi a pieno centro.
Lo stesso arco acuto che a Randazzo è una nota tematica comunissima nello svolgimento architettonico, non fu quivi adottato in svettamenti esili e nervosi; esso trovò negli architetti randazzesi del trecento, dei tenaci moderatori; chè, del resto, nell’aver saputo piegare l’arte gotica esile e svettante a un tono di serenità e di compostezza che non stride a contatto del gusto di noi figli di Kamarina e di Siracusa, sta la grandezza degli architetti siciliani del medioevo e del rinascimento.
E ora, se Tu arrivi a Randazzo, che conserva il calore del tempo anche ne vestiario dei popolani, in una sera quando la luna gioca tra gli archi acuti a catena di via degli Uffizi o tra le merlature e le merlettature lapidee di S. Maria, o tra i finestroni del fosco torrione campanario di S. Martino dalle variegature bianche e di verde basalto tra i faci di colonne di nera lava macchiettata di rugginosi e gialli licheni, ti par rivivere un attimo del passato; ché nessun festone barocco ti distoglie; e sui ballatoi delle umili case ancora si aprono porte incrociate di archi catalani, in cui la lava, pur nel suo nero metallico è stata ridotta a un bel merletto di pietra; e se slarghi l’anima tua dall’abside cupa e grandiosa di S. Maria verso le balze e verso l’Alcantara ti parrà, se sai sognare, di rivedere il fasto passato, e Costanza, e re Pietro D’Aragona, e Federico II e Carlo V e gli altri che dopo aver dato l’impronta loro agli uomini e alle cose, andavano a cercare ristoro alle loro cure lassù, tra le cattedrali famose, salendo tra le pittoresche siepaglie ora rosseggianti di rosolacci e, nell’inverno, di anemoni; ora pallenti di croco, ora biancheggianti per neve.
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L’arte romanica con archi a pieno centro ha rare manifestazioni in Sicilia. Sono romanici a Piazza Armerina il Priorato di S. Andrea, la Comenda di S. Giovanni di Rodi, ma la romanicità delle absidi massicce, dei muri spessi e bassi, delle finestre strettissime, quasi feritoie, a strombature, è interrotta nella purezza del suo stile per l’immissione dell’arco acuto che non è, però l’arco acuto gotico, trionfante più tardi a Messina e che verrà dal nord con valore costruttivo e statico; quello siculo è un arco acuto più sobrio, meno slanciato, più confacentesi alla saldezza atticiata romanica, di puro valore decorativo e importato dai Cavalieri provenienti dal Santo Sepolcro.
L’arte romanica vera, ad arco a pieno centro e rammemorante assai davvicino l’arte dei maestri comacini, la rivediamo pochissimo nelle città etnee: nella porta della Chiesa del Santo Carcere a Catania e, a Randazzo, nella euritmica e solenne, abside della Chiesa di S. Maria.
Chi sale dalle balze soprastanti l’Alcantara vede ergersi la mole turrita di quel abside merlata in parte nelle absidiole, tutta chiusa entro una linea severa limitante il gioco geometrico dei conci perfettamente squadrati sull’altissimo sperone che le cinge, a rafforzarne la base, si aprono le finestre a pieno sesto.
L’abside porta un fregio a sezione rotondeggiante, martellato, elegantissimo, che fa da coronamento a un loggia tino decorativo ricorrente e cieco, ad archetti poggianti su brevi colonnette aderenti: impronta generale questa che riporta senz’altro alle absidi della Cattedrale di Enna, della Badia di S. Spirito a Caltanissetta, dell’abside del Duomo di Cefalù: ma in questa le lesene decorative si allungano verso il basso, fino allo sperone, mentre qui il gioco delle arcate e lo sviluppo delle colonnine è limitato da una zona ricorrente che pare stringa con veemenza di gomena tesa e tenga unita tutta la cortina muraria.
Nelle absidiole è minore il contrasto e il motivo degli archetti pensili si risolve su brevi peducci poggianti su mensolette a base triangolare col vertice all’ingiù.
Le ali del transetto portano altissime bifore incorniciate da un arco inflesso senza cuspide e che preconizza lo sviluppo dell’arco gigliato aragonese; il trapasso è dato dalla leggiadra finestra bifora sulla quale insiste il doppio racemo aragonese, connubio stilistico che riesce a dare una forma addirittura musicale benché nata da opposti stili.
Essa si ergeva appunto a metà della navata di destra e a me pare debba segnare un trapasso fra il primo periodo iniziale, che risente di forme romaniche e sveve, e il secondo che è prettamente aragonese.
E la stessa risoluzione della cuspide gigliata che si rivede vagamente scolpita su portali di Santa Maria di Gesù a Modica, nel torrione campanario della Cattedrale e della Chiesa del Carmine a Piazza Armerina, nella Cattedrale di Alghero in Sardegna.
Pare che il mazzo di fiori o lo stemma centrale pesi tanto da far flettere elegantemente l’arco sì che l’arco acuto sembra una causale derivazione estetica, non conseguenza di una necessità statica per lo scarico delle forze ai lati dell’arco stesso.
Come la pittura di Antonello è documento principale del quattrocento architettonico in Messina (S. Gerolamo a Londra) così una tavola di Girolamo Alibrandi, posta internamente sulla porta meridionale di Santa Maria raffigurante “La salvezza di Randazzo” , ci illumina sull’architettura medioevale del luogo: la visione della città è sintetica, ma non tanto che ci nasconda la vista dei tre campanili svettanti sullo sfondo della mole etnèa che fa da cupo contrapposto ai tre biancheggianti torrioni campanari delle Cattedrali, scisse da annose questioni.
Federico De Roberto nella sua opera su Randazzo (Randazzo e la valle dell’Alcatara) nella quale risolve numerosi problemi di carattere storico, riproduce la tavola preziosa, il quale fa pensare che l’architetto Francesco Saverio Cavallari, (1809/1896) ricostruendo nel 1863 l’avancorpo e la porta sinistra, dovette per certo confermare gran parte della sua ricostruzione allo schema architettonico dato da Girolamo Alibrandi.
Tuttora la Chiesa di S. Maria è una delle opere più notevoli per purezza e per severità di stile. Anche le porte laterali quattrocentesche formano il respiro per il senso musicale che emana dagli archi frastagliati e scorniciati che, colle porte laterali della Chiesa di S. Martino, rappresentano una varietà decisa e profondamente siciliana su quanto i flussi di arte importata andavano creando nel campo architettonico quattrocentesco.
Il turrito campanile di S. Martino, opera che dà il tono a tutta l’architettura trecentesca di Randazzo, si innalza severo su uno sperone altissimo, e su di esso poggiano tre ordini di finestre a fasci di colonne; le finestre bifore dei primi due ordini, sono vagamente intessute, come s’è detto, di strisce di calcare bianco che si alterna colla lava in gioco elegantissimo.
A lato, i fianchi della navata centrale conservano ancora le teorie degli architetti di coronamento, unica espressione superstite della ricostruzione tardiva e barocca.
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Ma dopo tanto sciorinio di vocaboli accennanti a ibridismo stilistico, vien fatto di chiedere: dunque non c’è uno stile siculo ? O se c’è stato, l’influenza bizantina, araba, spagnuola, tedesca è stata tanto potente da schiacciare quella locale ?
Il problema, insito nella domanda, merita una risposta che, del resto, è estensibile a tutta l’arte siciliana.
La Sicilia fu luogo aperto a molte genti che vi scorrazzarono, abbattendo e creando secondo il proprio gusto e il proprio stile. Ne è prova il pullulare dappertutto di opere d’architettura straniera che però raramente è trapiantata con uno stile integro.
Ma gli artisti nostri furono dei grandi adattatori.
Assorbirono le tendenze stilistiche degli altri imprimendovi il suggello dell’arte nostra. Questa è stata finora trascurata dagli studiosi, se si eccettuino Pietro Toesca, Adolfo Venturi, il Rivoli, Giulio Ulisse Arata, per comodità mentale: spesso con i vocaboli misti siculo-normanna , arabo-normanna, siculo- aragonese, gli studiosi hanno voluto denotare l’arte medioevale e del primo rinascimento in Sicilia.
Ormai però è tempo di combattere questi vocaboli vieti, spesso frutto di studi di valore scolastico. Basti vedere il reliquario d’argento di Simone de Aversa nel tesoro nella Cattedrale a Piazza Armerina, o quello del tesoro di S. Agata a Catania, il turibolo, l’estensorio e il calice di re Martino a Randazzo, in queste opere di oreficeria sono espressi pure in tono minore, i motivi tematici di gran parte dell’architettura gotica del tempo ( architettura tedesca, italo-senese, francese, aragonese) e pur tuttavia non troviamo nell’architettura siciliana quasi mai l’attuazione delle regole costruttive sintetizzate nei reliquari che sono come il credo architettonico di quei tempi. Ciò perché i nostri artisti trasformavano imponendo la loro personalità e il loro indirizzo estetico regionale, alle correnti importate.
Che ci impedisce di credere che quel Magistero Petrus Tignosus, autore, sul primo scorcio del duecento, di una parte della Cattedrale di Santa Maria, sia stato siciliano?
Troviamo infatti in tutta la struttura dell’opera sua una concezione veramente nuova nei ritmi delle masse.
Qui a Randazzo se usciamo da via dell’Agonia, che fra i muri sbocconcellati dal morso del tempo mostra una variazione interminata di archi e di costoloni di tutte le epoche, accavallati o sovrapposti stranamente, ritroviamo nelle vie strette e silenziose che muovono verso le Cattedrali, bifore come quelle di casa Cavallaro e altri con archi di pretto gusto catalano o aragonese, ma notiamo intanto lo sfruttamento del contrasto cromatico dato dalla lava, dall’arenaria tenera, dal calcare duro.
Ebbene, il ritmo decorativo a base di contrapposto è nostro, è siculo e se simile variazione cromatica si vede prima nell’arte romanico-normanna o nella romanico-comacina, là essa ha ben diverso impiego estetico.
Ci sono strutture costruttive, del resto, che noi non troviamo in nessun’altra architettura, né la presenza di alcuna espressione stilistica straniera ci vieta di chiamarle forme di arte sicula.
La finestra di Casa Spitaleri riproduce quella del Viale degli Uffici che oggi la natura corona con una pittoresca agave.
V’è stile sicuro nelle colonnine incastrate al muro che sottendente i pilastri, nella variazione del materiale in funzione del colore, nei portali delle umile case di via Cavallotti coll’estradosso lavico che par fatto a tombolo con serico filo a nero.
Questi particolari, la strana forma della bifora di casa Camarda hanno sapore nostro di forza e di contenuta bellezza. Ci vuole tutta la presunzione e la superficialità di alcuni critici francesi che bestemmiano l’arte nostra perché venga misconosciuta la pura sicilianità delle forme architettoniche perietnée.
La fine del 400 si inizia a Randazzo con forme rozze ma originali: le porte laterali di S .Martino con le fuseruole e i serafini nell’estradosso dell’arco, ridiventato a pieno centro sui portali, non hanno riscontro in altre opere; e il coronamento dell’arco, che si trasforma in colonnine tortili a tarda decorazione cosmatesca, è di una bellezza semplice, nuova e possente.
Che vale che contribuiscono elementi del passato ? questi sono elaborati da uomini che rivangano il passato con personalissima ispirazione per farvi germogliare il seme dell’arte nuova.
Gli artisti veri e sommi creando l’opera fanno dimenticare la provenienza delle parti che la costituiscono.
Più tardi il notissimo Mattia Carnilivari personalità più spiccata dell’arte nostra, vedendo Palazzo Aiutamicristo, palazzo Abate…….. quella Chiesa di Santa Maria della Catena a ……… , chiesa che è, in linea massa e ombra……. Che può essere un’aria di Pergolesi o un………mo di Benedetto Marcello, assumerà con…………rabe e modanature bizantine, archi……..aragonesi e piedritti gotici, rifarà sulla nuda……..motivi d’arco randazzesi ritessuti in nuovi indimenticabili rapporti.
P A N O R A M A D I P R O V I N C I A R A N D A Z Z O
2) La Pittura e la Miniatura
La strada che si snoda da Bronte, nei pressi di Randazzo, quasi a voler preparare una sorpresa al viandante, si torce e percorre, scavandolo dalla base, uno scheggiato costone basaltico, concedendo allo sguardo solo le lontane Caronie quasi sempre ammantate di neve e maculate da una larga pennellata violacea: Troina. E quando ancora lo sguardo corre a lontananze a perdifiato e i pioppi della vallata biancheggiano piccolissimi e i quercioli rosseggiano rugginosi, eccoti all’ultima svolta comparire di colpo, erta su uno zoccolo alto, fosco, lavico, la città dalle tre cattedrali archiacuti così come la dipinse Girolamo Alibrandi nella tavola che sovrasta alla porta laterale della Chiesa di S. Maria: Randazzo.
Entrati per la porta aragonese fin nella piazza dominata dal trecentesco campanile, tipico e sfociante di là in una stretta via che si inizia col castello quattrocentesco e si dirama in un dedalo di case medioevali a bifore e ballatoio, ci troviamo a pochi passi da innumeri opere di pittura : il retoricume pseudo critico ne ha eccessivamente valorizzato una parte e la tronfia apologia di teatrali e chiassose opere barocche o di tardi e scialbi seguaci del Conca fino al corretto ma sdolcinato palermitano Velasques (Giuseppe Velasco) ha fatto sì che gli studiosi e i buongustai si siano sviati alle prime indagini.
Ma Randazzo ha opere dugentesche , del primo rinascimento e della rinascenza che ti colpiscono per la loro decisa importanza, indice non trascurabile di quella Randazzo cinquecentesca che a Carlo V dovette mostrarsi opulenta (2), doviziosa di bellezze artistiche attraverso gli intatti monumenti normanni, svevi, aragonesi, catalani vari per stile e per ideale estetico e attraverso le opere di pittura le quali nonostante i morsi del tempo, la perfidia degli speculatori, l’incuria degli uomini e la bestialità dei restauratori, continuano ad affiorare e a cantare un inno alla bellezza e allo spirito creatore.
Giunto a Randazzo, qualche anno fa, per ricercare gli elementi romanici della Chiesa di S. Maria e per studiare il pulpito gotico in S. Martino, entrato nella navatella destra per godere una madonnina di scuola gaginesca posta sull’altare dell’absidiola, rimasi colpito da una tavola o pietra di un metro di base, sulla parete destra; di fronte alla meravigliosa austerità dolorante espressa dalla semplicità e dalla sintesi di un potente primitivo, mi parve che cadessero la dorata se pur semplice cornice, e gli ex voto d’argento o corallinei della madonna accanto, chiassosi come una festa popolare; e la tragica discesa al sepolcro, di buon maestro tenebroso che sta di fronte, nella preziosa cappelletta, mi parve eccessivamente concitata, priva di tragica calma, di solennità e mi parve che che i colori – se pur armonicamente disposti e dominati – mi portassero lontano da quell’aurea mistica, purissima, vibrante di silente spasmo sovrumano che emana dalla piccola tavola.
In fondo l’accenno simbolico della croce; il Cristo esile e spiritualizzato, come stelo spezzato, è retto dalla divina stretta di Maria. L’ideale bizantino qui, quasi spoglio dei suoi tradizionali elementi iconografici e mistici per dar posto a una trasfigurazione palpitante, umana, non è per niente annientato.
Il mirabile artista dugentesco da una tecnica bizantina a lumeggiatture aurate sa trarre una spiritualizzazione sovrumana che ferma il respiro. Tinte verdognole e livide, ombrate dolcemente con terra di Siena e lumeggiatture a oro, càmpano e delimitano il corpo del Cristo e il divino, puro , straziato volto della Madonna.
Il manto, in monocromato di lacca cremisi è limitato tutt’intorno da oro martellato che isola il sacro gruppo in un ambiente convenzionale e ultraterreno; le dita della Madonna si allungano quasi purificate a esprimere una delicatezza che trova riscontro nell’arco sopraciliare dolcemente intagliato sul cupo dell’orbita dalla quale affiora solo la palpebra immota (3).
La deposizione della pinacoteca di Bologna, pur nello stesso filone iconografico di Randazzo, a questa inferiore per certo, impallidisce di fronte alla nostra opera: il convenzionalismo ieratico di quella qui si veste senza disperdere la purezza ideale, di un soffio di umanità che fa della tavola del Maestro di S. Martino una delle opere più rappresentative della pittura dugentesca e trecentesca siciliana, che nelle croci iconolatri che di Messina, Agira e di Cesarò, primitive e potenti, sintesi che è a un tempo mistiche e umane, additano quali dovettero essere le vie seguite dalla pittura in Sicilia (4): quivi il retaggio della pittura bizantina si avviava o verso la via dell’icone popolaresca talora sotto forma di ancona o si trasmutava, lontana dai rinnovamenti cavalliniani e giotteschi, verso forme di piccola composizione in cui il rinnovellato sentimento si sviluppava entro una fissa cerchia di ieratismo insormontabile che costituì una pittura primitiva vittoriosa sui legami tradizionali del passato ma non avviata alle nuove invidiabili risoluzioni della pittura fiorentina e senese.
La privata chiesetta di S. Gregorio, incorporata fra le case di un vicolo sempre verde per le ramature dei vicini giardini e per la glicine che vi si accampa, si annunzia con una cupoletta esagonale a padiglione, per certo del rinascimento.
Vi si va per vedere il quadretto del santo, posto sull’altare, opera dello Zoppo da Gangi. E’ questo di un periodo giovanile del forte pittore siciliano che ancora imbevuto della recente visione dei quadri di Federico Barocco in Roma, si abbandona ad un colore dolciastro come nelle prime opere che dipinse per la città natìa e ben lontano da quel colore armonico e sodo, dal fare lirico ma contenuto che sarà sua caratteristica e sua conquista nelle opere di Polizzi Generosa e di Piazza Armerina.
Ma il godimento che può arrecare la tela dello Zoppo si affievolisce e si spegne se l’occhio si posa, sulla parete destra della nuda navata, su un trittico che ripaga a usura colla sua bellezza il viaggio fino a Randazzo: ché sull’anima di chi ha dimestichezza con la misteriosa voce dei trecentisti il trittico Fisauli è una luce improvvisa, una musica nuova che scaturisce da linee e da tinte inconsuete al nostro occhio di siciliani.
Che il trittico sia stato dipinto a Randazzo é fuor di dubbio; la deposizione del Maestro di S. Martino della quale s’è dianzi detto è servita da schema iconografico ispiratore al Maestro del trittico il quale nella cuspide dello sportello centrale ha immesso, a coronamento decorativo del lacunare raffigurante la Madonna col bambino, la scena della deposizione.
Le altre due cuspidi triangolari e simmetriche accolgono l’Annunciazione, a coronamento delle due figure laterali dei santi. Tutta l’impostazione, la gamma delle tinte sulle quali prevalgono la garanza e il giallo aurato, quel risolvere i valori volumetrici con sfumature progressive verdognole, quel sollevare i piani anatomici lumeggiandoli di misterioso carnicino chiaro talora spinto al giallo, tinta dominante l’opera, ci riportano con troppa immediatezza a quel Turino Vanni da Pisa, trecentista seguace di Taddeo di Bartolo, del quale è nel Museo di Palermo una Madonna con bimbo e Santi (5).
Per noi è di decisivo interesse l’iscrizione dietro una tavola dipinta del Museo di Palermo, riportata dal Di Marzo e che suona così:
Tauleta di Piero de
Tignoso fata adi
Primo di Magio. (6)
Lo stesso stile lega all’opera precedente e a quella di Randazzo una tavola del Louvre firmata : Turinus Vannis de Pisis me pinxit.
Fin qui Gioacchino Di Marzo (1839/1916) che si sbizzarrisce a cercare le origini della famiglia Tignoso in Pisa dimenticando una preziosa scoperta da lui fatta a Randazzo attorno al 1856 e che consiste nel aver egli letto su una lastra di arenaria murata nella Chiesa di S. Maria il nome dell’architetto che lavorò attorno alla bella cattedrale in pieno trecento, quando Leo Cumier aveva già finito la parte absidale romanica:
Magister Petrus Tignoso me fecit.
Nulla di strano che questo Magister Petrus Tignoso (7) abbia posseduto anche il trittico Fisauli in seguito alla permanenza di Turino in questa città il quale, forse anche per comunanza di ideali d’arte, avrà donato, lui pittore, all’archetetto della cattedrale, la tavola oggi a Palermo.
Nella cappella destra del transetto nella Chiesa di S. Martino, e limitata in alto da un coronamento a timpano lunato con deliziosi angeli musicanti, si para la grandiosa tavola della Natività della Madonna già attribuita all’Anemolo (si tratta di Vincenzo Anemolo da Palermo detto il Romano).
Un grande disegnatore l’ha creata: un maestro cinquecentesco che nel suo sintetismo violento in cui il colore è solo mezzo di risoluzione plastica in funzione del disegno, e non altro, profila duramente con fare da medaglista: ha osservato Pisanello, Piero della Francesca, Perugino.
E’ un maestro che dentro la linea stagliata dei contorni, vibrante, fa circolare il colore con ritmo soave: ben diverso dall’artista che nella stessa chiesa dipinge l’Annunciazione venuta alla luce, pur’essa colla cornice cinquecentesca originale, e tratta non so da quale sagrestia.
Opera deliziosa anch’essa ma scaturita da ben diverso spirito e permeata di diversa ispirazione. E’ dalla fine del 500 . Il ritocco, non recente, ha deturpato gran parte della composizione su tela intavolata. Il collo dell’angelo e i segni che squadrano il pavimento sconvolgendo il senso prospettico stonato su tutta l’armonia dell’opera: il senso prospettico è invece mirabile nel paesaggio che s’apre sullo sfondo attraverso una sezione d’arco: a sinistra in alto, una danza di cherubini e l’Eterno.
Il pittore mostra di aver conosciuto davvicino le opere del Greco, specie nello slancio nuovo dell’angelo in abito giallino e veste verdognola. L’Artista limita il gioco della sua tavolozza al verde, al rosso, alla terra d’ombra dai quali trae sobri accordi che conferiscono a tutto il dipinto un’aura mistica.
E’ interrotta l’iconografia tradizionale della Annunciazione: la Vergine volta le spalle al paesaggio raffaellesco e legge. L’atteggiamento dolce è sfiorato dal manierismo nelle mani esili e spiritualizzati.
Ben duro e sordo attaccamento alla tradizione iconografica mostra Giovanni Caniglia (1548) che a S. Maria ripete su una tavola accurata e manierata il transito di Maria che con maggiore libertà ha dipinto in Comiso, nella Chiesa dell’Annunziata, pur rimanendo ligio allo schema dell’ecoimesis bizantina.
Non saprei chiudere in tono rosa questi mi appunti sulla pittura in Randazzo perché il mio pensiero corre – e se ne ritrae dolorosamente – alla tavola tribolata, antonelliana , chiusa accanto a una superba tavola cinquecentesca, già attribuita a scuola raffaellesca ma sicuramente fiamminga, in S. Bartolomeo.
Questa tavola, assai più vicina ad Antonello degli Antoni che ad Antonello de Saliba è stata ritoccata con colori gridellino, violacei con lavature di oltremare, con lacche, con……… che non sono nella forma mentale e nella sensibilità di nessuno dei due maestri ai quale attribuibile l’opera.
Avremmo per certo preferito un restauro che avesse fissato quel che già c’era (restauro oggettivo) o che avesse rivelato quello che si nascondeva, attraverso una scientifica lavatura delle aggiunzioni posteriori (restauro per sottrazione) : Luigi Cavenaghi insegni coi restauri di S. Zosimo a Siracusa e di S. Gregorio nella tavola della Madonna del Rosario ora nel Museo di Messina, opere ambedue del grande messinese all’attività giovanile del quale mi sembra si debba restituire questa preziosissima opera alla quale sovrapposizioni posticce e avventate di vernici e di colori hanno tolto non poco, meno quella fissità cristallina e penetrante dello sguardo, quella squadratura geometrica eppur scavissima del volto, tutte l’impostazione generale, il dominio degli spazi, doti vive e inconfondibili che ci riportano alla Madonna del Rosario di Antonello, ora nel Museo Nazionale di Messina.
IL LIBRO DI PREGHIERE
DI GIOVANELLA DE QUATRIS
Gelosamente custodito nel tesoro della cattedrale, il libro di preghiere di Giovannella De Quatris, (1444 – 15 luglio 1529) , nobile randazzese della fine del quattrocento, chiude fra due valve eburnee, intagliate duramente a basso rilievo, tre lamine pure esse eburnee, sulle quali poggiano attaccate e leggermente erose per lungo, ascetico uso, sei paginette in pergamena.
Il piccolo codice, sul quale la baronessa De Quatris, illetterata, posava lo sguardo a contemplare i misteri della vita e passione di Cristo, misura, aperto, cm. 10×13.
Le valve del dittico che formano come due coperture di guardia al codice miniato, sono divise in due zone. La prima contiene la Crocefissione in alto, e la Resurezzione in basso, l’altra rispettivamente l’Incoronazione e il Transito di N. D.
Una cornice ricorre sopra ogni riquadro e consta di una serie di archetti pensili, ciechi di coronamento.
Sono archetti acuti cuspidati, col giglio apicale di gusto francese e aragonese come se ne rivedono in tutte le tarde forme gotiche sotto la dinastia aragonese in Sicilia: in S. Giorgio a Ragusa Ibla, nell’arco di S. Maria di Gesù a Modica.
L’artefice del dittico ha voluto – con evidente squilibrio di tutto il valore ornamentale – decorare con fogline rampollanti anche la convessità degli archi i quali, nell’intradosso non portano l’arco tribolo come nel tardivo gotico francese dal quale derivano molti, intagli eburnei del tempo, ma hanno l’intradosso liscio e a larga bi concavità come nel gotico siculo.
Egli nell’ingenuo sforzo per riempire tutti gli spazi vuoti con figure che dovrebbero concorrere alla risoluzione dell’episodio mostra subito, co l’accavallamento delle figure stesse senza alcun tentativo di gioco prospettico – non ancora risoluto nell’epoca del dittico – un arcaismo dal quale non si salvano in Sicilia neanche i pittori più egregi.
Anche nella coimesis l’artista segue ancora lo schema bizantino dei mosaici e delle pitture su tavola di Sicilia; e non è da far le meraviglie se – data la persistenza iconografica bizantina in Sicilia – nella Chiesa di S. Maria in Randazzo e nella Chiesa dell’Annunziata in Comiso, Giovanni Caniglia (1548), pittore del cinquecento, arcaico ma non privo di piacevolezza e di originalità in certe gamme cromatiche e in certi impasti, nel transito di N. D. segua pure lo stesso schema iconografico.
Ma nel riquadro del dittico, la sproporzione delle mani e delle teste che vorrebbero dare grandiosità e solennità, quel fare convenzionale dei capelli a masse parallele sfuggenti, trovano compenso nell’illeggiadrirsi delle pieghe naturali soavi attorno alle gambe della Madonna e attorno al corpo della figura accasciata e implorante a lato della bara, La madonna è tutta chiusa nella linea soave creata dalla curva del capo poggiante sul cuscino approntato da mano pia, mentre il volto ristà soffuso da uno spento sorriso smarrito.
E le mani stilizzate, si incrociano con purezza, se pur convenzionalmente, al di sopra del drappo scendente in dure e orbacee pieghe del cataletto.
Non è dubbia, in tutto il riquadro, l’influenza del goticismo francese che per questa opera arriva in Sicilia con un’ondata quasi spenta: basti pensare ai due avori francesi del XIV conservati al Louvre e pubblicati dal Malet. Ma negli avori del Louvre, nonostante l’insistenza dell’attitudine ieratica e convenzionale, la lunghezza delle mani eccessivamente affusolate, c’è nell’artista gotico una consapevolezza e una padronanza del senso decorativo che ci stupisce, un equilibrio nelle masse, in così dolce trapasso di piani nell’avvicendarsi delle pieghe ! E tanto armonica la linea decorativa sottintesa nelle figure secondarie e in special modo negli angeli tubicini e osannanti, che l’occhio ne rimane fermo e sorpreso.
Invece del dittico di Randazzo eco lontana di quelle forme originali nobilissime che in tono minore ci riportano alla scultura monumentale dei portali e dei protiri delle cattedrali francesi, specie nel riguardo della coimesis , si sente un artista nostrano e primitivo nella distribuzione delle parti, che sostituisce alla fluida bellezza dei nordici modelli una robustezza anatomica delineata con rozzezza tagliente e con angolose sporgenze e rientranze: è musica insomma, concepita quasi, in tutte quattro i riquadri, in toni naturali, senza semitoni di trapasso.
Maggior senso di proporzione, di dominio degli spazi, si ritrova nelle altre tre figurazioni. L’espressione dei volti riesce talora caricaturale poiché l’artista, nel definire coll’intaglio la mimica facciale, procede per approssimazione. Riso infatti, più che celestiale e ispirato sorriso, è quello dell’angelo che incorona Maria: allungatissime, forse a indicare il culminare del momento mistico e solenne, le dita benedicenti dell’Eterno, dell’Apostolo del Cristo nei due episodi della prima valva e nell’episodio basilare della Resurrezione nella seconda.
In alto, a destra, nell’episodio della Crocefissione, lo spazio, diviso longitudinalmente in due dal corpo del Cristo contorto entro la tradizionale curva romanica, contiene due gruppi: a destra Longino e Nicodemo oranti e i soldati, affollati, delineati con aspri incavi che duramente sbalzano il drappeggio; a sinistra il gruppo delle donne, tra le quali Maria, esausta, irrigidita in una smorfia di dolore mal resa e convenzionalmente ottenuta dall’artefice, sorretta da mani pietose che stringono l’affannato torace.
Qui l’ondeggiare e l’accavallarsi delle pieghe, resi con grande sensibilità di massa e per piani progressivi, mostrano come l’artista – meridionale probabilmente per l’atticciatezza delle figure e per la robustezza talora eccessive delle masse – si sia giovato, per l’intaglio, di qualche gruppo di modelli francesi del tardo gotico, mentre ha lavorato con proprio slancio di fantasia e con diverso ritmo creatore attorno a certi altri gruppi.
Nel riquadro della Crocefissione vi sono, tra il gruppo circostante di sinistra e quello di destra, tali profonde differenze di concezione dell’anatomia e del drappeggio che se ne può facilmente dedurre la diversità di modello e d’ispirazione.
Dalla Francia numerosi vennero in Italia ,i dittici eburnei e non è escluso che da noi abbiano avuto larga eco in varie riproduzioni simile, forse della stessa officina d’arte riprodusse il modello dittico, è quello di Sassoferrato (8) in cui però l’equilibrio degli spazi, la battuta larga ed armonica, la proposizione degli scorci anatomici ci portano lontano dal nostro e se mostrano la similarità fanno pur sentire la statura di un artista superiore.
Ma la fonte della Crocifissione è ben riconoscibile : è il dittico della passione della Collezione Hainauer di Berlino. Il taglio quadrato, ancorché rettangolare, del piccolo lacunare contenente la scena, non ha permesso all’artista del dittico di Randazzo di addensare tutti i personaggi entro il riquadro e ha tolto Longino e Nicodemo d’attorno al Crocifisso. E ben probabile poi che il dittico di Berlino sia servito di modello mediato attraverso qualche copia o qualche replica: ché nel nostro dittico, benché le figure siano quelle del modello, più pigiate e addossate , v’è tale sciatteria che non sapremmo immaginare il diretto influsso dell’avorio francese eletto nella forma, squisitamente patetico negli atteggiamenti : del resto, evidente distanza di tempo separa le due opere. La prima, della metà del secolo XIV, la seconda della fine del secolo quando, spento ogni flusso di idealismo – sia pure trascendente e convenzionale – per l’introduzione del realismo straniero, l’arte fu portata a tendenze spiccate verso forme drammatiche e patetiche; certamente, non tutti gli artisti riuscirono compiutamente e rapidamente a togliersi dal solco della tradizione.
Certo, esistono dei modelli perfetti : ma le derivazioni, pur conservando l’iconografia che potremmo dir nuova, mostrano eccesso, banalità, manierismi.
La Vergine negli intagli eburnei tardivi, non sta più diritta fra i due angeli, una si curva verso di loro, sdraiata; nella tragedia del Calvario ognuno, come dice il Malet (9) , si torce sui suoi piedi col più melodrammatico dolore e il Cristo, curvo in due sulla Croceé ondulante fra il gruppo delle donne e dei soldati come in balia di un vento violento.
Le forme che la tradizione aveva imposto, imbevute di grazia impeccabile e concludenti gli episodi in disposizioni ingegnosissime donde balzava lo spirito altamente decorativo del’artista, declinavano ormai; le forme sfociavano in un realismo gretto e greve.
A questo periodo di realismo svisato, mal compreso e mal reso, crediamo che appartenga il dittico di Randazzo; il quale pur avendo con altri – come si è dianzi detto – termini di similarità persino nella cornice archiacuta di gotico fiorito, mostra nell’artista un valente imitatore che pur sentendo qua e là l’eleganza e lo slancio gotici, rimane, a nostro modo di vedere, specie nella durezza delle masse anatomiche e nell’arcaismo della distribuzione, un siciliano della fine del secolo XIV o del primo scorcio del XV.
LE MINIATURE
Di stile più prettamente francese sembrerebbero, in una prima visione sommaria, le sei miniature contenute nel dittico creato per certo a contenerle dopoché esse furono ritagliate da qualche “officium” per servire da guida spirituale alla De Quatris.
Il largo margine vergine che corre attorno alle riquadrature delineate violentemente in sepia e a doppia squadratura, escluderebbero nell’artista la volontà a fare l’opera di decorazione comune ai miniatori palermitani e arabo-siculi che nelle cassette e sulle pergamene, in preda a uno slancio decorativo, ornano di racemi, di ori, di fuseruole, di bacche, di volute, tavole e pergamene.
L’artista qui ha voluto soprattutto rappresentare; l’elemento decorativo è spostato: da esterno diventa intimo e concorre a rendere soprannaturale la scena che nella rappresentazione delle figure cerca di essere realistica o, per lo meno, naturalistica. Le figure, manchevole nel nudo, ma sode e ben postate quando sono vestite perché l’artista conosce il ritmo delle pieghe cascanti secondo la legge della gravità, profilate con precisione si ché coll’avvicendarsi delle e delle ombre ne risulti modellato tutt’altro che debole, sono immerse in un’atmosfera di sogno, talora, come nell’Annunciazione, sotto un cielo convenzionale in cui lo razzare della luce è inquadrato in una rete di righe aurate a quadri. Vano è parlare di veridicità cromatica, di corrispondenza al vero di pittura e tanto più quando si parla di miniatura; ad ogni modo l’artista non vuole solamente liricizzare il colore locale delle cose ma vuole addirittura portarci in un ambiente irreale nel quale si svolga però l’episodio con palpito e con naturalezza umana : l’artista vuol giungere al mistico attraverso l’equilibrio tra il reale plastico delle masse anatomiche e l’irreale convenzionale del colore ambientale e paesistico.
Il sacro lungo uso del delizioso libretto attenuato qua e là le tinte senza però troppo scialbarle né logorarle; l’effetto cromatico è ancora completo. Il cielo, nella scena dell’Annunciazione, che nello schema iconografico segue quello della corrosa Annunciazione della finestra basilare del trecentesco torrione di S. Martirio, è purpereo, e di un cremisi cupo è nella scena del Cristo alla Colonna.
Quest’ultimo episodio, ingenuo nella rappresentazione degli alabardieri resi male per l’inversione della statura che porta a una errata valutazione della distanza prospettica , e ingenuo ancora per la goffa apparizione dell’Eterno, pur essendo dello stesso maestro che ha miniato gli altri fogli, mostra più a nudo le qualita negative dell’artista che nelle altre miniature se scopre delle manchevolezze attribuibili all’epoca in cui egli operò, mostra d’altra parte qualità di disposizione delle figure e soprattutto una spiccata tendenza alla musicalità del colore che ritroviamo poi sviluppate solo nel tardo quattrocento, nelle miniature palermitane.
Nella scena dell’Annunciazione Maria, serenamente atteggiata, con un rotulo svolto sulle gambe, in ambio manto celeste lumeggiato dall’artista con un cobalto sereno che si risolve in accordo coll’azzurro d’oltremare delle pieghe cupe, profonde, sinuose, elegantemente contenute, ristà sotto un baldacchino di cadmio tutto dorato dai raggi del sole; l’angelo in lucco rosso e con ali acutissime che rammentano quelle delle miniature francesi del trecento, è genuflesso; e divide architettonicamente lo spazio in diretta corrispondenza coll’oggetto del baldacchino: da un ornato porta fiore emergono fogli e gigli; la scena si svolge su un pavimento a scacchi verdi e neri che chiedono con tono freddo e intonato tutta la gamma cromatica della composizione. La scena della Visitazione si svolge entro un recinto limitato da un incannicciato, il tradizionale e ancor comune “cannizzu” siciliano che si rivede anche nella Natività né mi pare sia questo un riempitivo di indole nordica.
Torrioni apparsi nella lontananza che li separa, si ergono in alto, sulla collina retrostante. Anche qui il rosso mattone della veste di S. Elisabetta, è intonato colle tinte espresse nella miniatura. Più solida nel colore è la miniature della Presentazione al Tempio; stridente pel contrasto che nasce da gridellino dell’abito di Giuseppe di fronte all’azzurro di cobalto del manto della Madonna immersa in una fiamma convenzionale, amplissima che la circonfonde e l’altra raffigurante la Natività; ambedue queste miniature mostrano qualità di disegno e un senso così marcato della plastica e della profondità – che diventa ammirevole risoluzione prospettica nello sfondo della trabeazione, costituito da un loggiato – da far pensare quasi che l’artista abbia cominciato dalla Crocefissione e dal Martirio alla colonna e che dopo varie incertezze e inciampi nella risoluzione dei vari problemi anatomici e paesistici abbia meglio padroneggiato i suoi mezzi sboccando con vero lirismo pittorico in quelle figurazioni che cronologicamente sono anteriori nella vita del Redentore.
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Ma ci occorre il problema del collocamento cronologico e della provenienza.
Dissi sin da l’inizio che le miniature appaiono francesi. Ed è verosimile che l’artista sia stato educato a modelli francesi. Un’analisi minuta ci porta ben lontani. Nelle presenti miniature il convenzionalismo, se c’è non è gotico; è nel colore e questo può essere frutto di quella spiccata tendenza al colore irrazionale che i siciliani ereditarono dai bizantini e dagli arabi.
Né vale che spesso siano state illustrate leggende cavalleresche o sacre di sapore provenzale come nello steri o nel tetto di S. Nicolò a Nicosia, o nel tetto del Duomo di Messina ; in Sicilia la tendenza al colore irrazionale fu intimo bisogno di decorazione sognatrice, non convenzionalismo di importazione straniera; né d’altra parte affiora in questi fogli miniati quell’eleganza slanciata ma chiusa e fredda del gotico tardivo francese.
Nel Nostro codice, l’elemento figurato, umano o divini, sematico insomma, è reso con quel naturalismo stentato, ma naturalismo, che ritroviamo in Sicilia verso il quattrocento; quivi l’arco acuto comparso prima dell’evento del gotico, scompare presto e il primo rinascimento quattrocentesco ci dà nuovamente l’arco molto schiacciato, quasi a pieno centro, dal quale è bandita ogni idea di goticismo; e ricompare qualche decorazione cosmatesca come nel palazzo Ciampoli di Taormina, nel palazzo Clarentano e nelle case di via dell’Agonia a Randazzo; nella miniatura dell’Annunciazione la decorazione del mur0 di cinta del baldacchino, se pure aprossivamente, rammemmora la decorazione cosmatesca; e nella Presentazione lo sfondo è pienamente quattrocentesco nella semplicità del loggiato, nella rotondità degli archi ; e questo maestro che in luogo di giocare per impasti di tinte preferisce dipingere a forti tinte locali, lumeggiando poi per sovrapposizioni filiformi e chiare, porta nella sua tecnica, nella comprensione prospettica, nella variazione cromatica dei piani, gusto strano e rozzezza e dev’essere stato un primitivo siciliano del quattrocento educato soprattutto alla scuola di quei freschisti della Sicilia centrale che negli affreschi di S. Andrea di Piazza Armerina e di S. Spirito a Caltanissetta fanno sentire come le miniature in questione siano lontana e indiretta filiazione di quegli affreschi.
Le opere qui presentate valgono da sole a conferire dignità a una città specie se questa possegga, come Randazzo, opere coeve di architettura e di scultura che concorrono a lumeggiare senza interruzioni né pause i vari secoli della malnota arte del meridione.
Ma altre opere di natura notevoli e del tutto inedite si nascondono ancora all’occhio superficiale di chi visita Randazzo coll’ausilio di quelle guide che si ricalcano da ottant’anni senza un nuovo apporto di ricerche sagaci.
In S. Maria tutto è conservato con cura e con amore; e accanto alle opere di Giuseppe Velasques, palermitano, corretto nel disegno, piatto e incombente nella prospettiva, scialbo e dolciastro nel colore, si conservano due opere degni di interesse, potenti per l’animazione che le agita, per il tenebrone bituminoso di sfondo che ne valorizza vie più il senso plastico delle figure dando la sensazione tattile, quasi del valore dei volumi.
Si tratta di certo di un maestro tenebroso che ha molto da vicino seguito lo stile del Preti; nel martirio di S. Agata e in quello di S. Andrea (S. Lorenzo ?) , purtroppo dominato dai giochi di lacche cremisi e violette che lo indeboliscono, mostra delle qualità ben più alte e lontane per indirizzo estetico e per concezione delle forme da quell’Onofrio Gabriello al quale il Di Marzo aveva in un primo tempo attribuito le due tele.
Lo stesso amore vorremmo che fosse esteso alle opere anteriori qua e là chiuse e colpevolmente abbandonate alla corrosione della polvere: la tavola della chiesa di S. Giuseppe e la tela parlano di un abbandono che va spezzato, e di colpo.
Varie ancone quattrocentesche scoloriti ma ancora parlanti di un’epoca e di una creazione spesso geniale, sono state spostate, dimenticate, mal ritoccate. E qualche chiesa – orribile a dirsi – è stata ceduta parecchi decenni addietro a dei porcai, a dei vinai e rinserra preziosissime tracce di affreschi dugenteschi.
Siamo certi di non dover ripetere per la città di Radazzo, l’imprecazione altamente drammatica nella sua bianca solennità che Natale Scalia dalle colonne di “Siciliana” lancia alla sua Catania mentre il patrimonio artistico di questa si dissolveva.
Come oggi Catania va con mille cure cercando per mezzo dei suoi studiosi le orme del passato e va riconsacrando nel suo Museo in formazione le gloriose forme ansiosamente radunate e classificate, così Randazzo vorrà, sotto la guida del suo primo cittadino che con intelletto d’arte e d’amore ne regge le sorti, fermare nella discesa dell’oblio e della dispersione quelle opere che portano fino a noi l’eco non ancora sperduta di indimenticabili bellezze.
ENZO MAGANUCO
NOTE:
(1) La tavola fu riprodotta dal De Roberto nell’opera “Randazzo” della collezione “Italia Artistica” dell’istituto d’arti grafiche di Bergamo, opera che rimane fondamentale per l’orientamento negli studi Randazzesi, specie nel campo storico .
(2) Sulla venuta di Carlo V a Randazzo, cfr. Castaldo V.. “ Il viaggio di Carlo V in Sicilia” , in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, XXV, fasc. I, pag. 98; e più propriamente cfr. Mandalari, “Ricordi di Sicilia, Randazzo”, Lapi. Città di Castello, 1911, pagg. 26-28 e ancora 192-193.
(3) Dimenticata anche dalle guide più ciarliere la tavola impressionò profondamento il Di Marzo giovanissimo e ancora in preda a quell’entusiasmo fervoroso che talora lo portò ad attribuzioni e a giudizi avventati dei quali però nobilmente fa ammenda nelle pensate opere della maturità. Egli nelle sue note al “Lexi con Topograficum di Vito Amico, Palermo, 1856, vol.II, pag. 410, note sempre preziose anche quando diano solo un primo elenco catalogico, dice: “ oltre l’interno di ragguardevole, una pittura del cinquecento di circa palmi 4, sopra pietra, e forse a tempera, rappresentante la Beata Vergine sotto la Croce col Cristo estinto nelle ginocchia”.
Né meglio la inquadra nel tempo un Finocchiaro mentovato in una guida ottocentesca di Randazzo, adespota e non datata, il quale senz’altro l’attribuisce al Giotto.
(4) Le croci d’iconostasi sono numerosissime in Sicilia, e di esse solo qualcuna ha avuto la fortuna un accurato studio e della divulgazione; da quella primitiva della Chiesa dell’Immacolata in Agira, sale do fine alle tardive quattrocentesche, si può seguire, in mancanza d’altri elementi, il cammino della pittura siciliana seguendo la parabola iconografica che ha il suo maggior sviluppo in quelle di Cesarò e di Troina sulle quali verterà un mio imminente studio.
Per quanto riguarda la croce di Termini Imerese (Ruzzolone), cfr; Di Marzo, “ La pittura in Palermo nel Rinascimento), Palermo, Reber, 1899, pag. 208, e in quella della Catredale di Piazza Armerina, cfr; Mauceri E. “Sicilia Ignota”, in “L’Arte” gennaio 1906, pag. 17; Maganuco Enzo “ La pittura a Piazza Armerina , Siciliana”. Catania, agosto 1923.
(5) Cfr. Accascina M., “ Pitture Senesi nel Museo Naziona le di Palermo”, in “La Diana” 1930, fasc. I
(6) Cfr. Di Marzo, “ La Pittura in Palermo nel Rinascimento”, 1899 pag. 43.
(7) Cfr. Di Marzo, “ note al Lexicon Topograficulos.
(8) Cfr. Serra Luigi “Arti minori nelle Marche”, Emporium. Aprile 1928 228.
(9) Cfr. Koechlin Raimond , “ Les Hiroir Gothiques in Miscel,Histoire de l’arte” tomo 11 pag.456 .
Ringrazio don Paolo Amistani dei Padri Salesiani del Collegio di Randazzo per le preziose indicazioni di cui mi fu prodigo durante le mie ricerche sull’arte medievale randazzese.
ENZO MAGANUCO
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Abbiamo voluto impreziosire questa pubblicazione del prof. Enzo Maganuco per rendere la lettura più agevole e soddisfare le curiosità del lettore degli Artisti e critici citati dall’Autore. Molti termini sono di non facile interpretazione, ma con l’aiuto del web si possono capire. Questa rivista è stata sicuramente pubblicata prima dell’estate del 1943 in quanto il Maganuco non parla della distruzione, ad opera della guerra, di molti edifici ed opere d’arte. Nel 1932 venne a Randazzo come è testimoniato da Angela Militi nell’articolo della Chiesa di S. Agata e nel 1939 pubblica il libro “Cicli di affreschi medievali a Randazzo e a Nunziata di Giarre” , quindi la data della pubblicazione di questa rivista dovrebbe essere entro queste due date.
A noi ci è pervenuta soltanto una fotocopia mal fatta che la dottoressa Maristella Dilettoso (che ringraziamo per la sua collaborazione) non ha avuto esitazione a mostrarcela dalla quale abbiamo dattiloscritto questo testo.
Data l’importanza del Personaggio se si hanno altre notizie saremmo ben lieti di pubblicarli.
Francesco Rubbino
Giuseppe Velasco nacque a Palermo nel 1750 da genitori spagnoli, Fabiano Ugo de Generalife e Anna Rodriguez.
Fin da giovanissimo appassionato di pittura, a 15 anni mutò il suo cognome in onore del pittore spagnolo Diego Velázquez, secondo alcuni per l’esistenza di una lontana parentela.
I pittori Gaetano Mercurio e Giuseppe Tresca furono i suoi principali maestri ma nelle sue opere appaiono ben evidenti le influenze raffaelliane.
Dal 1795 ebbe inizio una collaborazione intensa e prolifica con l’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia con il quale collaborò alla decorazione del palazzo Costantino, della Villa Belmonte all’Acquasanta e di Palazzo Geraci.
Tra le maggiori opere di Giuseppe Velasco si ricordano le decorazioni del palazzo Belmonte Riso, della villa Valguarnera a Bagheria, della chiesa di S. Antonio di Padova, dell’Orto Botanico, della Casina Cinese nel Parco della Favorita, della grande sala del Parlamento al Palazzo Reale, della Chiesa di Montevergini e della Casina Reale di Ficuzza.
Lavorò alla realizzazione di tele in tutta la Sicilia dalla quale sembra non si sia mai allontanato.
Fondò l’Accademia del Nudo presso la Regia Università a Palermo e la diresse fino alla sua morte, che avvenne a Palermo nel 1827.
Una sua opera, la “Gloria di Santa Chiara”, si trova a Lentini nella chiesa della SS trinità e San Marziano.
Giuseppe Velasco (Palermo, 16 dicembre 1750 – Palermo, 7 febbraio 1827) è stato un pittore italiano.
Giuseppe Velasco o Giuseppe Velázquez (correnti le varianti Velásquez o Velasquez o Velásques o Velasques) è in Sicilia e in Italia uno dei più importanti rappresentanti del neoclassicismo del tardo XVIII e inizio XIX secolo. Figlio di genitori spagnoli Fabiano Ugo de Generalife e Anna Rodriguez, all’età di 15 anni decide di cambiare il suo cognome in omaggio al grande pittore spagnolo Diego Velázquez. Sacerdote francescano scopre la passione per la pittura e nel 1770 sposa Marianna Puleo. Nel 1798 incontra Vincenzo Riolo concedendone in sposa la figlia Anna. Per lungo tempo lavora con l’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia insieme al quale esegue diversi lavori: Palazzo Costantino di Palermo e la Palazzina Cinese nel Parco della Favorita di Palermo.
Nel periodo 1785 – 1790 collabora con l’architetto Léon Dufourny per la scuola del Giardino Botanico Reale di Palermo dove manifesta la sua piena maturità artistica.
Sotto il regno dei Borboni in Sicilia negli anni 1798 – 1802 e 1806 – 1815 trae i favori della sua origine spagnola.
Ottiene i consensi del Vice Cancelliere Caramanico il quale assegna assieme al Marvuglia, varie commissioni della corte borbonica. Nel 1805 è nominato direttore di artistico presso la Regia Università di Palermo.
Allievo dei pittori Gaetano Mercurio e Giuseppe Tresca, insegnante di Valerio Villareale, si dedica in particolare alle rappresentazioni mitiche e religiose eseguite con la tecnica a olio e prodotto numerosi ritratti personaggi per lo più borbonici.
Tecniche abituali: il bianco e nero, la pittura a fresco, imitando lo stile di Raffaello dal quale trae fonte di ispirazione. Ha avuto grande interesse per il pittore Pietro Novelli, del quale ha restaurato molte opere e sviluppato le sue abilità di osservatore e copiatore.
Le sue opere principali si trovano a Palermo, in Sicilia, territorio che non ha mai abbandonato durante tutto il suo operato.
È sepolto nella Cripta dei Cappuccini a Palermo.
Opere
Affreschi
• 1767, Ciclo, affreschi eseguiti come discepolo di Giuseppe Tresca nella realizzazione delle volte della navata centrale: La Regina Ester al cospetto di Re Aussero, Giuditta, Assunzione della Madonna al Cielo. Quattro quadri, due del Nuovo Testamento lato cornu evangelii e due del Vecchio Testamento lato cornu epistolae del duomo della Vergine Santissima Del Soccorso di Castellammare del Golfo.
• 1776, Ciclo, affreschi con scene della vita del conquistatore di Costantinopoli, opere realizzate nel Palazzo Costantino di Palermo.
• 1776, Storie di Mosè e Storie di Sant’Antonio di Padova, affreschi raffiguranti gli episodi della Vergine che offre il Bambino a Sant’Antonio, Il piede riattaccato, La predica ai pesci, La risurrezione del morto, Sant’Antonio e i mendicanti, opere presenti nelle volte delle cappelle della chiesa di Sant’Antonino di Padova di Palermo.
• 1792 – 1796, Ciclo, affreschi del Gymnasium dell’Orto botanico di Palermo.
• 1798, Ciclo di Santi, raffigurazioni di San Pietro, San Matteo, San Paolo e Sant’Andrea, affreschi realizzati nella chiesa di San Matteo al Cassaro di Palermo.
• 1799, Apoteosi di Ercole e delle sue gesta, ciclo di affreschi realizzati nelle volte e sulle pareti del Salone di Ercole del Palazzo Reale di Palermo.[1]
• 1805, Ciclo, affreschi mitologici realizzati nella Palazzina Cinese nel Parco della Favorita di Palermo.
• ?, Psiche condotta nell’Olimpo da Mercurio e tele con Storie di Amore e Psiche, opere presenti nel Palazzo Ganci di Palermo.
• ?, Decorazioni monocromatiche, raffigurazioni di Storie di Santa Chiara, affreschi presenti nella chiesa di Santa Maria degli Agonizzanti di Palermo.
• ?, Decorazioni sovra porta, affreschi realizzati nel Palazzo Trabucco della Torretta di Palermo.
Dipinti ad olio
• 1772 – 1775, Ciclo, San Benedetto che abbatte gli idoli, Estasi di Santa Scolastica e Presentazione al tempio, dipinti su tela, opere commissionate per la chiesa di San Biagio di Nicosia.
• 1775, San Benedetto, dipinto su tela, opera custodita nella chiesa dell’Immacolata Concezione al Capo di Palermo.[2]
• 1787, Miracolo di San Vincenzo Ferreri, dipinto su tela, opera custodita nella chiesa di San Domenico di Palermo.[3]
• ?, Ritratto di Santa Rosalia, dipinto su tela, opera custodita nella Cappella di Santa Rosalia, transetto della Cattedrale di Palermo.
• 1797c., Arcangelo Raffaele, dipinto su tela, opera custodita nella cappella eponima della basilica di San Francesco d’Assisi di Palermo.[4]
• 1799, Il Sogno di Guglielmo il Buono, dipinto su tela, opera documentata sulla scala del monastero dell’Ordine benedettinodi Monreale.
• 1801, Assunzione di Maria, dipinto su tela, opera custodita nella Cattedrale di Palermo.
• 1803, Santa Cristina incoronata da Cristo, dipinto su tela, opera custodita nella Cappella di Santa Cristina della Cattedrale di Palermo.
• 1808, Presentazione a San Benedetto, dipinto raffigurante San Benedetto, San Placido e San Mauro, opera custodita nella chiesa di San Salvatore di Noto.
• 1808, Adorazione dei Magi, dipinto su tela, commissione per la chiesa di San Salvatore di Noto.
• 1809, Annunciazione, Assunzione, Incoronazione della Vergine, ciclo mariano di tele, opere custodite nella basilica minore di Santa Maria Assunta di Randazzo.
• 1812 – 1816, Martirio di Sant’Andrea, Martirio dei Santi Filippo e Giacomo, Sacra Famiglia, ciclo di tele, opere custodite nella basilica minore di Santa Maria Assunta di Randazzo.
• XVIII secolo, Consegna delle chiavi a San Pietro, dipinto su tela, opera conservata nel duomo della Natività di Maria di Castelbuono.
• XVIII secolo, Miniature, decorazioni di portantina settecentesca, opera custodita nella sacrestia del duomo della Natività di Mariadi Castelbuono.
• XVIII secolo, Deposizione, dipinto su tela, opera conservata nel duomo della Natività di Maria di Castelbuono.
• XVIII secolo, Opera, dipinto su tela, opera conservata nella chiesa di Santa Rosalia di Corleone.
• XVIII secolo, San Benedetto, dipinto su tela raffigurante il fondatore dell’Ordine benedettino nell’atto di ricevere la veste, accompagnato dai discepoli, opera custodita nella chiesa di San Giorgio in Kemonia di Palermo.[5]
• XVIII secolo, Resurrezione di Nostro Signore e Adultera, dipinti su tela, opere custodite nella cattedrale di San Nicolò di Nicosia.
• XVIII secolo, Noli me tangere, olio su tela, opera custodita nella chiesa di Santa Lucia di Mistretta.
• 1793, San Paolo cura gli infermi, San Paolo cura il padre di Publio, dipinti su tela, opere custodite nel corodella chiesa di San Paolo Naufrago di La Valletta, Malta.
• Appartengono allo stesso ciclo e commissione del vescovo Vincenzo Labini: Maria Vergine della Provvidenza 1804, Maria Vergine della Carità con San Giuseppe, San Gaetano, Sant’Agata, Gloria di San Filippo raffigurato con le anime del Purgatorio.
Ritratti
Velasco dipinge i ritratti di Giuseppe Ventimiglia, Monsignor Antonio Ciafaglione, Ferdinando III, Ignazio Marabitti e della famiglia Airoldi Marchesi di Santa Colomba d’origine lombarda.
Opere di Giuseppe Velasco esposte nella Basilica di Santa Maria – Randazzo